31 Agosto 2022
Diotima Filosofe

Lo specchio velato: trasformazioni soggettive nella relazione con donne migranti

di Giannina Longobardi

 

Intervento per il XXXIII Seminari Públic Internacional de Duoda Centre de recerca de dones Universitat de Barcelona: Amistad en contraste. El arte de las relaciones intraculturales entre mujeres (Amicizia nel confronto. L’arte delle relazioni interculturali tra donne), Barcellona 14 maggio 2022

 

Vi ringrazio moltissimo dell’invito che mi permette di essere oggi qui con voi. Preparare questo intervento mi ha dato l’occasione di ripercorrere le fila di un’avventura, di un interesse e di un impegno che mi hanno coinvolto negli ultimi trent’anni della mia esistenza.

Il mio racconto riguarda la nascita e lo sviluppo, a Verona, di un Centro Interculturale di donne, che si chiama Casa di Ramia e si soffermerà su alcuni incontri importanti per me.

Quello che caratterizza Casa di Ramia, è che è nata come luogo di scambio e di conoscenza reciproca tra italiane e straniere e il fatto che, benché figuri tra i servizi del Comune, non è un luogo di assistenza a donne in difficoltà. E un luogo di tessitura di relazioni tra donne aperto a qualsiasi donna voglia proporre o partecipare a qualche attività. Volevamo un luogo dove incontrarci per conoscerci al di fuori di quegli scambi monetari attraverso i quali entriamo in contatto con le donne immigrate. Conoscersi è l’unico modo per vincere una doppia estraneità, quella di chi si sente arrivato in un mondo sconosciuto e quella di chi vede che la città ha cambiato volto e non la riconosce più. Conoscersi è un modo di addomesticarsi, di rendere domestico il luogo in cui viviamo.

Casa di Ramia è anche un centro di ricerca e di formazione permanente: fin dalla sua nascita è stata feconda la collaborazione con l’Università, che ha sede nello stesso quartiere, e oggi, soprattutto all’opera di due docenti, due amiche di Diotima, Rosanna Cima e Maria Livia Alga è un punto di riferimento per chi lavora nei servizi sociali.

Quando entro in Casa di Ramia, ho spesso l’impressione di trovarmi in un centro sociale, invece che in un servizio comunale. I luoghi istituzionali hanno orari, spazi definiti, e regole. Casa di Ramia è praticamente sempre aperta: sette giorni la settimana – e affidata alle molte donne che ne fanno uso per le loro attività. Questa forma di autogestione, basata sulla fiducia, è possibile solo perché chi la dirige se ne assume coraggiosamente la responsabilità. Elena Migliavacca è l’amica, di professione assistente sociale, partecipe fin dall’inizio a questa avventura, cui ottenemmo fosse affidato il Centro fin dall’inizio.

Ho affermato che si tratta di trent’anni di coinvolgimento mio personale e penso a tre periodi diversi: i primi anni sono quelli dell’incubazione – anni ’90 – il periodo in cui cresce il desiderio di conoscere le nuove abitanti della città e si intrecciano relazioni tra persone che condividono lo stesso desiderio; segue poi il periodo in cui si compiono i passi necessari a permettere una contrattazione istituzionale con il Comune (creazione nel 2000 di un’Associazione di Donne Italiane e Straniere, Ishtar). Finalmente, dopo cinque anni, nel 2005, si arriva all’apertura del centro da parte dal Comune di Verona.

Prima di cercare di delineare per voi alcune figure che mi sono care, la storia di alcuni incontri, desidero tornare alla storia degli inizi. Agli anni che ho chiamato di incubazione.

In quegli anni insegnavo in un liceo, partecipavo ai lavori di Diotima, Comunità di Filosofe, mi coinvolgevo nel lavoro della pedagogia della differenza, ma continuavo anche la mia formazione. Frequentavo le lezioni e i seminari di Letizia Comba (di lei si possono leggere alcuni saggi nei primi libri di Diotima) che insegnava psicologia dell’arte: nelle sue lezioni si intrecciavano ricostruzioni di genealogie femminili, immagini della Grande Dea negli studi di Gimbutas, miti sumeri della Grande Madre, il sufismo di Attar, quello di Rumi. Alle studenti diceva: si debbono sempre tenere aperte le grandi domande (quelle che riguardano noi e il senso della vita), e indicava la necessità di un passaggio, di una trasformazione, che esprimeva con un gesto: passare da qui, e si toccava la fronte, a qui, e la mano era sul cuore. Per operare questo passaggio dall’intelletto al cuore, al sentire profondo, Letizia Comba sperimentava l’effetto delle immagini, del mito, chiedeva che ciascuna si interrogasse sulle risonanze: come ti tocca?

