20 Febbraio 2007
la Repubblica

L’Italia delle famiglie con un solo genitore

Già oggi è composto così l’11% dei nuclei familiari
E il trend è in crescita: in due anni sono aumentati del 28%
Concita de Gregorio

La famiglia del Mulino Bianco, padre madre e due figli, maschio e femmina, meglio se biondi, non esiste più da parecchio tempo nemmeno nelle pubblicità. Persino le cifre della statistica, che arrivano sempre fredde e in ritardo, la fermano agli anni Cinquanta: la media di quattro persone per nucleo familiare è del censimento del 1951. Nei cinquantasei anni venuti dopo, più di mezzo secolo, c’è stato il divorzio, il crollo demografico, la crisi economica e l’edonismo anni Ottanta, la cultura del figlio unico che non è stata solo una scelta economica ma culturale, figli iperprotetti che poi sono oggi i «giovani adulti» di 25-30 anni che non se ne vanno da casa, perché dovrebbero, stanno benissimo lì. Tra chi ha meno di 34 anni solo poco più della metà vive in coppia: gli altri a casa dei genitori, quelli che possono e che ci riescono (quelli che vogliono, a leggere le sentenze della Corte di Cassazione) da soli. C’è una grande questione «legata al tema dell’assunzione di responsabilità», dice Pietro Scoppola lo storico cattolico che di figli ne ha cinque: intende dire una certa carenza. «È una civiltà la nostra in cui scema l’istinto di sopravvivenza. I figli non sono più l’obiettivo», secondo Roberto Volpi che sulla Fine della famiglia ha appena scritto un libro: fine prevista per il 2050. I matrimoni civili sono uno su tre, al Nord uno su due. I genitori anziani restano in carico ai figli quarantenni, convivono con loro e coi nipoti perché altra assistenza non è data: ecco le famiglie sandwich. Pezzi di coppie che si ricompongono e formano famiglie allargate ai figli degli uni, ai genitori degli altri.
Rosy Bindi, al ministero, sta preparando la conferenza nazionale sulla famiglia che si terrà a maggio a Firenze. Affluiscono dati dall’Associazione famiglie numerose (una rarità, ormai: intorno al 7 per cento), dalla Caritas e dalla fondazione Zancan, dai Centri famiglia delle Asl e dall’Osservatorio sulla famiglia di Bologna, da miriadi di associazioni che versano numeri e storie e alla fine dicono questo: il sacro vincolo di cui parla la Chiesa, la famiglia fondata sul matrimonio e “benedetta” dall’arrivo dei figli, è già da anni in minoranza nella vita reale. Sono 42 su cento, meno della metà con tendenza al ribasso. Gli altri, le 58 famiglie “diverse”, sono formate in prevalenza (25) da persone sole, single o anziane, in larga parte da coppie senza figli che fermamente non ne desiderano (22), da genitori soli coi figli (11). I figli naturali, quelli nati fuori dal matrimonio, sono uno su 5: in ogni classe di scuola elementare che ne sono almeno quattro. Ci sono regioni, la Liguria, in cui le coppie con figli sono meno del 30 per cento: una su quattro è la famiglia dei vescovi, le altre tre no. Fine delle statistiche, inizio delle storie.
“Famiglie monogenitoriali”, c’è scritto con formula orrenda sui rapporti. Per esempio questa. Gina Larocca ha 43 anni, due figli di 14 e 7, una gatta. Vive al piano alto di un condominio, Roma Nord. In casa libri, stoffe, disegni. Fa la costumista, «in verità sarei stilista ma si deve campare», ha un contratto a termine per nove mesi con una produzione tv, ne restano sette «per un po’ stiamo tranquilli». Il padre dei ragazzi è andato via da casa due anni fa, «il 5 aprile del 2005». Piccolo altare buddista in salotto. Riviste di musica sul tavolo, dietro alla porta scarpe da tango. Piano settimanale di attività e turni attaccato al frigorifero. Ha un aiuto? «No, facciamo da soli. Le madri