18 Aprile 2012
in: B. Mapelli, S. Ulivieri Stiozzi (a cura di), Uomini in educazione, Stripes 2012

Sette piccole storie di identità e saperi maschili, nella scuola superiore italiana

di Alessio Miceli,

Grazie per la sollecitazione di questo convegno, “Uomini in educazione”, che mi trova in due posizioni che cerco di incrociare nel mio intervento.

Una è quella della mia partecipazione all’associazione Maschile Plurale[1], che rappresenta per me anche un modo di essere uomo in educazione, negli incontri con i ragazzi e le ragazze di scuola. In particolare, c’è questo parlare rivolto specificamente ai maschi, sul tema della violenza contro le donne e delle identità maschili a fronte di quelle femminili. L’altra mia posizione è quella di essere insegnante di scuola superiore, in un istituto tecnico/liceale dove insegno diritto a degli adolescenti, ragazzi e ragazze che vanno dai quattordici ai diciotto, diciannove anni. Quindi vi porto qualche esempio di cosa penso del mio lavoro da insegnante, incorporato nel mio sesso maschile.

Provo a esprimermi tramite il racconto di storie, a raccontarvi alcuni dialoghi, spezzoni, frammenti che tiro fuori così, in pillole. Naturalmente estrapolare poche frasi è diverso dal raccontare un intero rapporto con delle persone, però spero di selezionare bene e così di dirvi qualcosa di questa traiettoria del parlarsi “da uomo a uomo”, da uomo a ragazzo, comunque nell’essere in questo corpo di maschi.

1 – Corpo e immaginario sessuale maschile

 

Parto dal raccontarvi uno scambio con Enrico, un ragazzo di sedici anni, nel mentre si sta parlando dei temi propri delle identità maschili.

Enrico si avvicina nel corso di questo incontro, è uno di quei ragazzi che non ha più niente da perdere, pluribocciato, non ha nessuna finalità, quindi interpreta quel tempo e quello spazio paradossalmente per confidarsi. E’ un incontro libero, svincolato dalle logiche del profitto, del rendimento, della bocciatura o della promozione. Così Enrico mi mostra un giornale porno e mi dà un po’ di gomito, mi dice: “Eeeh, visto? Che ne dice?”. Io gli rispondo: “Mah, a me sembrano delle fotografie”. Lui guarda un po’ di traverso quel giornale e dice: “Sì, in effetti sono delle foto”. Io a quel punto trovo il varco e incalzo: “Sì, perché non so se tu ce l’hai lungo trenta centimetri”. E lui: “No…”. Io: “Ma è un problema?”. Lui: “No, non è un problema”. Ci mettiamo d’accordo che non è un problema.

Così Enrico trova la libertà di chiedere qualcosa a un maschio adulto sul suo e sul nostro corpo, nell’uguaglianza proprio sessuale, cioè mi sta chiedendo se lui è adeguato o se non lo è, rispetto alle rappresentazioni di grandi prestazioni sessuali maschili e di prevaricazione sull’altro sesso che vede nella maggior parte della pornografia. Poi un altro ragazzo mi dice: “Attenzione, però, la pornografia è una forma d’arte” e allora si apre un altro discorso su quale tipo di pornografia sarebbe una forma d’arte e perché, e bisogna anche riconoscere che ci sono diversi aspetti della pornografia, per esempio la cosiddetta post-pornografia, che raccontano altre storie. Ma per tornare ad Enrico si apre questa possibilità, nella traiettoria “da uomo a uomo”, da maschio a maschio, e anche da adulto a ragazzo, di parlare delle nostre prestazioni e soprattutto delle nostre rappresentazioni sessuali.

 

 

2 – Desiderio femminile, a specchio di quello maschile

 

Valentina, invece, è una ragazza di quindici anni e quando trova anche lei quella confidenza, sempre all’interno di un discorso sull’immaginario sessuale, apre l’astuccio e mi mostra un paio di manette: “Visto, che cosa ho?”. E io le chiedo: “Come le usi?”. Valentina: “Le uso con il mio ragazzo”. Io: “E ti piace?”. Valentina : “Non lo so”. Io: “Forse dovresti pensarci”…

Allora, cosa sta succedendo in questo scambio, questa volta nella differenza sessuale? Valentina mi sta dicendo che non sa bene quale sia il suo desiderio. Lei ha questo strumento, questo attrezzo che potrebbe essere di gioco e di piacere, però non sa se quel gioco le piace. Quindi, esplicitando il fatto che io sono un uomo e che sono lì per ragionare anche di sesso e poi spesso della connessione tra sessualità e violenza, una ragazza trova lo spazio con un maschio adulto per dire: “Io sono in questa relazione, in cui uso questo strumento con il mio ragazzo” e però si svela che questo gioco è giocato da lei senza sapere bene dove sia il proprio desiderio, rispetto alle immagini codificate di sottomissione femminile nel gioco erotico.

