19 Ottobre 2005
il manifesto

Madri contro, truppe in crisi

A. PA.

Rose Gentle, madre di un soldato scozzese morto in Iraq nel 2004, ha deciso di iniziare la propria battaglia contro la guerra, sull’esempio dell’americana Cindy Sheehan. Rose ha annunciato ieri di voler creare un campo della pace installato in permanenza davanti a Downing Street. Con lei, altre donne che hanno perso figli o mariti in guerra e intendono in particolare protestare contro il rifiuto di concedere aiuti alle famiglie che vogliono denunciare il premier iracheno Tony Blair per il conflitto iracheno. Quella consistente parte di britannici che non ha mai digerito la guerra e mai si è rassegnata torna dunque a mobilitarsi. Il momento non potrebbe essere più opportuno, visto quel che accade ai soldati inglesi in Iraq. Un vento di rifiuto si sta alzando, mentre le truppe sul fronte di guerra sembrano sul’orlo del crollo psicologico, come titolava ieri a tutta pagina il quotidiano inglese The Independent («Are British troops at breaking point in Iraq?»). La domanda è d’obbligo, quando si prendono in considerazione tutti i fatti che il quotidiano enumera. A partire dal gesto compiuto dal soldato semplice Troy Samuels, decorato solo sette mesi fa con la Military Cross per il coraggio mostrato in azione in Iraq, e che ora ha deciso di abbandonare la carriera militare non sentendosela più di tornare in guerra. Con lui, altri 70 soldati del suo battaglione, il Princess of Wales Regiment, hanno preferito dire addio all’esercito piuttosto che tornare al campo di battaglia. Episodi che si aggiungono all’apparente suicidio avvenuto a Bassora di un inquirente militare, il capitano Ken Masters, trovato impiccato nel suo alloggiamento; a al deferimento alla corte marziale del primo soldato inglese «refusnik», Malcolm Kendall-Smith, che si è rifiutato di andare a combattere una guerra che considera «illegale».

 

Secondo Combat Stress, un’organizzazione militare di assistenza ai soldati in difficoltà psicologica da servizio, a provocare la più grave crisi morale che mai abbia afflitto le truppe inglesi nell’ultimo decennio, è l’indefinitezza di orizzonte di questa guerra difficile e pericolosa, i cui tempi si stanno allungando oltre misura. Né certo hanno contribuito a migliorare la percezione i recenti commenti del ministro degli esteri Jack Straw, secondo il quale le truppe inglesi potrebbero restare impigliate in questo conflitto per altri dieci anni. Per il commodoro Toby Elliot, capo esecutivo di Combat Stress, interpellato da The Independent, la fuga anticipata dall’esercito è innescata dalla speranza che gli effetti psicologici delle guerra – flashback, incubi, sensi di colpa – vengano in tal modo ridotti.

 

Assai esplicite in questo senso le dichiarazioni degli stessi soldati, raccolte dal quotidiano. Come quella dell’anonimo caporale che confida: «Questo è stato un duro, duro turno. Sarei contento di non tornare in Iraq per un po’» o dell’altro soldato che dichiara: «Mr Blair continua a dire che tutto sta andando meglio là. Forse dovrebbe prendersi il disturbo di venire a vedere lui stesso. E’ facile mandare i figli degli altri in Iraq».

 

Anche la misteriosa morte del capitano Ken Masters, 96esimo caduto britannico, spedito in Iraq per esaminare le accuse di abusi sui civili iracheni da parte delle truppe britanniche, presenta più di un aspetto inquietante. Il carico di lavoro cadutogli addosso era immenso, e spinoso quant’altri mai, perché immense erano anche le pressioni cui era sottoposto. Cercare i veri responsabili delle violenze era un compito arduo, soprattutto volendo evitare, come Masters a detta dei suoi colleghi intendeva fare, che fossero i soldati semplici a fare da capro espiatorio per colpe che non erano solo loro. Masters, si dice oggi, era anche consapevole del sentimento dominante nell’ambiente militare: che i soldati imputati si addossano la colpa di una guerra sempre più impopolare.

 

Ma c’era anche dell’altro, a premere su Masters. Pochi giorni fa era arrivato un pesante avvertimento del procuratore generale, Lord Goldsmith, contro i militari che indagano sui crimini dei militari. Alcuni alti ufficiali avevano infatti tentato, di comune accordo, di bloccare un inchiesta sull’uccisione in Iraq del sergente Steve Roberts, morto per un colpo d’arma da fuoco pochi giorni dopo aver dovuto riconsegnare un giubbotto anti proiettile, per scarsità di equipaggiamento.

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