22 Dicembre 2008

Maman

Rossella Cursio

Forse con il tempo dimenticherò il suo volto ma non dimenticherò mai il suo spirito.
Maman era un concentrato di fierezza e dignità, contrariamente alle altre, che mi
aleggiavano sempre intorno, lei si teneva a distanza sorvegliandomi con lo sguardo, attentissima ad ogni mio gesto ed ad ogni mia parola, non chiedeva mai nulla e non accettava nulla. Si limitava a rimanere in piedi, appoggiata alla mia porta, guardando distrattamente fuori quando le risate delle altre diventavano travolgenti.
Non smisi mai di coinvolgerla sorridendole con lo sguardo ma rimase sempre
indifferente fino al giorno in cui i suoi occhi cominciarono a parlarmi. Già felice del
risultato, ormai quasi insperato, non feci niente per forzarla, ogni tanto le rivolgevo piccole frasi che rimanevano puntualmente senza risposta.
Maman come il resto della famiglia aveva una posizione privilegiata, infatti non viveva in una capanna o in una baracca o in un monoblocco, ma in una palazzina a due piani che racchiudeva all’interno un piccolo giardino.
Al piano terra, affacciate sul giardino, vi erano le stanze della nonna paterna e della nonna materna e un vasto salone destinato sia al ricevimento degli ospiti importanti sia ai rimproveri solenni del capo famiglia ai giovani maschi. Questo rito avveniva sempre a porte chiuse e lontano dagli sguardi delle donne.
Al primo piano si trovava un altro salone destinato ai pasti del capo famiglia, al
ricevimento di familiari e alla televisione. Seguivano una stanza per gli ospiti, la camera dei genitori, con bagno e doccia personale, e tantissime camere. Queste ultime si affacciavano sul cortile interno ed erano occupate da figli e figlie di primi e secondi matrimoni, da cognate e da cugini.
Al secondo piano si trovava un grande terrazzo da cui si dominavano le corti interne delle varie casupole e baracche che sorgevano nel quartiere e dove io, la sera, con il naso all’insù e un po’ di nostalgia, guardavo il passaggio degli aerei che volavano verso l’Europa.
Questo terrazzo era un interessante punto di osservazione: un po’ da per tutto panni coloratissimi sventolavano appesi ad asciugare, nelle corti si vedevano le donne che, sedute, setacciavano il riso in panieri ricavati dal guscio di grandi zucche, nelle stradine i bambini giocavano rincorrendo cerchi di ferro; si poteva udire il suono sordo e ritmato prodotto dalle donne che con energia battevano il miglio in grandi mortai di legno, il loro vociare, gli scoppi di risate, le urla di gioco e i pianti dei bambini.
Per tutto il giorno e spesso anche di notte, ritmi e canzoni s’innalzavano vivaci.
S’intrecciavano fra di loro e, fondendosi con i belati dei montoni ed i ragli degli asini, davano vita ad un unico tema di fondo che accompagnava il dispiegarsi delle giornate.
Un po’ da per tutto era possibile vedere qualcuno che, rapito dal ritmo zairese, danzava con gioia. Agli incroci dei vicoli, al suono coinvolgente del jembe1, gruppi di bimbi saltellavano ritmici battendo le mani.
Gli odori delle varie cucine e di spezie penetranti, aleggiando si spandevano e si
mescolavano a quelli del legno bruciato, del mais abbrustolito, del pesce arrostito A sera veniva dato fuoco ai rifiuti e l’odore acre e penetrante s’insinuava da per tutto.
Spingendo lo sguardo più lontano si poteva scorgere la fitta trama di strade e stradine e l’unica via asfaltata che si srotolava come un serpentone grigio fra le piste di sabbia, i colorati mezzi di trasporto in comune che correvano avanti e indietro, donne che procedevano, ancheggiando lente e regali, con i cesti sulla testa, vendendo
manghi e verdure.
Agli incroci, giovani venditori di cocco, facendo roteare con destrezza la loro
maschette2, decapitavano i frutti per venderli ai passanti. Gruppetti di uomini, seduti all’ombra di un muro o di un albero, gesticolavano seri intenti a discutere.
Su tutto dominava la Moschea che svettava alta e scandiva le giornate diffondendo dall’alba al tramonto il richiamo alla preghiera.
A volte mi fermavo su questa terrazza, rimanevo lì a raccogliere ed a farmi pervadere da tutte queste sensazioni che scavavano nei miei ricordi e facevano riemergere dal fondo della memoria frammenti nascosti.
Mi riportavano agli odori ai suoni ed alle immagini della mia infanzia… di quando mio padre mi portava a vedere la vita nei paesi e nelle campagne del Sud……. l’odore del legno d’olivo bruciato, la fragranza del pane cotto nel forno a legna, il profumo dei ‘torcinelli’3 alla brace, il vociare delle donne che sedute all’ombra dei trulli sgusciavano le mandorle…la musica ad alto volume che usciva dalle case….. il rincorrersi dei bambini in gioco fra i vicoli…. i greggi nei campi…. bianchissime lenzuola stese a finestre e balconi…. le strida di stormi di rondini che sfrecciavano fulminee nelle piazze… fra i tetti e i campanili…… e un misto di malinconia e dolcezza infantile mi riempiva il cuore e, abbracciandomi, mi faceva compagnia.
Nel giardino della casa di Maman vi era un unico albero con tantissima voglia di vivere. Addossato al muro protendeva i pochi rami verso la luce che proveniva dall’alto e, ostinato, resisteva alle bocche di cinque enormi bianchissimi montoni.
Questi animali, segno di distinzione della famiglia, ed ignari protagonisti di future feste rituali, erano i compagni di gioco dei maschi più giovani, venivano portati a passeggio legati con una cordicella ed erano scrupolosamente lavati in un trionfo di schiuma e risate ogni domenica mattina. I loro belati riecheggiavano ad ogni ora del giorno e diventavano struggenti quando le femmine venivano legate al povero albero per renderle più disponibili alle attenzioni amorose del montone.