dei compagni di classe, gli amici. Qualche rara sera una baby sitter. Poi soli. Il grande, Tiziano, certe volte cucina». È frequente, dice Gina: non è una storia eccezionale, capita. Certo che capita: a più di una coppia su dieci, ecco, vede l’Istat. «Sì, se il matrimonio non funziona cosa vuoi fare, noi ci eravamo sposati anche in chiesa, è stato per compiacere i miei che sono cattolici. Visti da fuori sembravamo una famiglia felice, una coppia di riferimento per gli amici ma non era vero, tante volte la realtà è così diversa da quello che sembra. Quando è arrivato Ludovico eravamo già in crisi fonda ma lui si era nascosto benissimo, fino al quarto mese di gravidanza risultavo negativa ai test perciò quando l’ho visto in ecografia gli ho detto va bene, ok, hai vinto tu. Mi sono avvicinata al buddismo. Meno male che è nato».
Due figli, lavoro precario, nessun aiuto domestico, orari incompatibili coi tempi della scuola e delle attività del pomeriggio, dei prendilo-accompagnalo-portalo. Qualche desiderio di leggerezza, anche, perché a 43 anni la vita non è mica finita. «All’inizio è stata durissima. Sono anche andata in Africa a lavorare in una missione umanitaria: due settimane, ho lasciato i bambini a lui. Sono tornata, non ce la facevo. Ho cominciato a mandare curriculum, cercavo lavoro stabile. Mi hanno aiutato, ci hanno aiutato anche gli psicologi dalla Asl. Un Centro famiglia, sì. I ragazzi hanno sempre saputo tutto dal principio. Il piccolo pensava che il papà non volesse più stare con lui e piangeva e allora lo prendevo in braccio e gli dicevo “non è con te, è con me che non vuole stare più”. Però penso che sia bene che abbiano visto la mia fragilità: si può affrontare un grande dolore e si può continuare a vivere. Il male si affronta si attraversa e si supera». I soldi, c’è il problema dei soldi. Molti lavori a contratto ma nessuna sicurezza. Il padre dei ragazzi precario anche lui, ha un lavoro solo da pochi mesi. Come si fa coi soldi?
«Certo con lavoro sicuro sarebbe diverso: a noi per vivere ci servono 1500 euro al mese, con 1800 facciamo un po’ di vacanza ma non sempre ci sono e non sempre ci sono stati. Adesso abbiamo comprato la casa, è costata poco era una casa degli enti. L’abbiamo riscattata insieme, il padre dei ragazzi ed io, anche se siamo separati: per loro. È un pensiero in meno e un impegno in più. Soldi da buttare non ce ne sono, ecco, per niente. Non sono mai stata a sindacare su quanto mi dava il padre e se me lo dava. Se non poteva pazienza. Non abbiamo fondi pensione, non abbiamo altra assistenza sanitaria che quella pubblica. Lavoro da quanto ho 18 anni. Vorrei poter spendere cento euro per un corso serale per me senza sentire che li sto togliendo a loro. Il corso di coro gospel non costa quasi i figli restano i miei maestri preferiti». niente, pochissimo «ma sapesse quanto aiuta cantare in coro, ascoltare le voci degli altri, il canto mette pace nei cuori». C’è il tango, anche. «Ecco sì il tango. Per una come me, che ha sempre fatto tutto da sola come un carroarmato, che si è sempre portata dietro anche quelli che arrancavano sapesse che risettaggio è camminare all’indietro a occhi chiusi, farsi portare. Un’ora la domenica, niente. Ma è proprio come fare reset al computer, ricominciare da capo». Il piccolo gioca alla play station, il grande è a basket. Vuole giocare da professionista nella Nba. «Allora gli ho detto ok, ci dobbiamo mettere a studiare inglese. Quest’estate si va in Inghilterra. Non so come faremo ma faremo. Loro mi insegneranno come. Tra i tanti insegnanti che ho trovato per strada i miei maestri preferiti sono i figli».
(1- continua)

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