Sempre all’Università di Verona, c’era un altro insegnante che nutriva interessi singolari, Gabriel Sala che, oggi direi, ricordandolo con gratitudine, e anche con qualche ironia, voleva diventare uno sciamano. Nelle aule dell’Università fece arrivare i suoi maestri sciamani siberiani, con tamburi, resoconti di visioni e racconti di guarigione. Tra loro Nadia Stepanova che oggi insegna sciamanesimo in Buriazia, all’Università di Ulan-Udė: solo nel 1987 aveva potuto far uscire lo sciamanesimo dalla clandestinità cui il regime sovietico l’aveva costretto. Appartenente ad una famiglia che vantava una genealogia di potenti guaritori, solo da adulta aveva deciso di aderire alla chiamata che gli spiriti le rivolgevano in sogni spaventosi. Del suo racconto la cosa che colpì di più me, che pensavo ancora che le immagini che ci visitano appartengano al nostro inconscio, culturale o personale che sia, fu il fatto che quando viaggiava, nel mondo intermedio che lei sapeva frequentare, incontrava gli spiriti del luogo, entrava cioè nel pantheon locale. Se era in Buriazia vedeva gli spiriti del posto, ma se era in Italia e visitava Siena vedeva e descriveva Santa Caterina, della quale prima di allora aveva ignorato l’esistenza.

Come se oltre il cielo a noi visibile, ce ne fosse un altro, cui la maggior parte di noi non accede, popolato e pieno delle grandi figure di trapassati che in quel luogo hanno vissuto e sono state venerate.

Anche altri incontri confermavano l’esistenza di una dimensione alla quale, dopo la distruzione del sapere delle streghe, nessuna di noi sa come accedere.

Una signora, bionda e sottile, che veniva dal sud del Brasile raccontò la sua storia: ragazzina in cura psichiatrica perché vedeva cose che gli altri non vedono, era stata accolta come allieva da una vecchia nera, una curandera: la sua baracca nella favela era evidente meta di pellegrinaggio. Aveva imparato da lei a governare i suoi doni visionari e ad usarli per guarire: le era stato insegnato a entrare e a uscire a suo piacimento da quello stato di coscienza in cui l’invisibile le si rendeva visibile. Le bastava qualche boccata da una piccola pipa (cachimbo) per entrare in uno stato di trance; allora non era più lei, l’espressione del viso e la voce si trasformavano, ed era Preto Velho, il vecchio nero, archetipo dello schiavo africano nell’umbanda. Come potei poi verificare, frequentandola, trasfigurata in questo spirito visualizzava cose non presenti e le riferiva con estrema precisione all’interrogante cui le consegnava in una registrazione perché sosteneva che, tornata in sé, non aveva più memoria di ciò che era accaduto.

Arrivarono anche, in quelle aule, etnopsichiatri da Parigi, da Losanna, che, benché formati nella tradizione psicanalitica occidentale, mettevano in questione l’efficacia delle nostre cure nei confronti di persone provenienti da altre culture.

In questo periodo di incubazione, di incontri e di letture, il mio, il nostro posso dire perché non ero sola, sguardo su chi veniva da lontano cambiava, li avevamo pensati poveri secondo la nostra misura solamente economica del valore, si mostravano invece ricchi, ricchi di saperi e di esperienza dell’invisibile, nutriti da culture che avevano mantenuto viva la capacità visionaria, la relazione con i trapassati e con gli spiriti naturali. Povere eravamo noi che del reale, e di noi stesse in esso, conoscevamo una sola dimensione. Non sapevamo più avere visioni come le sante, né volare fuori dal corpo come le streghe e avevamo perso anche l’idea del fatto che l’invisibile possa essere più significativo del visibile.

La nascita del gruppo e i primi equivoci

Negli anni ’90 a Verona la discussione sulle pratiche interculturali era iniziata soprattutto tra le insegnanti della scuola dell’obbligo che si ponevano molte domande sulle modalità più adatte di accoglienza dei bimbi figli di immigrati. Domande che un po’ alla volta, molto lentamente, si sarebbero posti anche i servizi di cura, gli ospedali, e i servizi sociali.

In quegli anni, per far fronte alla difficoltà di comunicazione alcuni stranieri già esperti, donne soprattutto, si offrivano ai loro compatrioti come traduttrici e mediatrici tra le regole delle nostre istituzioni e i bisogni dei loro connazionali nuovi arrivati. Quella che sarebbe diventata la figura riconosciuta del mediatore culturale era nata in modo informale dalla rete di solidarietà di migranti.

Il primo corso ufficiale per mediatrici culturali che avrebbe permesso il passaggio dal volontariato a una figura professionale riconosciuta si tenne a Verona tra il 1999 e il 2000. Fu l’occasione per noi di incontrare quelle donne straniere che sarebbero state nostre compagne nel dar vita a Ishtar, poi alla costruzione di Casa di Ramia.

Il titolo di mediatrice culturale era ambito da donne che in quanto immigrate subiscono una totale dequalificazione professionale: i loro titoli di studio non sono riconosciuti per esercitare libere professioni, né per partecipare a concorsi pubblici. A donne straniere laureate e professioniste si offrono generalmente lavori di servizio alla persona o pulizie.

Le aspiranti mediatrici, che diedero con noi vita ad Ishtar erano donne colte, intraprendenti, delle vere protagoniste, e facevano quella che noi donne consideriamo la vera politica: tessitura di relazioni, con uno sguardo attento alla situazione dei compatrioti, delle donne, dei bambini.

L’idea stessa di mediazione culturale presentava ambiguità che favorivano la nascita di conflitti tra donne provenienti dallo stesso paese, c’erano tra di noi diverse marocchine, a chi di loro si sarebbe attribuita l’autorità di spiegare alle amiche italiane la cultura del Marocco? Quella che prega per la salute della sua anima o quella che sostiene spavaldamente che per la cura di sé è meglio andare in palestra?

