11 Ottobre 2021
Studi sulla questione criminale

La colpa di Lucano: una lettura della condanna oltre la criminalizzazione della solidarietà

di Carlo Caprioglio, Francesco Ferri, Lucia Gennari


1. IntroduzioneLa condanna a Lucano, e gli altri.

Com’è noto, il Tribunale di Locri ha riconosciuto Domenico Lucano colpevole di una serie di reati contro la pubblica amministrazione (abuso d’ufficio, truffa aggravata e falso ideologico), in parziale continuazione, e in associazione con altre quattro persone. In sede dibattimentale è venuta meno l’accusa forse più “politica”, il favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, che negli ultimi anni è stato utilizzato sistematicamente per criminalizzare la solidarietà con e tra i migranti, a terra e in mare.

La condanna a tredici anni e due mesi di reclusione – oltre al risarcimento di un danno erariale per centinaia di migliaia di euro – ha sollevato un coro di critiche, sgomente per la durezza della sanzione inflitta, che non solo supera i limiti edittali di pena ma quasi raddoppia le richieste della Procura. Una pena che, come notato da più parti, è apparsa spropositata, soprattutto se confrontata con quelle emesse al termine di vicende giudiziarie di impatto sociale senz’altro maggiore, come il processo Mafia Capitale. Le reazioni alla sentenza hanno chiamato in causa, a difesa di Lucano, argomenti di carattere giuridico – il diritto alla solidarietà, come dovere costituzionale; lo stato di necessità, come scriminante di condotte penalmente rilevanti – ma anche ragioni politiche o filosofiche, come il diritto “naturale” alla ribellione di fronte a leggi ingiuste, e il contrasto tra giustizia e legalità, impersonato nella figura tragica di Antigone e nel suo rifiuto a obbedire alla legge di Creonte.

Da parte nostra, ci interessa qui riflettere sul significato della decisione, senza cadere nell’errore di pensare che esista una giustizia “neutrale”, sottratta al contesto sociale e politico in cui si esprime. Ciò nonostante, ci sembra importante sottolineare sin da subito un aspetto stranamente trascurato nelle molte prese di posizione critiche di questi giorni. Il processo di Locri non ha riguardato solo Lucano ma un numero molto ampio di persone, che va ben oltre quelle coinvolte nel delitto associativo. Gli imputati sono, infatti, ventisei e diciotto di questi hanno subito condanne pesanti, con pene che per molti superano i sei anni di reclusione, oltre alla confisca dei beni e al pagamento delle spese processuali. Si tratta di un aspetto importante non solo per avere un quadro completo della vicenda processuale ed estendere la solidarietà anche alle altre persone condannate, ma anche – e forse soprattutto – per restituire la dimensione radicalmente collettiva dell’esperienza di Riace, evitando così il rischio di una personalizzazione della narrazione che rischia soltanto di isolare la figura di Lucano, giocando a favore della criminalizzazione sua e degli altri imputati.

2. Una sentenza inevitabilmente politica

Quando si parla di migrazione e di solidarietà, il carattere “politico” della giustizia diventa immediatamente evidente. I giudizi, civili e penali, che hanno riguardato i diritti dei migranti e gli atti di solidarietà attorno alla migrazione sono sistematicamente oggetto di commenti e critiche che ne contestano la “politicità”, in un senso e nell’altro. Il caso di Riace non fa eccezione e in molti hanno denunciato la natura “politica” della sentenza, nel senso di una decisione motivata da finalità politiche, strumentale a colpire le idee di Lucano e le pratiche di solidarietà sperimentate. E non è un caso che il Procuratore d’Alessio, all’inizio della sua requisitoria, si sia preoccupato di ribadire con forza l’estraneità della “politica” dalle indagini e l’indipendenza della Procura di Locri, ricordando inoltre come durante il procedimento si siano susseguiti governi di diverso segno politico, senza che ciò abbia influito sul lavoro della magistratura calabrese.

Quando ci proponiamo di riflettere sul significato politico della condanna a Lucano ci poniamo in una prospettiva differente: il presupposto, forse banale, è che non esiste un esercizio della giustizia politicamente neutrale. Non solo la dimensione “politica” del giudiziario è intrinseca al ruolo istituzionale di interpretazione e applicazione del diritto – ovvero, di individualizzazione delle norme giuridiche –, ma questa operazione è calata all’interno di processi, tendenze e dinamiche sociali e politiche complesse, non riducibili al mero orientamento politico delle maggioranze parlamentari e dei partiti al governo in un dato momento. In quest’ottica, ci sono questioni sociali che in determinati momenti storici provocano con maggiore forza la reazione dell’ordinamento per la loro capacità di metterlo in discussione e per la sensibilità del corpo sociale rispetto a quel tema. Un esempio è costituito, oggi, dal tema dei confini e della migrazione.