Ogni sera, ad una certa ora, il portone veniva chiuso a chiave e con gran rumore dal capo famiglia. Questo gesto, che nascondeva qualcosa di rituale, poneva la famiglia di Maman ad un rango superiore nella mentalità della gente del quartiere.
Maman era forse quella che dava più da fare alla famiglia, spesso le scale
riecheggiavano dei suoi no o del suo nome pronunciato ad alta voce dal capo famiglia, qualche volta, purtroppo, riecheggiavano anche dei suoi pianti e dei suoi singhiozzi.
In quel caso, seguendo il filo disperato del suo pianto, la trovavo raggomitolata
nell’angolo di un gradino, con il viso nascosto fra le ginocchia dove cercava di soffocare il pianto, scossa dai singhiozzi, ribelle ed insensibile a qualsiasi tentativo di consolazione.
Maman odiava le treccine di cui adorano adornarsi le donne africane, piccole e grandi, preferiva portare i capelli cortissimi e fuggiva davanti ai tentativi di sua madre di farle un qualsiasi tipo di acconciatura. Ogni tanto rubava il rasoio a qualcuno dei fratelli più grandi e si liberava da quello che lei considerava un ‘derangement’.4 Maman amava molto giocare e si divertiva soprattutto a partecipare ai giochi dei fratelli maschi da cui però veniva regolarmente scacciata appena li vinceva.
Maman era molto generosa, non esitava mai a prendere la difesa dei più piccoli e, se capitava, anche dei più grandi con il risultato di essere poi rimproverata da entrambi i contendenti poiché non rispettava le gerarchie.
Un giorno, finalmente, non si fermo più sulla porta ma fece qualche passo all’interno della stanza prendendo posto accanto alla finestra e spaziando con lo sguardo attento fra i vicoli del quartiere. Dopo qualche giorno smise di guardare fuori e dopo qualche giorno ancora mi si sedette accanto.
Era il periodo del grande caldo, aspettavamo tutti la stagione delle piogge. Speranzosi, spiando l’orizzonte al tramonto, aspettavamo di scorgere in lontananza l’addensarsi delle prime grosse e basse nuvole cariche d’acqua.
Le mie braccia, dopo mattinate intere passate al porto per sorvegliare lo sdoganamento dei container, o meglio per cercare di sottrarli il più rapidamente possibile alle attenzioni della dogana locale, si erano cosi colorite da non poter più distinguere i nei.
Un giorno Miam, sorella di Maman, stava studiando attentamente le mie braccia e, con il dito, tracciava come delle strisce sulla pelle. Guardandomi con espressione contenta e sorridente mi disse: “Se prendi ancora del sole, fra qualche giorno diventi come noi!!”
Fu allora che Maman parlò: “Stupida! non potrà essere mai come noi! Lei non è di pura razza Africana!” Colpita da tanta fierezza sorrisi e poi, visto che le due avevano cominciato a battibeccare, presi le mani di Miam e fermandole nel suo gesticolare le dissi quello che sembrò per lei una grande delusione, le dissi che Maman aveva ragione.
Nel tempo che seguì avevo sempre Maman accanto ed ogni tanto dovevo frenare le sue pretese di esclusività. Spesso mi chiedeva di fare delle passeggiate insieme e non voleva nessun altro con noi. Camminavamo piedi nella sabbia e all’ombra degli alberi di nime5, parlottavamo piano osservando i coloratissimi disegni dei cars rapides6 e sorridendo ai caratteristici urli di richiamo degli autisti.Era piena di curiosità mi faceva domande su tutto e ascoltava attenta le mie risposte,
mi confidava i suoi progetti e mi chiedeva delle abitudini e usanze degli altri paesi che conoscevo.
Lungo i marciapiedi incontravamo file di banchetti dove le donne esponevano le loro merci multicolori, frutti, semi e spezie dall’odore a volte pungente. Maman mi spiegava l’utilizzo degli aromi che non conoscevo e sorrideva felice quando poteva insegnarmi qualcosa Allontanava con fermezza chiunque si avvicinasse a noi con futili richieste.
Mi colpiva per la sua decisione e per come sapesse esigere il rispetto degli altri, anche dai maschi e, se era inevitabile, anche con le mani.
Amava molto passeggiare, questo le permetteva di vedere cosa succedesse fuori casa e di soddisfare la sua curiosità A volte arrivavamo a piedi fino al mare. Restavamo in silenzio a godere del vento e a guardare le onde che sbattevano fragorose contro la scogliera dissolvendosi poi in bianchissima schiuma. A volte piccole gocce arrivavano fino a noi e ridevamo contente per quell’improvvisa frescura. La sua vera passione era il mare…. adorava il mare.
Una domenica mattina non la trovarono più, io lo seppi il pomeriggio, ma non me ne preoccupai molto conoscendo il suo senso di responsabilità e di quanto avesse bisogno di quella libertà che le era sempre negata.
Al tramonto la casa riecheggiò delle sue urla e del sibilo della cinghia che veniva
inesorabilmente battuta sul suo corpo dal padre. I due erano chiusi nel salone delle grandi occasioni…non mi era possibile intervenire e non mi era consentito, aspettai la fine di quello scempio a pugni chiusi, chiudendo gli occhi per il dolore e cercando di far arrivare la mia forza e il mio pensiero fino a lei nell’illusione e nella speranza di poterla aiutare a sopportare quel momento.
Maman era stata a vedere il mare.
Il giorno dopo rabbrividii guardando i segni a strisce rosa sulle sue gambe d’ebano….il cuore mi diventò piccolo piccolo, la strinsi forte a me
“Era bello il mare?” -“Si”-
“Ne valeva la pena ?” -“Si”-
Maman aveva solo dieci anni.