Quando alle persone viene chiesto di essere rappresentanti di qualche cosa, emerge irrimediabilmente la povertà della nostra domanda e gli stereotipi abbondano. Data la astoricità della nozione di cultura che, anche a livello di senso comune, ci è stata trasmessa da certa antropologia, tra italiane e straniere si verificavano anche degli equivoci a proposito della richiesta dell’originario.

Ricordo una serata dei primi tempi: le amiche del Ghana invitarono un gruppo che cantava e faceva musica. Alcune italiane affermarono deluse, sono degli spirituals, non è musica africana, dimenticando l’origine afro degli spiritual americani… Le amiche africane piccate: questa è la nostra cultura oggi, quella che si canta nelle nostre chiese, quell’altra l’ha distrutta il colonialismo.

Accadde anche che fossero le amiche straniere a non tollerare la rappresentazione della loro cultura che veniva offerta in occasione di spettacoli, spesso organizzati da Ong. Una sera andiamo tutte a teatro dove c’è uno spettacolo di maschere dogon. La mia amica del Togo è disgustata dall’addomesticamento folclorico: questa è roba per voi, le maschere girano con grande strepito nelle strade per tre notti di fila e nessuno osa uscire, noi si sta tutti rintanati in casa per non incontrare gli spiriti!

Nel micro di una modesta città di provincia, si verifica ciò che accade anche nel macro: la finzione dell’originario, ad uso e consumo di chi ha il denaro, siano turisti o giovani studiosi, fenomeno che è oggi oggetto di riflessione da parte dell’antropologia stessa. I giovani antropologi che vanno in Mali sull’altopiano dei Dogon per proseguire le ricerche dell’etnologo Marcel Griaule si trovano davanti testimoni che danno risposte autentiche, consultando il testo stesso di Griaule (Il dio d’acqua del 1948). Dato che Griaule ha ritratto i veri dogon, i dogon di oggi possono solo metterlo in scena per la nostra soddisfazione. È un gioco di specchi nel quale chi ha il potere riesce sempre a farsi dire quello che desidera ascoltare e non incontra altro che se stesso.

Una difficoltà imprevista riguardava la categoria le straniere, di cui noi, italiane, avevamo dato per scontata la pregnanza politica.

Già nel primo periodo emersero alcune ingenuità delle donne italiane: chi è straniera? Lisa Jankowski, l’amica tedesca di Diotima, che a Casa di Ramia ha dato vita al Gruppo poesie dal Mondo, e ha favorito la nascita del coro, lei vive in Italia da cinquant’anni… È straniera? No, dicevano alcune, noi cerchiamo relazioni con le straniere vere. E Vanessa Maher, che aveva allora la cattedra di Antropologia all’Università di Verona e che tanto luogo ha avuto nelle storie che vi racconto, è straniera? Sì, rispondeva lei raccontando tutti gli equivoci nei quali si era trovata nel corso della sua vita piena di spostamenti. Nata a Nairobi, in Kenia, è africana, anche se è bionda?

Maggiormente denso di conseguenze fu quello che scoprimmo subito, al momento stesso dell’apertura di questo spazio pubblico destinato alle donne: solo ad alcune donne straniere interessava, come alle italiane, frequentare quelle donne che noi chiamiamo migranti; alla maggior parte di loro interessava soprattutto incontrare donne provenienti dal loro stesse paese. Avevano bisogno di parlare la propria lingua, di conoscersi e aiutarsi reciprocamente, di avere un luogo per tramandare ai bambini cose che altrimenti andrebbero perse. Subito, Casa di Ramia, situata in un quartiere dove è forte la presenza di srilankesi, è stata richiesta come palestra dove insegnare le danze tradizionali ai bambini. La domenica mattina la Casa è occupata da badanti provenienti dall’Ucraina che dopo una settimana di solitudine passata con qualcuno dei nostri vecchi hanno bisogno di ritrovarsi tra loro, cucinare a modo loro, parlare la loro lingua. Non è, come avremmo potuto pensare noi, il momento delle badanti, ma quello delle ucraine che, del tutto casualmente, furono le prime a fare richiesta di poter usufruire di questo spazio. Romene, moldave, bulgare vennero immediatamente escluse perché non avrebbero potuto condividere quel clima di intimità che nasce quando si è tra noi. Così molte delle nostre amiche diedero vita a diverse associazioni di donne marocchine, nacque l’associazione Malve di Ucraina, ci fu un’associazione peruviana, c’è stata un’associazione di Nigeriane che affrontavano il problema dei matrimoni misti…

Incontrarsi tra migranti è, invece, cosa che interessa soprattutto gli uomini. Se le donne desiderano stringere legami con le loro connazionali, sono gli uomini a costituire Coordinamenti Migranti perché hanno a cuore soprattutto i diritti, si occupano di relazioni con la Questura, di permessi di soggiorno, di richieste di cittadinanza, di ammissioni alle graduatorie per gli alloggi popolari. Avremmo dovuto forse saperlo, dato che sappiamo bene che donne e uomini hanno modi diversi di rapportarsi alla sfera pubblica, in realtà non lo avevamo previsto.