 

3 – Riconoscimento maschile

 

Vi porto ancora un terzo esempio, di qualcosa che invece succede in un’attività di gruppo. Ultimamente, all’interno della rassegna di intercultura per le scuole “Sogno in due tempi”[1], organizzata con grande cura dalla Caritas di Lodi, partecipavo ad un incontro forse più impegnativo, perché non si parlava genericamente di sessualità ma di tratta. Doveva esserci anche Isoke Aikpitanyi[2], che però adesso è sotto minacce serie e non riesce più a intervenire in questi incontri, quindi mi ritrovo a parlare con circa duecento ragazzi e ragazze di tratta, di costrizione di tante donne alla prostituzione. Allora la discussione si fa più tesa, si parla di questa postura di tanti maschi a imporre le prestazioni sessuali, quindi ci spostiamo in un campo dove decisamente la sessualità incrocia la violenza. Lì è più difficile parlare in pubblico per i ragazzi, così troviamo la soluzione di fare scrivere dei post-it con cui ciascuno può esprimersi nell’anonimato, e poi questi verranno letti non dalla stessa persona. In uno di questi post-it c’è scritto: “E’ normale, nel fare sesso, volere far male?”. Due ragazzi, maschi, mi vengono a parlare alla fine dell’incontro e uno in particolare ci tiene a dirmi: “Sono stato io a scriverlo, non avevo il coraggio davanti a tutti, ma volevo parlarne”.

Vi racconto questo scambio, adesso, non solo per i contenuti, ma anche per dire di come questo sapere che un uomo porta di se stesso nella relazione, appunto come uomo e non come soggetto neutro, credo non possa essere oggettivato. Cioè nel momento in cui io provassi ad astrarre quello che so e a metterlo lì a disposizione genericamente di tutti, credo che questa comunicazione che invece accade in una relazione, in un contesto, non potrebbe essere.

Tornando al nostro esempio, la discussione si svolge così. Il post-it riporta la frase che vi dicevo: “E’ normale, nel fare sesso, volere far male?”. Io chiedo a quel ragazzo: “Ma tu per far male intendi picchiare?”. Lui mi risponde: “No, non è picchiare”. Io: “Allora siamo nell’immaginario, in quello che pensiamo, sentiamo, in quello che ci rappresentiamo?”. Il ragazzo: “Sì, sono delle immagini”. Allora lo scarto avviene quando io mi espongo e dico: “Scusami, parlo come si parla in questi casi tra di voi adolescenti e spesso tra noi maschi. Per esempio ti dico che a me, se vedo immagini sado-maso, non mi tira”. A quel punto il ragazzo trova la possibilità di entrare nel discorso, di quando a lui “tira” o meno, quando ha un’erezione, quando si eccita o non si eccita, e parliamo su questo livello. Questo livello, appunto, è fatto di un sapere incarnato, soggettivo. Se io avessi scritto le stesse cose e lui le avesse lette su un libro non sarebbe stato lo stesso, non è la stessa vibrazione che passa. La possibilità di parlare, tra un maschio adulto come sono io e un adolescente, della mia e della sua eccitazione o non eccitazione nella connessione tra sessualità e violenza, ci apre reciprocamente delle porte.

Io imparo da lui che nel suo dire volere far male non intende picchiare, ma vuole significare un’espressione di forza, di potenza, e poi parlando viene fuori che per lui è importante esprimersi così, perché così l’altra lo riconosce. Quindi un maschio di diciassette anni sostanzialmente mi sta dicendo: “Quando io faccio sesso, quello a cui sono teso, quello a cui tendo e che mi fa stare anche in tiro, proprio sessuale, è il fatto di dimostrare una potenza che l’altra mi deve riconoscere, è questo che mi eccita”. E io ho la possibilità di dirgli: “Guarda che c’è una connessione tra riconoscimento, piacere, violenza, e questo è un nodo abbastanza intricato ma di cui si può parlare. Hai fatto bene a scriverlo e a venire a dirlo, io sono con te a parlarne su questo piano”.

 

 

Questa è la prima traiettoria che vi volevo portare, che in Maschile Plurale chiamiamo da uomo a uomo. C’è anche una lettera che abbiamo intitolato così, “Da uomo a uomo”[3], scritta in occasione della nostra manifestazione del 2009 a Roma contro la violenza maschile sulle donne, che vuole significare questa traiettoria del discorso.

Io ve la sto riportando per come diventa nel rapporto tra me, che ho quarantanove anni, e i ragazzi che stanno in quell’età compresa tra i quattordici e i diciotto. Chiaramente questa traiettoria, questa relazione è segnata dai nostri corpi e dal nostro pensiero dei corpi, non soltanto dal dato fisico ma da come noi leggiamo questi corpi.

 

 

Mi sposto adesso sulla mia esperienza di insegnante, pensando anche questa da uomo. Questo mi porta nell’area dei saperi, costruiti storicamente come saperi maschili, spesso funzionali a mantenere l’ordine sociale dato. E qui i passaggi successivi che vi riporto tendono tutti a dimostrare questo: che trovo davvero vitale, nella scuola, scardinare questa logica dell’istituzione[4].

E’ stato già detto, in altri interventi precedenti, che man mano che si sale nei gradi dell’istruzione, man mano che subentrano i saperi astratti, formalizzati, tecnici, sale la presenza di uomini e, aggiungo io, sale anche “l’ormone intellettuale maschile” (scherzo, ma alludo al carattere roccioso di quella costruzione culturale) che produce anche dei danni, a cui è importante rimediare. Mi spiego meglio con dei brevi esempi.

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