Note:

 

1 Tipico tamburo ricavato dal tronco d’albero e ricoperto di pelle di capra. Questo strumento non ha solo valore musicale ma anche mistico/rituale.
2 Coltello dall’impugnatura di legno e dalla lunga e larga lama (circa 50 ctm). Comunemente usato per quasi tutti i lavori.
3 Involtini d’interiora d’agnello. Specialità pugliese. Nei paesi venivano cotti sui carboni e per strada, all’esterno delle macellerie.
4 Fastidio.
5 Albero molto diffuso in Africa. Ha piccole foglie di un verde tenero e frutticini simili a piccole olive di colore giallo chiaro. Frutti e scorza sono alla base di molti rimedi della farmacopea tradizionale africana. Le svariate proprietà curative di questa pianta sono state riconosciute e confermate da approfonditi studi effettuati dai belgi.
6 Furgoni utilizzati come mezzi di trasporto pubblico. La carrozzeria (in Senegal) viene dipinta con disegni simbolici dai colori vivacissimi (di solito azzurro, arancio e verde) e scritte augurali o di ringraziamento (di solito a Dio o alla mamma). Non hanno vetri per consentire una maggiore aerazione e trasportano un numero di
passeggeri di molto superiore alla capienza del mezzo. Un aiuto autista, solitamente aggrappato alla parte posteriore, gridando a squarciagola e battendo ritmicamente delle monete sulla carrozzeria, indica il quartiere di destinazione, incita i passeggeri a salire e si occupa dell’incasso dei biglietti.

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