25 Luglio 2004
il manifesto

Lettera al manifesto

Anna Leoni

Sono una insegnante del Liceo Agnesi e assisto con un misto di sconforto e indignazione alla polemica che si è scatenata nelle pagine estive di quasi tutti i giornali sulla formazione della “classe islamica”, alle accuse di discriminazione e di tentativo di emarginazione, di incostituzionalità addirittura, che testimoniano un completo travisamento di quelle che sono le nostre motivazioni e convinzioni più profonde.
Ci siamo spiegati male.
Ho – abbiamo – votato sì al progetto presentato al Collegio Docenti, e al Consiglio di Istituto perché ho – abbiamo – pensato che la proposta, per quanto irta di pericoli, primo tra tutti quello di essere fraintesi e strumentalizzati, di difficoltà operative, di necessità di lavoro e impegno enormi per la scuola, fosse un dovere morale a cui non potevamo sottrarci e una sfida all’oscurantismo al quale nel nostro piccolissimo abbiamo sempre cercato di opporci.
Ho – abbiamo – votato sì prima di tutto perché abbiamo pensato a quelle ragazze, a quei ragazzi quattordicenni schiacciati tra due muri, vittime dell’integralismo e della incomprensione, di famiglie che oscillano tra il desiderio di integrazione e la paura dell’assimilazione, di una società che pare incapace di affrontare la realtà della presenza di “altri” di cui si ha insieme bisogno e paura.
Abbiamo pensato che quei quattordicenni avessero non solo diritto allo studio – sancito dalla Costituzione – ma anche il diritto di andare a scuola, in una classe omogenea è vero (inaccettabile la definizione di ghetto) ma con gli stessi programmi, attività e docenti di tutti gli altri, immersa in un istituto di oltre 1300 studenti, con spazi e momenti comuni in cui da anni convivono tranquillamente allievi di molti paesi diversi.
Abbiamo avuto fiducia che il tempo giocasse a favore, nella possibilità che tra giovani si aprissero canali di comunicazione, di integrazione impensati.
Ho – abbiamo – votato sì ad un compromesso. Ci sarebbe piaciuto accogliere tutte quelle ragazze e ragazzi nelle nostre classi come sempre. Ci è stato spiegato dagli stessi canali ufficiali che ci proponevano l’iniziativa, che questa eventualità non era data. L’alternativa per loro, che con fatica avevano sostenuto, dopo la scuola islamica, l’esame di licenza media grazie ad un progetto del Provveditorato e ad un lavoro di molti mesi con insegnanti italiani, sarebbe stata l’interruzione degli studi, peggio ancora la semi-clausura nella comunità o il ritorno ai paesi di origine da nonni e parenti spesso sconosciuti. Molti di questi ragazzi sono nati in Italia.
Ho – abbiamo – votato sì perché abbiamo interpretato questa disponibilità della comunità di Via Quaranta come un grosso passo avanti, probabilmente molto sofferto, che meritava un nostro passo indietro, in quello che potrebbe diventare una metà strada. Per aprire, uso le parole del nostro preside, una crepa sul muro.
Ho – abbiamo – votato sì sapendo che la nostra decisione non sarebbe passata inosservata, perché pensavamo di avere dei validi alleati, quegli stessi che avevano proposto e fortemente caldeggiato l’iniziativa e promesso di accompagnarci nelle inevitabili difficoltà, primi tra tutti il Provveditorato di Milano, nostro referente istituzionale più immediato, e la stessa Provincia di Milano.
Pensavamo di avere dalla nostra anche la Costituzione.
Sono ancora convinta di aver fatto la cosa giusta, di aver votato, e non certo a cuor leggero, una scommessa difficile a fronte di una realtà ancora più difficile e fino all’altro ieri disinvoltamente ignorata da tutti.
La classe-ghetto non si farà, la Costituzione sarà salva, gli animi placati.
Mi chiedo dove andranno a scuola Jasmina e Mohamed in attesa che sia fondata per loro la scuola islamica. Che certamente non sarà un ghetto.

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