La presa di parola

Casa di Ramia non è un luogo dove si risolvono i problemi, spesso gravi, della vita materiale delle donne migranti, né è un luogo dove si elaborano strategie di lotta, è un luogo in cui le donne trovano la possibilità di riappropriarsi della grandezza femminile che è in loro, scoprendo nelle altre la forza che anche a loro appartiene. Le pratiche di presa di parola, che sono state sperimentate richiamano quelle nate nella storia dei gruppi femministi, con un’attenzione particolare al coinvolgimento dei corpi, alla gestualità, con momenti di espressione corale delle emozioni nella danza, nel canto. Si crea un clima di vicinanza, di fiducia, di accoglienza reciproca. Ci sono anche dei momenti che assomigliano alla celebrazione di rituali sacri. Quasi sempre mentre si parla o si ascolta si fanno insieme delle cose. La parola accompagna il fare. Houda (Marocco) legge fiabe, altre commentano, ricordano, aggiungono, mentre altre lavorano insieme ad un grande telaio. Sandra (Nigeria) taglia le stoffe e cuce a macchina, a volte parla, mentre altre anche cuciono, si provano ridendo i nuovi vestiti. Oppure si parla in cucina mentre si mette in pentola quello che poi si condividerà. Sono i modi tradizionali dello stare insieme delle donne: parlare mentre si fa. Si può anche riunirsi in salotto, ma non è questa la modalità in cui molte si sentono a proprio agio: è una modalità di stare insieme troppo di testa. Anche quando fanno dei laboratori nelle classi della scuola dell’obbligo le nostre amiche mettono i bambini a fare qualche cosa. Brigitte faceva infilare perline colorate mentre raccontava storie o cantava qualche canzone in lingua togolese. Non parlava del Togo, non lo rappresentava, in qualche modo era lei il Togo, lo portava lì e i bambini l’amavano molto.

Il gruppo narrazioni funziona da anni sotto la guida esperta di una giovane scrittrice. La narrazione viene costruita circolarmente a partire da un oggetto, o da una parola stimolo che suscita dei ricordi: al racconto dell’una risponde il racconto di un’altra. La conduttrice tiene traccia di ciò che viene raccontato e la volta seguente lo restituisce al gruppo. Ognuna sente che la sua parola è stata ascoltata e accolta e che anche lei ha contribuito al racconto collettivo. Ci sono delle regole: si ascolta, si aggiunge una perla alla collana di frammenti vivi, ma non si giudica né si commenta il racconto dell’altra. A proposito di questa pratica scrive Elena Migliavacca: Il cerchio pone tutte sullo stesso piano, restano dei ruoli nel gruppo ma prendono un altro peso… Ci si siede per terra, attorno ad una piccola fiamma, e si ascolta il racconto dell’altra, fino a che emerge la voglia di raccontare il proprio frammento di storia. E precisa poi: Di racconto in racconto l’io si stanca di identificarsi e giudicare, e il giudizio cade. La sua caduta apre uno spazio di libertà impensato, è un guadagno per tutte. Un guadagno di libertà (Allargare il cerchio, p. 81). Che cosa significa cessare di identificarsi con sé stessi per fare spazio all’altra? Significa accogliere la sua differenza e sapere entrare in risonanza, lasciare spazio alle emozioni e all’immaginazione. Smettere di rifiutare ciò che non conosciamo per esperienza diretta. Il cerchio nel quale risuoniamo non è lo specchio nel quale si riflette la nostra immagine, ma qualche cosa di più grande, di molteplice, di più complesso. Ne nasce una conoscenza reciproca che risponde al nostro bisogno umano di riconoscimento e anche un cuore più grande capace di fare un posto, affettivo, all’altra dentro di sé.

Rileggendo Non credere di avere dei diritti, il testo nel quale le donne della Libreria di Milano hanno ricostruito la storia della nascita del loro movimento politico, ho notato quante volte ritorna l’immagine dello specchio a proposito della scoperta che le donne nei gruppi di autocoscienza facevano di ciò che le accomunava, di ciò che le rendeva simili. Ciò che le rendeva simili era la comune esperienza dell’oppressione subita nel patriarcato. In questa ricerca di somiglianza però quello che non poteva emergere era la differenza, quel di più di desiderio, di libertà interiore già conquistata che erano vive in alcune. La scoperta delle madri di tutte noi come in quel testo si racconta era la possibilità che dallo specchio riverberasse il riflesso, l’immagine di qualche cosa di più grande, di qualche cosa che la singola non era ancora, ma che era possibilità anche per lei.

Nell’esigenza di avere davanti a sé uno specchio, costituito dallo sguardo amoroso dell’altra, si esprime il nostro bisogno umano di riconoscimento. Abbiamo bisogno di essere riconosciute nella nostra umanità, in ciò che ci rende uguali e di pari dignità, ma anche nella nostra unicità, nella nostra differenza. Differenza che è iscritta nel nostro corpo e costituita dalla nostra storia.  Il bisogno di rispecchiarsi nello sguardo di un’altra che ci rimandi un’immagine di grandezza è particolarmente vivo nelle donne migranti che hanno sofferto lo strappo dell’allontanamento dal luogo natale e patito una rottura insanabile tra il prima e il dopo. Nella quale il dopo molto spesso implica insignificanza, solitudine, invisibilità, dequalificazione, povertà, spesso disprezzo razziale.

