9 Novembre 2002

«Ma l’America non è Bush»

Incontro con Colleen Kelly, sorella di una delle vittime dell’attentato dell’11 settembre, che rifiuta la guerra come risposta al terrorismo e lancia un appello al Forum europeo: «Abbiamo bisogno di voi. Non confondete il popolo americano col palazzo»
Ida Domijanni

«Due messaggi voglio lanciare a questo Forum. Il primo: dovete imparare a distinguere il governo americano dal popolo americano: non sono la stessa cosa, non potete scaricare su di noi le colpe del nostro governo. Il secondo: per sconfiggere il terrorismo bisogna cambiare i cuori, non fare le guerre. Mio fratello è stato ucciso con un taglierino usato come un’arma di distruzione di massa: questa memoria è bene impressa nella mia mente. Ma il presidente americano e l’Onu non possono usare la memoria dell’11 settembre per legittimare l’attacco all’Iraq. Fra quel taglierino e questa guerra non c’è alcuna connessione». Esile e forte come un filo d’acciaio, le ali della ragione piantate nelle radici del dolore, Colleen Kelly arriva nella plenaria del Forum che discute dell’Europa nel disordine mondiale, cioè di come e quanto la ricostruzione del Vecchio Continente possa arginare la volontà di potenza del Nuovo, e scuote l’aria, dando corpo al fantasma che vaga innominato nei labirinti della Fortezza da Basso. Quel fantasma si chiama 11 settembre, e più che con il terrorismo o con il crollo delle Torri ha a che fare con la ferita aperta nel corpo della società americana. Che qui nel Forum si fa fatica a tener presente, perché giovane com’è il movimento dei movimenti ha bisogno di nemici certi e definiti; e un nemico ferito, che nemico è? Perciò la potenza americana, la guerra indefinita contro il terrorismo, la nuova dottrina di Bush sono sempre nell’occhio del mirino, mentre quella ferita resta fuori campo e fuori fuoco. Colleen improvvisamente la incarna e il gioco si disordina, l’attenzione si tende nella sala con più di tremila persone sedute sulle sedie e per terra, lei parla e loro ascoltano, lei va avanti e loro tacciono, lei finisce e loro si alzano tutte come una marea, cominciano ad applaudire e non la smettono più. Qualcosa s’è sciolto e s’è mosso.

 

Colleen ha 40 anni, tre figli, radici irlandesi e vive nel Bronx, suo fratello neaveva 30 quella mattina, quando una breakfast conference – il postfordismo non ha orari – lo portò al WTC nel momento della catastrofe e la catastrofe lo inghiottì senza restituirne neanche il corpo per piangerlo. Fu il caso invece a riportarne alla madre, che accompagna Kelly qui a Firenze, una ciocca di capelli: perché per caso la madre l’aveva data a una sua amica 26 anni prima, l’amica l’aveva conservata e così almeno quella piccola reliquia le ha aiutate a elaborare il lutto. «Ve lo racconto – dice Colleen – per dirvi che ogni minima azione può lenire i dolori del mondo, e che ogni gesto che facciamo oggi può rivelarsi decisivo in futuro, fra 26 anni o chissà quando, ma dobbiamo crederci adesso». Perciò lei ha cercato l’azione giusta da fare e l’ha trovata. Si chiama «Peaceful Tomorrows» ed è un’associazione di 56 familiari delle vittime dell’11 settembre che non credono alla retorica presidenziale della vendetta e della ritorsione perché sono convinti che alimenta il circuito della violenza, non vogliono guerre né in Afghanistan né in Iraq né altrove, cercano risposte diverse al terrorismo, tengono contatti con le sue vittime in tutto il mondo, preparano pratiche di non-violenza in India, e sull’11 settembre vogliono ostinatamente aprire quel processo di elaborazione e discussione collettiva che, dice Colleen, finora la società americana ha mancato. Ma quella ferita è ancora aperta oppure è stata definitivamente suturata dalla fitness militarista? «Sai, le reazioni all’11 settembre sono state diverse. C’è chi non ne può più di vedere e rivedere quelle immagini. C’è chi vede bene l’uso che ne viene fatto dai palazzi del potere per legittimare la guerra. Ma i più sono ancora sotto shock, non hanno realizzato l’entità del fatto e delle sue conseguenze». Ma una come te, Colleen, capisce anche il sentimento della vendetta, l’ha provato? E che spiegazione ti dai del terrorismo? «Vendetta no, non ne ho mai desiderata; giustizia però sì. Ma per fare giustizia, bisogna capire. Non giustificare: non giustifico niente, considero chi ha ucciso mio fratello pienamente responsabile di quello che ha fatto. Ma mi domando perché l’ha fatto, e che cosa possiamo fare noi perché non accada mai più. Non credo che si diventi terroristi per povertà o per disperazione, i kamikaze dell’11 settembre non erano né poveri né disperati, venivano dalla middle class araba. Forse è gente che vive il cambiamento del nostro presente con un’intensità volta al male…Devono esserci dei fattori psicologici, una sorta di ossessività politica malata che dovremmo analizzare».

 

La guerra invece non serve, non è efficace, peggiora le cose. Ma Bush la farà, Colleen, se voi americani per primi non lo fermate. E invece la stragrande maggioranza degli americani sembra d’accordo con lui. «Non è così. L’America è divisa a metà come una mela: metà è con lui, metà no. Lo dicono anche i sondaggi, quando sono fatti bene». Perché allora quel voto alle elezioni per il Congresso, che di fatto autorizza Bush a fare quello che vuole? «Sta’ attenta, noi americani non ragioniamo così, sulla politica. Le elezioni di mezzo tempo, per la gente comune, non sono importanti quanto le presidenziali. Bush aveva già avuto l’autorizzazione del Congresso sull’Iraq, la gente lo sapeva e per giunta non ha visto differenze decisive fra repubblicani e democratici. L’opposizione alla guerra può montare ugualmente, non la vedo in relazione diretta col risultato elettorale». E il movimento pacifista che è nato negli ultimi mesi? Dicono che sia diverso da quello storico anti-Vietnam…«Sì, si discute nei campus universitari sulla natura di questo nuovo pacifismo. Credo che sia importante anche per voi, per il movimento europeo, conoscerlo meglio. Anzi, è importante per voi e per noi conoscerci meglio reciprocamente, con reti di informazione non ufficiali. Noi abbiamo bisogno di amici: non di alleati, le alleanze spesso sono strumentali e circoscritte, ma di amicizia, che è qualcosa di più». E di questo Forum, che cosa pensi? «Sono impressionata da quanto ci temete. Dall’immagine e dal giudizio che avete dell’America. L’America non lo sa, non ne ha idea. Continuiamo a vivere come una grande isola protetta da due oceani, e non ci rendiamo conto di quanto gli altri ci guardano, e di come ci vedono, e di quanto è urgente che noi invertiamo la rotta dalla guerra alla pace. Voglio provare ad aprire una discussione su questo al mio ritorno a New York. Però anche voi, qui a Firenze, dovreste riflettere su questo paradosso: siete troppo occupati a guardare gli Stati uniti, e pensate troppo poco all’Europa, che invece potrebbe essere una voce unitaria e decisiva, in questo momento, come mai non lo è?».

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