24 Febbraio 2007
D Donna

Maschi violenti addio?

D Donna (supplemento di Repubblica) – 24 febbraio 2007


Pensieri a due
Lea Melandri discute con un uomo sull’origine dell’oppressione sulle donne. Come superare questa situazione? Riflettendo su se stessi. Molti hanno iniziato a farlo.

 

Nonostante la violenza contro le donne appartenga da sempre alla cronaca quotidiana, e sia da anni ampiamente documentata da rapporti di autorevoli organizzazioni internazionali, come l’Onu, il rapporto tra i sessi stenta in Italia a prendere la rilevanza che merita. Non mancano tuttavia uomini che, singolarmente, in gruppi o associazioni, hanno cominciato a chiedersi che cosa ha significato finora “essere virili”, dove nasce l’aggressività maschile che investe sia la sfera privata che pubblica, e quali costi comporta per l’uomo costruirsi quella maschera di forza, sicurezza e dominio che dovrebbe renderlo ben accetto alla comunità dei suoi simili. L’ho chiesto a Stefano Ciccone, coordinatore del Parco scientifico dell’Università degli Studi di Roma Tor Vergata, autore, insieme ad altri, di un “Appello degli uomini contro la violenza”.

 


Lea
Tu sei uno dei promotori del gruppo MaschilePlurale, che esiste da vari anni e di cui fanno parte uomini di diversa età, cultura, orientamento sessuale. Lo scopo del gruppo è interrogare la maschilità a partire dalla propria esperienza, e vedere se si può cominciare a costruire un maschile diverso. Nel tuo caso, quali sono state le motivazioni più forti che ti hanno spinto a intraprendere questo tipo di riflessione critica?

 


Stefano
La molla iniziale è stata certamente una spinta etica: di fronte a forme evidenti di violenza, di oppressione, non si può fare a meno di chiedersi quale sia la propria idea di civiltà, di rapporti tra persone diverse e assumersene la responsabilità. Ma il valore, il senso della nostra esperienza è stato proprio nell’andare oltre e scoprire che dietro il “dovere” della denuncia c’era il mio desiderio di libertà nei confronti di un modello maschile imposto socialmente. Altre ragioni vengono dalla mia esperienza familiare: nel non riuscire a trovare negli altri uomini, nel loro modo di essere, di comportarsi, una fonte di senso per me. Ho visto in mia madre un modello di donna molto forte, autorevole, che negava però per questo la sua femminilità, e un uomo, mio padre, che viveva questo in parte come una frustrazione. Si interrompeva una genealogia maschile: veniva da una famiglia contadina abruzzese, lui, il primogenito di dieci figli. E la sua voce che si alzava durante la cena di Natale non era che una parvenza di autorità. D’altra parte, per il mio impegno politico mi sono trovato a rivestire comunque ruoli maschili molto forti: ero il leader della mia classe, quello che parlava in assemblea. Ciò nonostante, ho vissuto una condizione di solitudine fin dalle elementari, rispetto ai comportamenti competitivi tra maschi, e rispetto alle donne, che mi sembrava avessero tra loro una qualità di relazione più autentica.

 

Lea
In un tuo articolo, uscito sulla rivista Pedagogika (gennaio 2003), parlavi della “miseria” della sessualità maschile, di un disagio dell’uomo nel rapporto con il corpo, e li collegavi in particolare alla marginalità maschile nel processo riproduttivo. Il potere che gli uomini hanno riservato al proprio sesso nella vita pubblica andrebbe così a coprire un vuoto, un senso di precarietà e insicurezza, legati alla vicenda della nascita. Mi chiedo però se, insieme all’invidia per la potenza generativa femminile, a spingere l’uomo a differenziarsi, a esercitare un dominio sulla donna, non sia anche il tentativo di cancellare quella originaria appartenenza intima al corpo materno.

 

Stefano
Quando parlo della precarietà della virilità, intendo proprio questo: il fatto che mi venga detto che, rimanendo troppo attaccato alle gonne della madre, in un rapporto fusionale con lei, non diventerò mai un uomo, un maschio. Vuol dire che la virilità non è mai fondata sul tuo corpo, ma è qualcosa che devi costruire socialmente, anche negando il tuo corpo, e la corporeità in generale. Questo immiserisce l’esperienza che posso farne.

 

Lea
Non credi che questo rapporto dell’uomo col proprio corpo non sia legato anche al fatto che esso resta, nell’immaginario maschile, il corpo da cui si nasce e con cui si è stati tutt’uno? L’identificazione della donna con la natura, l’animalità, non può essere anche l’elemento che ha spinto l’uomo a differenziarsi, a pensare di essere “altro” dal corpo?

 

Stefano
Il corpo femminile non è solo corpo materno, luogo di cura e di accoglienza. Per me è importante scoprire che è anche corpo desiderante. Posso costruirmi come uomo proprio riconoscendo che esiste un altro desiderio. Se quella che ho davanti è una persona, con propri desideri, anch’io sono costretto a guardarmi, a vedere il mio corpo come un territorio che viene esplorato, a entrare in una relazione con l’altra. La paura della fusionalità è certamente uno degli elementi fondamentali del maschile, soprattutto perché è un’esperienza preclusa alla mia umanità. Io non sarò mai il corpo che accoglie, contiene: posso essere solo il corpo che si emancipa da quel legame. Una delle difficoltà che sta nell’esperienza di un uomo è tenere insieme tenerezza e desiderio, intimità e passione. Oltre tutto le due cose spesso si confondono. Ma tenere insieme amicizia, tenerezza, attenzione reciproca e passione erotica non è facile. Questa scissione che gli uomini vivono dentro di sé, che li porta a pensare la sessualità come sfogo lontano dalle relazioni o a non riuscire a vivere il desiderio in una relazione stabile, produce una miseria nella nostra esperienza sessuale, affettiva. Il mio percorso è per me un tentativo di uscire da questa miseria.