Quali che siano le ragioni che hanno spinto una donna a espatriare, si tratta di un avvenimento tragico come testimoniano le moltissime, bellissime pagine che María Zambrano ha dedicato all’esilio. Fino a che rimaniamo nell’ambiente natale, la nostra storia, quella che fa di noi ciò che siamo, è naturalmente condivisa con chi conosce la nostra famiglia d’origine e con quelli con cui siamo cresciute ma di essa, delle nostre radici, non abbiamo più alcun testimone quando siamo in un paese straniero. Rileggiamo le parole che María Zambrano mette in bocca ad Antigone: Nella nostra casa cresciamo come le piante, come gli alberi; la nostra fanciullezza è lì, non se n’è andata, però si dimentica. Nella nostra casa, nel nostro giardino, non abbiamo bisogno di avere tutto presente, tutto il giorno, né di tenere tutta la nostra anima all’erta, tutto all’erta il nostro essere. No: in essa dimentichiamo, ci dimentichiamo. La patria, la propria casa, è prima di tutto il luogo in cui si può dimenticare. Perché ciò che è stato depositato in un suo angolo non si perde. […]

E quando si esce da quel mare, da quel fiume, soli tra cielo e terra, bisogna raccogliere tutte le proprie forze, e accollarsi il proprio peso; bisogna unificare tutta la vita passata che ritorna presente, e tenerla sollevata perché non si trascini. […] Bisogna salire, sempre. L’esilio è questo, una strada in salita, quand’anche nel deserto. […] Il cuore, però, bisogna tenerlo in alto, bisogna sollevarlo perché non sprofondi, perché non ci sfugga. E per non venir riducendoci noi, noi stessi, a pezzi.

Di rimettere insieme i pezzi, di farlo insieme a un’altra, scelta come testimone, sentiva il bisogno la nostra amica Brigitte. Voleva scrivere la sua storia, lasciarla ai figli, ad altri, sì anche, perché no, pubblicarla. Scelse come testimone un’amica con la quale aveva condiviso la fondazione di Ishtar e le vicende di Casa di Ramia, scelse Vanessa Maher. Che era antropologa, che aveva scritto già molti libri, che era anche lei straniera in Italia, anche se in una posizione di prestigio, ma che conosceva l’Africa perché c’era nata. Brigitte aveva sofferto in Italia dei pregiudizi razziali anche di persone che avrebbero dovuto apprezzarla, come gli appartenenti alla famiglia del marito italiano e anche a noi che l’amavamo e ne ammiravamo la bellezza, l’eleganza, la cultura e lo spirito ironico e creativo, pensava di non essere riuscita a spiegare la vera ragione della sua grandezza. Che stava, lei pensava, nella sua origine, in quella storia che inizia prima della nostra nascita e della quale siamo eredi. Voleva raccontarsi ad una che sapesse che ci sono luoghi in cui il denaro non è l’unica misura del valore. Qualcuna che sapesse che in Africa appartenere a una grande famiglia non implica né denaro né possedimenti fondiari, ma antichità. Una famiglia importante è quella che ha una genealogia narrabile, che ha mantenuto il legame con gli antenati e della quale un griot potrebbe raccontare le gesta.

Quando Vanessa, concluso il suo insegnamento di antropologia a Verona, tornò a vivere nella sua casa di Torino, Brigitte la raggiunse lì periodicamente. Da moltissimi colloqui, racconti, discussioni e scrittura, uscì un romanzo anonimo, Ameze, in inglese. Vanessa che rielaborava e stendeva il racconto aveva voluto scrivere nella sua lingua madre, e aveva ambientato la vicenda in una zona di colonizzazione inglese dove aveva vissuto da bambina e da adolescente. La scelta dell’anonimato era di Brigitte che si riferiva a persone, vive e vicine a lei, che in Africa e in Italia l’avevano fatta soffrire e che avrebbero potuto sentirsi ferite per quello che nel libro si diceva di loro. Il suo matrimonio con un missionario comboniano, matrimonio che aveva comportato l’abbandono dell’ordine, non era stato apprezzato né in Africa, dalla famiglia del padre, né in Italia dai parenti di lui scandalizzati, né dai comboniani che non potevano perdonare il tradimento. Entrambe gli amanti pagarono più di quanto avessero previsto.

Ameze è un romanzo che si può con buone ragioni collocare all’interno della letteratura dell’immigrazione. Ricorda Vanessa Maher nella sua postfazione all’edizione italiana (non più anonima dopo la morte di Brigitte) che, nonostante la sua storia risultasse decontestualizzata e trasformata, Brigitte mi disse una volta le seguenti parole che erano, in un certo senso paradossali: hai scritto la storia esattamente come te l’ho raccontata. (p. 244). Penso che, nella relazione così intima di collaborazione con Vanessa, nella quale una parlava e l’altra ascoltava e discuteva, Brigitte avesse ritrovato il senso profondo della sua vicenda umana e, accettando la sua trasformazione romanzesca, lasciando cadere l’attaccamento ai particolari, l’aveva ritrovata collocata in un orizzonte più grande, nella quale avevano rilievo quegli elementi che ne facevano una storia esemplare. Alla fine del lavoro di scrittura il suo stesso sguardo sul passato era mutato ed era pronta a una generale, generosa, riconciliazione. Da una grande festa africana, celebrata con la famiglia d’origine e anche con i parenti acquisiti italiani cui finalmente mostrava lei chi era veramente, Brigitte non è più tornata. Morta immediatamente dopo in un incidente automobilistico in Togo. E su questo che sembra davvero il compimento di un destino, non oso dire.