Quella che chiamiamo “guerra alle migrazioni” (1) trova corrispondenza in dinamiche sociali e di governo che si traducono in ambito giudiziario non solo nella repressione delle condotte direttamente legate al movimento (immigrazione irregolare, reingresso, favoreggiamento etc.) ma anche alle pratiche solidali in senso ampio, tanto più quando sono capaci di incidere – ridefinendole – sul ruolo e il funzionamento delle istituzioni e dei meccanismi istituzionali di mediazione sociale, come nel caso di Riace.

È quindi possibile leggere attraverso questa lente il processo e la condanna a Mimmo Lucano e a chi con lui ha partecipato all’esperimento di Riace. In primo luogo colpisce, anche se non sorprende, l’utilizzo del reato associativo e le implicazioni sulle modalità di svolgimento delle indagini, sull’applicazione delle misure cautelari, sulla qualificazione giuridica delle condotte e sul computo della pena. Nel campo della criminalizzazione delle migrazioni non si tratta certo di una novità, così come non sono nuove le distorsioni che questo comporta: si pensi, tra gli altri, alle rivelazioni di The Intercept (2) sull’adozione degli strumenti antimafia nelle indagini sul favoreggiamento dell’immigrazione c.d. irregolare. In secondo luogo, forse anche per effetto di questo approccio, la lettura complessiva delle vicende oggetto del giudizio di Locri sembra non tenere conto del contesto in cui si colloca l’esperienza di Riace, e infatti le ricostruzioni degli inquirenti sono spesso cariche di considerazioni morali (tra l’altro censurate espressamente dalla Cassazione nel 2019) e disancorate da cruciali elementi materiali relativi alle dimensioni, alla conformazione e all’organizzazione della vita sociale e dell’accoglienza a Riace.

3. La colpa di Lucano

Ma è davvero la solidarietà verso i migranti la colpa di Lucano? È la sua “umanità” ad averlo esposto alla criminalizzazione? A un primo sguardo sembrerebbe di sì. In fin dei conti, Lucano è stata una delle figure istituzionali più in vista, per dieci anni al centro dell’immaginario dell’Italia solidale, anche fuori i confini nazionali. E al contempo, la condanna di Lucano appare senz’altro il prodotto dell’attuale stagione politica, in cui puntiformi pratiche solidali sono state colpite dall’azione combinata dell’autorità giudiziaria, delle forze di polizia e degli attori istituzionali. Se, quindi, nell’attuale paesaggio discorsivo e giudiziale è corretto leggere il processo di Locri anche alla luce della categoria della criminalizzazione della solidarietà, riteniamo necessario fare un passo in avanti ed esplorare quale, tra le molte posture assunte dall’ex sindaco, ha più contribuito alla sua condanna.

Quella di Riace non è certo stata l’unica esperienza di amministrazione, per così dire, “solidale”. Da sud a nord della penisola esistono molteplici esperienze di amministratori locali che promuovono iniziative di accoglienza nei confronti delle persone migranti senza finire, per queste ragioni, nel registro degli indagati. Perché allora Mimmo Lucano, a differenza degli altri sindaci solidali, ha attirato l’attenzione dell’autorità giudiziaria, subendo poi una condanna senza precedenti?

La colpa di Lucano – e delle altre persone condannate – risiede forse nell’aver sperimentato forme di accoglienza in controtendenza con le caratteristiche dominanti delle politiche migratorie in Italia. Il modello Riace segna uno scarto con la tradizione consolidata dell’accoglienza: relazioni non disciplinanti tra operatori e accolti, strutture ricettive funzionali alla costruzione di relazioni tra migranti e autoctoni, partecipazione diffusa e un’esperienza istituzionale orientata alla sperimentazione sociale.

Per inventare forme di accoglienza in grado di ribaltare la logica dominante, gli amministratori di Riace si sono inseriti nelle maglie della normativa, reinterpretando e, perché no, sfidando le imbrigliate logiche della burocrazia laddove necessario. È questa probabilmente la reale posta in gioco nell’affaire Riace. Non solo e non tanto la criminalizzazione della solidarietà in quanto tale, quanto la reazione scomposta del potere che si sente minacciato dalle sperimentazioni amministrative che hanno avuto la capacità di inventare una nuova immaginazione istituzionale, anche attraverso la forzatura dei vincoli e l’interpretazione estensiva del diritto.

Che un amministratore locale di un piccolo comune calabrese possa muoversi tra le pieghe del diritto per indirizzare gli strumenti amministrativi in una direzione inedita è, nella percezione del giudice di Locri, inaudito. Più in generale, suscita scandalo che il diritto possa essere usato, disteso, piegato, reinventato nel momento della sua applicazione, per ridefinire il ruolo delle istituzioni e del welfare: non più difesa e consolidamento dello status quo, ma trasformazione attiva dell’esistente. Da questa prospettiva, Lucano è colpevole di non essere stato un copiatore seriale dei modelli dominanti, ma un abile artigiano istituzionale, capace di maneggiare gli strumenti amministrativi e di forzare – nelle maglie del diritto positivo e non contro di esso – i confini del ruolo istituzionale che rivestiva.