 

Lea
Non c’è dubbio che oggi la crisi del maschile sia in parte dovuta alla maggiore libertà, autonomia e autorevolezza delle donne: per esempio molti omicidi sono legati alla decisione della donna di separarsi. È come se, nel momento in cui la donna non è più a sua disposizione, obbediente e remissiva, l’uomo realizzasse la sua dipendenza, la sua fragilità e incompletezza. Ma mi chiedo se non sia ugualmente intollerabile la posizione di figlio, che si protrae nella vita amorosa adulta, nel momento in cui una moglie, un’amante, si trasforma in madre. Non è questa forse la causa della litigiosità, dell’insoddisfazione, dei tradimenti che attraversano la vita coniugale?

 

Stefano
Soprattutto favorisce la tendenza a dimenticarci di noi come uomini. La ricerca di una donna che diventa tua madre, che si prende cura di te, è legata al tuo modo di proiettarti nel mondo, far carriera, far politica, scrivere, e quindi dimenticare la cura di te stesso, dal momento che la deleghi a un altro, a qualcuno che ti laverà, stirerà le camicie. Gli uomini si pensano liberi, finché non scoprono questa dipendenza. Ma è vero che c’è anche l’insopportabilità per una donna che ti abbandona, che non significa solo perdere la persona che ti lava le camicie, e neanche solo una relazione. È un’esperienza che incrina la tua identità, la tua autorevolezza. Andare al bar del paese e dire che tua moglie ti ha lasciato, ti fa diventare un mezzo uomo, intacca la tua dimensione sociale. Io sono colpito dal fatto che tutti i fenomeni legati alla dipendenza siano molto maschili. Penso all’alcolismo, alla droga. Ho visto, in tanti casi anche a me vicini, la fragilità tramutarsi in arroganza verso la persona da cui dipendi e contro cui puoi far tutto: insultarla, trattarla male. Quella violenza, che ha una parvenza di forza, è paradossalmente la misura della tua dipendenza, come con la propria madre.

 

Lea
La crisi del maschile ha avuto, nel corso della storia, per esempio all’inizio del ‘900, anche dei riflessi tragici sul piano della vita sociale: trionfo di una virilità guerriera, bisogno di appartenenza a una collettività maschile coesa, come la razza, la nazione, l’esercito, richiesta di ordine e dell’autorità di un capo, contrapposizione di una civiltà all’altra. Non ti sembra che oggi stia succedendo qualcosa di simile? Stefano
Assolutamente sì. Penso che questa sia una chiave per capire quanto i diversi nazionalismi e integralismi, anziché essere tra loro irriducibili, siano in realtà declinazioni diverse di una stessa matrice patriarcale, maschile. Tu prima parlavi della unione originaria col corpo materno. Nella mia esperienza, diversa da chi è andato in trincea durante la Prima guerra mondiale, ho comunque vissuto l’attrazione del potersi fondere col corpo degli altri maschi, un corpo collettivo di simili. Ricordo l’esperienza, che facevo alle elementari, di uscire da scuola e gettarmi nel mucchio dei compagni, dove si perdono i propri confini e ci si sente forti di qualcosa a cui hai affidato la tua identità. Se questo è vero, allora non ha senso dire che questi fenomeni non ci riguardano, che sono cascami del passato, retaggio di culture arcaiche.

 

Lea
Virginia Woolf, che pure ha criticato a fondo e con tanta lucidità il dominio di un sesso sull’altro, ha riconosciuto anche quanto sia fastidioso “pensare un sesso indipendentemente dall’altro”, quanto questa consapevolezza ormai inevitabile interrompa un bisogno di armonia, quello che io chiamo il “sogno d’amore”, o come dice la Woolf, il “matrimonio dei contrari”. Se l’attrazione reciproca, la seduzione, sono così legate alle figure complementari del maschile e del femminile, che fine fa l’amore quando lo si guarda con tale disincanto? Agli uomini che si interrogano sulla loro identità sessuale succede, come a molte donne che oggi hanno più coscienza di sé, più autonomia da modelli tradizionali, di essere sentimentalmente soli? Stefano
A me è successo spesso di non riuscire a costruire relazioni, o di vivere relazioni che entravano in crisi perché tendevo a fare confusione tra il linguaggio dell’intimità e quello dell’amore, dell’erotismo. Per me, come per molti uomini, è difficile tenere insieme l’immaginario su cui si costruisce il desiderio e i rapporti che vivo. Mi può capitare di vivere come contraddittorie le fantasie per cui mi piace una particolare donna, che può corrispondere allo stereotipo della donna bella, e che in quel modo di essere bella evoca l'”essere oggetto”, la mancanza di autorevolezza. La pressione degli stereotipi, maschili e femminili, è fortissima. L’omofobia è prima di tutto un avvertimento del baratro in cui come uomo puoi precipitare, se non ti attieni a certi canoni. Molti ci dicono: “Voi siete quelli che hanno scoperto la loro parte femminile”, come se esistesse un’essenza femminile, che è la cura, la sensibilità, e una maschile, che è la forza, la disciplina, il coraggio. Non condivido questa logica, ma ritengo altrettanto illusorio pensarsi come individui astratti, senza un corpo, una storia legata all’identità di generi precostituiti. Nel mio immaginario io sento ancora una forte subalternità a modelli acquisiti, e quindi il bisogno di uno scavo dentro di sé, nelle formazioni inconsce. Il percorso che faccio con gli altri uomini si basa proprio su questo scavo comune, su questo sguardo reciproco.

Print Friendly, PDF & Email