Nella storia di Brigitte/Ameze ha un peso rilevante la sofferenza provocata dal pregiudizio razziale. Noi, le sue amiche, che la amavamo e la consideravamo una di noi, non abbiamo capito che il nostro sguardo non bastava a compensare quello che una donna nera, povera e dal lavoro precario, in Italia subisce nella vita quotidiana nel contatto con la gente comune. Penso che questa sottovalutazione della sofferenza dell’altra e dell’ingiustizia patita, sia stata alla base dei conflitti politici che si sono verificati negli USA tra femministe nere e bianche. Audre Lorde, ad esempio, si è scontrata con le femministe bianche americane che nella costruzione di un’idea universale di sorellanza tra donne avevano ignorato, anzi, dice lei, avevano reso invisibili, le donne nere. Ignorando gli effetti del razzismo sulle vite delle donne nere, pretendendo di assimilare le loro vite alle proprie hanno finito per riprodurlo. Quali sono i modi in cui una non vede l’altra?

La questione che ci si pone mi pare sia questa: basta l’espressione della nostra solidarietà a colmare questo divario di esperienza? Il nostro tentativo di instaurare relazioni giuste che cosa significa nella generale ingiustizia del mondo e della vita?

Ho confrontato la scrittura poetica di un’amica nigeriana che è grande protagonista della vita di Casa di Ramia, proprio con gli scritti di Audre Lorde, poeta e scrittrice americana, femminista nera e lesbica (1934-1992).

Sandra Faith Erhabour, è poeta nell’inglese che si parla in Nigeria, e a volte in Edo, la lingua che si parla a Benin City. Le amiche del Gruppo poesia hanno pubblicato delle sue poesie in un volumetto in lingua originale (I will never stop writing) ma un’altra edizione con testo a fronte, a cura di Maria Livia Alga, è in corso. Sandra, da molti anni in Italia, è mediatrice culturale e spesso accompagna la notte il pulmino dell’Ausl che contatta sulla strada le prostitute nigeriane offrendo assistenza medica, una coperta, una bevanda calda. Sandra offre il suo sostegno anche alle ragazze che escono dalla tratta e finiscono tra mille equivoci e difficoltà nelle maglie della polizia, dei servizi assistenziali e psichiatrici.

Le poesie di Sandra hanno la forma di un’esortazione, rivolta a sé stessa o ad altre, o sono invocazioni, preghiere. Spronano alla fiducia, ma soprattutto ad assumere liberamente il proprio destino. Siamo state create ad essere e dobbiamo realizzare ciò cui siamo state chiamate ad essere. La vita è lotta e affanno, richiede cura, attenzione ed impegno. Struggle and hastle caratterizzano la nostra vita, ma Dio stesso ha creato il mondo e lo ricrea con struggle and hastle. Quella di Sandra è una chiamata alla libertà e alla responsabilità verso sé stesse. Sii costruttiva e seminatrice (Be a Builder be Sower ). Sii uomo sii donna sii tutt’occhi e orecchi sii quella che dovevi diventare (p. 117).

Se confronto il tono poetico emotivo, la sensibilità di Sandra con quella di Audre Lorde mi colpisce innanzitutto l’assenza del tema della rabbia. Nella Lorde il tema della rabbia per le ingiustizie e le sofferenze delle donne nere e dei loro figli è fondante la presa di parola. Sull’espressione della rabbia punta per la costruzione di un movimento politico delle donne nere americane. Alla madre, amata-odiata, rimprovera di non avere mai espresso la rabbia, di avere insegnato alle figlie a far finta di niente, a ignorare, a tacere. Solo l’espressione politica della rabbia può salvare da atteggiamenti autodistruttivi, al troppo di rabbia accumulata nella vita Audre Lorde attribuisce anche l’insorgere del cancro che la porterà, dopo lunga lotta, alla morte. Ma al valore politico della rabbia non può rinunciare: e se una vita di rabbia furibonda è la causa della morte del mio seno destro, anche adesso, per tenermi il seno, non accetterei nulla di quanto non ho potuto accettare prima (vedi Sister Outsider p. 47).

Al contrario Sandra non nomina il razzismo, che pur in Italia esiste e investe, in modo intollerabile, le nuove generazioni delle figlie e figli nati qui, perché Sandra non costruisce la sua politica relazionale contro qualche cosa, ma sul senso di sé e della propria dignità. Il senso di sé di Sandra non dipende dallo sguardo che gli altri posano su di lei, sguardo che lei non cerca e a cui non risponde, ma da una consapevolezza interiore del valore di sé che dipende dalla sua relazione con Dio e dalla sua esperienza di vita in Nigeria. Sandra è un’immigrata di prima generazione che torna spesso al suo paese e che non cerca l’assimilazione. Le sue radici culturali sono in lei vivissime: non idealizza affatto la Nigeria, né i nigeriani, ma sa che Eravamo liberi come uccelli del cielo e che Siamo stati re e regine. Ed è un’affermazione che si riferisce al passato precoloniale, ma che ha un valore simbolico riferendosi a un assoluto: siamo re e regine perché fatti a somiglianza di quel Lord che è Dio, che ci ha creato bellissimi. Sandra può ancora, a differenza di Audre Lorde e probabilmente della maggior parte di noi, pensare di essere stata chiamata ad essere e a rispondere. Sotto un cielo vuoto, Audre Lorde rivendica il valore della propria vita di lotta: In ogni caso non era previsto che la mia vita esistesse, che avesse un senso, in questo mondo incasinato di uomini bianchi (vedi SO p. 327).

Sandra sa perché è nera: è nera perché è immigrata, è venuta da un grande paese in cui la gente è nera, ma l’essere neri per le ragazze e i ragazzi nati qui, la cui differenza non ha più alcuna radice culturale, è solo un peso irrimediabile e in qualche modo immotivato. Rischiano di essere preda di una rabbia senza scampo, senza alcuna difesa spirituale nei confronti del razzismo e delle discriminazioni che subiscono.

Nell’ultima parte di questo intervento desidero parlarvi dell’occasione di conoscenza e di amicizia che ha rappresentato per me insegnare italiano a donne islamiche. Negli ultimi anni, infatti, mi sono messa a disposizione dell’Associazione fondata da Houda, una giovane donna proveniente da Casablanca, persona di grande passione politica.

La prima delle amiche islamiche che voglio ricordare è Koolud: trent’anni, tre figlie, yemenita, laureata in teologia all’Università di Sanaa, moglie di uno dei due Imam della Moschea di Verona, ottimo inglese, italiano ancora povero, voleva assolutamente conoscere il mondo nel quale era capitata. Quello che mi colpiva in Koolud era il suo ardere, lei era letteralmente ardente. Diceva del marito, l’imam, compagno di studi di teologia di Sanaa: è pigro, non sa guidare, non studia l’italiano. Lei aveva fretta, dormiva poco e studiava molto la notte: Sai, Giannina, il Profeta ha detto: Studia! Studia! Studia! Aveva subito preso la patente per potersi muovere liberamente senza dover usare i mezzi di trasporto pubblici in cui con il suo abbigliamento così marcato era a disagio. Era a disagio anche quando doveva uscire dalla sua abitazione presso la moschea e si trovava davanti le camionette della polizia e agli uomini armati che la sorvegliavano. Per proteggere gli abitanti e i frequentatori della moschea? Per proteggere noi da loro? Koolud usciva per conoscerci, ma era molto attiva nella moschea, insegnava l’islam alle donne e alle ragazze, organizzava per loro gite, e mi avrebbe coinvolto volentieri nella vita della moschea. Le avevo detto che non avevo chiesa e forse sperava che io potessi entrare nell’islam. Questo non mi turbava perché mi pare naturale che chi pensa di essere nella verità la voglia condividere con chi ama e voglia dare ciò che pensa di avere. Sapeva a memoria tutto il Corano e lo cantava sottovoce con una voce bellissima. Giannina, sai che siamo negli ultimi tempi? Gli islamici sono più avvertiti di noi del fatto che siamo negli ultimi tempi. Lo Yemen da cui proveniva era dilaniato dalla guerra da anni. E la Palestina, l’Iraq, la Siria, l’Afganistan milioni di sfollati e di morti. Ma questi morti sembravano essere nella mia testa e non nella sua. Non era la politica che interessava Koolud, alle mie domande sull’Arabia Saudita non rispondeva, quello che le interessava non era ciò che sta nelle mani degli uomini, ma quello che sta nelle mani di Dio: il senso della storia che va verso la realizzazione della profezia: il giudizio finale.

Quello che più mi tocca nella relazione di differenza con le donne islamiche è la presenza di Dio nella loro vita. Il Dio dell’Islam è esigente e ritma la vita quotidiana dei suoi fedeli, in modo che non possano mai distrarsi da Lui. Sono più vicino a te della tua vena giugulare si legge nel Corano (Sura Qaf, v.16). La scansione giornaliera della preghiera, che nel mondo cristiano si mantiene solo negli ordini monastici, segna la vita giornaliera di milioni di fedeli: cinque preghiere al giorno, in qualsiasi luogo si sia, ci si apparta un poco per pregare. Il corpo è sempre coinvolto: dalla purificazione rituale prima della preghiera, nella preghiera stessa con le genuflessioni prescritte, con il digiuno annuale di trenta giorni e il pellegrinaggio con il grande rito collettivo alla Mecca. Per non dire di quella particolare incorporazione della parola sacra che si pratica nelle scuole coraniche di tutto il mondo dove bambini e bambine imparano a recitare a memoria un testo che non capiscono.

La relazione con Dio, in modo particolare quella delle donne, è una relazione individuale che non necessita di mediazioni umane.

Un voto a Dio, un fatto intimo tra Lui e te, è anche per le mie amiche il coprirsi il capo quando escono dalle mura domestiche. È una promessa che costa, e costa non poco nei paesi in cui a causa del velo diviene impossibile avere un lavoro a contatto con il pubblico.

Tra le amiche islamiche che più mi commuovono c’è una giovane donna che ha rinunciato al suo posto di insegnante per venire in Italia, dove le hanno detto erano in atto sperimentazioni di cura forse utili alla sua bambina gravemente handicappata. La decisione di Jamila, di affrontare un percorso di totale spoliazione, dettato dall’amore e sostenuto dall’affidamento a Dio, desta in me un’ammirazione profonda. Senza alcuna risorsa economica la sua vita e quella della bambina sono dipendenti dall’assistenza pubblica e dalle organizzazioni benefiche, che non le risparmiano del resto quella assillante richiesta di emancipazione che viene pretesa anche dalle donne sole con bambini. Ho parlato di percorso di spoliazione e so che una vita precaria (ce lo rammenta Cristina Campo, l’amica di María Zambrano nel periodo dell’esilio romano), che una vita precaria è una vita dipendente dalla preghiera. Del resto l’elemosinare è una delle pratiche di consunzione dell’io, comune a molte discipline spirituali. Nella relazione con l’assoluto deve cadere ogni presunzione di indipendenza, l’idea stessa di potere controllare la propria vita. Che la nostra vita dipenda così poco dalla nostra volontà, ci capita quasi sempre di scoprirlo in occasioni dolorose e impreviste. Qualcuna può rispondere, come ha fatto Jamila per la sua bimba, con una decisione audace e fiduciosa. Cristina Campo cui è tanto caro il tema del destino ci ricorda l’affermazione e la promessa evangelica: Chi getterà la sua vita la salverà. E io per Jamila lo voglio credere con tutto il cuore.

Sempre obbediente alla richiesta di Houda, da qualche anno, mi sono spostata in una zona periferica della città per incontrare un gruppo di donne marocchine, che non parlano l’italiano e che non sono state mai scolarizzate. Houda diceva che non sarebbero mai venute nel centro della città, dove è Casa di Ramia, perché non erano abituate ad usare il bus e non avrebbero neppure avuto il denaro per comprare il biglietto. Alcune di loro parlavano solo berbero, e anche Houda aveva bisogno di una traduttrice. Didatticamente è stata un’esperienza fallimentare, perché io non ho alcuna competenza nell’alfabetizzazione di donne adulte, dal punto di vista del mio arricchimento soggettivo e del nostro reciproco riconoscimento un’esperienza assai ricca. Antonietta Potente ci aveva detto una volta: bisogna conoscere il mondo dalle periferie. Dalle periferie della città – ma non è diverso per le periferie del mondo – ho verificato che noi, le privilegiate, vediamo sempre ciò che manca (ciò che mancherebbe a noi, secondo la nostra misura) mentre chi le abita vede ciò che c’è e spesso lo considera un dono.

Per me la periferia, frutto della crescita disordinata della città, è brutta: l’accozzaglia casuale di edifici, capannoni una volta produttivi ora abbandonati, supermercati vicini ad empori di automobili, mescolati a condomini di edilizia popolare, tutto questo urta il mio senso estetico. Per le mie amiche questo è il luogo che abitano, quasi l’unico che conoscono della città, questa è l’Italia che le ha accolte e che amano, che non vorrebbero più lasciare. Se foste ricche dove vorreste costruire la vostra casa? E immaginavo Casablanca, o i monti dell’Atlante da cui alcune provengono. No, la farebbero lì, dove abitano. Perché? C’è l’ospedale, il mercato, il parco dove incontrarsi e passeggiare insieme. Quanto all’Italia in molte c’è una grandissima gratitudine. Questo paese ci ha dato tanto: cure mediche, inserimento a scuola di figli handicappati, alloggi popolari il cui fitto è proporzionato al reddito e cala se c’è un periodo di cassa integrazione.

Chiuderò raccontando un episodio che mi ha molto toccato e riportato alla mente quello che Simone Weil chiama l’amore implicito di Dio. Nel gruppo si festeggiava il ritorno di una dal pellegrinaggio alla Mecca. Era divenuta Haja, titolo che precede il nome di tutte quelle che hanno compiuto il pellegrinaggio. Constatando il mio interesse una mi chiede: vuoi anche tu fare il pellegrinaggio alla Mecca? Mi stupisco: Non potrei, la Mecca è città proibita ai non islamici. Ma un’altra commenta: Lei il suo pellegrinaggio lo fa venendo qui. Houda mi traduce questo apprezzamento e io sono davvero grata di questa assimilazione, ma anche sbalordita dell’audacia interpretativa, della prontezza con la quale questa donna, per noi ignorante perché illetterata, si azzarda ad andare oltre la lettera del precetto. Lei mi dice: il pellegrinaggio si fa per amore di Dio, ma è lo stesso amore che tu dimostri di nutrire verso di noi.

Al di là delle dichiarazioni di fede, dei nomi con cui indichiamo l’assoluto, ci sono in effetti molte forme dell’andare oltre noi stessi e dell’amare.

 

Bibliografia

A cura di Maria Livia Alga e Rosanna Cima, Allargare il cerchio Pratiche per una comune umanità, Progedit ed. 2020

Brigitte Atay, Vanessa Maher, Ameze. Mondi che si incontrano, Gabrielli ed. 2021

Sandra Faith Erhabour, I will never stop writing. Introduzione di Maria Livia Alga, in corso di pubblicazione

Audre Lorde, Sorella Outsider. Gli scritti politici di Audre Lorde, ed. Il dito e la luna 2014

Cristina Campo, Lettere a Mita, Adelphi 1999

María Zambrano, La tomba di Antigone. Diotima di Mantinea, trad. Carlo Ferrucci, La Tartaruga ed. 1995.

 

(https://www.diotimafilosofe.it/per-amore-del-mondo/il-mondo-stringe-2022/, edizione 18, 2022)

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