4. La deistituzionalizzazione dell’accoglienza e la Riace possibile

In un saggio del 1986 intitolato L’istituzione inventata (3), Franco Rotelli – stretto collaboratore di Basaglia sin dal suo arrivo a Trieste nel ’71 e protagonista della riforma dei servizi di salute mentale triestini (e non solo) – descrive la deistituzionalizzazione come «il processo pratico-critico che riorienta istituzioni e servizi, energie e saperi, strategie e interventi verso» un oggetto diverso da quello della pratica psichiatrica tradizionale – la malattia e la pericolosità del malato (il matto) – a cui corrispondono «coerenti istituzioni» come il manicomio, verso un oggetto nuovo, complesso e instabile che è «l’esistenza-sofferenza dei pazienti e il suo rapporto con il corpo sociale». Una rottura epistemologica radicale la cui posta in gioco va ben oltre la chiusura dell’istituzione totale manicomiale, e nella quale il “problema” diviene non più la «”guarigione” ma la “emancipazione”» delle persone assistite.

L’istituzione inventata – «e mai data», sottolinea Rotelli, per enfatizzare la processualità e quanto ancora c’era (e c’è) da fare – prende forma in servizi di salute mentale innovativi, aperti, promotori di pratiche di ingegneria sociale, «motori di socialità e produttori di senso […] a tutto spessore interferenti con la vita quotidiana, le quotidiane oppressioni, momenti della riproduzione sociale possibile, produttori di ricchezza, di scambi plurimi e perciò terapeutici». Per fare tutto questo, l’autore enfatizza l’importanza di mobilitare energie, soggettività e competenze molteplici: «[A]vremo, per questo, bisogno» – scrive – «di artisti, uomini di cultura, poeti, pittori, uomini di cinema, giornalisti, di inventori della vita, di giovani, di lavoro, feste, gioco, parole, spazi, macchine, risorse, ingegni, soggetti plurimi, loro incontro».

In un saggio di qualche anno dopo, Per un’impresa sociale (4), Rotelli evidenzia come questa operazione di immaginazione istituzionale investa radicalmente il ruolo e il funzionamento delle istituzioni di welfare, implicando un «rovesciamento della cultura delle agenzie di assistenza e delle migliaia di operatori che vi si addensano, dei modi d’uso di risorse enormi destinate a invalidare e a proteggere l’invalidazione invece che a valorizzare, ad attivare, ad animare, a intraprendere, a fare». La deistituzionalizzazione richiede, quindi, la liberazione delle energie – che esistono! – della cooperazione sociale dai vincoli e dagli impedimenti burocratici che le imbrigliano, per creare le condizioni concrete per un accesso reale ai diritti. Non solo quindi, nel caso della salute mentale, il diritto alle cure, «ma anche di produrre, avere una casa, un’attività, una relazione, mezzi economici, valore».

L’istituzione inventata è anche tutto questo: liberazione delle energie presenti sul territorio, relazioni originali tra pubblico e privato sociale, «ricostruzione di un tessuto di qualità, rifiuto dell’assistenzialismo, sinergie di intelligenze. Laboratorio del sociale. Politecnico di una materiale cultura, fuoriuscita dalla sfiducia, fine del nulla subito». Ma attenzione, la «de-istituzionalizzazione del pubblico […] non ha nulla a che fare con la deregulation» bensì con la demolizione della «burocratizzazione, l’inerzia, la compartimentazione, l’irresponsabilità del welfare, non il welfare». Un processo di risignificazione e reinvenzione del pubblico, di un «welfare altro»: in altri termini, istituzioni di welfare nuove, attive e responsabili nel garantire l’emancipazione, l’autonomia e il riconoscimento del ruolo sociale delle persone assistite.

Senza cadere in ingenue romanticizzazioni dell’esperienza di Riace, di cui forse in passato sarebbe stato anche utile discutere produttivamente i limiti e le inevitabili contraddizioni, ci sembra però che nelle pagine dei due testi appena citati risuonino critiche, suggestioni e argomenti forti che legano la sperimentazione di Lucano e dei suoi colleghi a quella – solo materialmente lontana – di Trieste e delle sue istituzioni di salute mentale. Non a caso, anche queste ultime diventate, come Riace, un modello di riforma istituzionale possibile a livello internazionale.

Quello di Riace è stato, infatti, un esperimento di pratiche de-istituzionalizzanti, attraverso la messa in discussione di quell’insieme di dispositivi che danno forma al sistema di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati: il controllo, l’isolamento fisico e simbolico dal resto della società, il disciplinamento e la vittimizzazione, l’integrazione orientata all’inserimento nelle gerarchie di un mercato del lavoro segmentato. Di fronte a un sistema di accoglienza istituzionale passivo, burocratizzato e, così, deresponsabilizzato rispetto alle sfide sociali e politiche che le migrazioni determinano, Lucano e gli altri hanno preso il rischio di assumere la complessità del fenomeno migratorio come oggetto dell’intervento istituzionale. D’altronde – riprendendo la nota definizione di Sayad – se le migrazioni sono un fatto sociale totale, i servizi di accoglienza coinvolgono le più diverse sfere della vita personale e sociale delle persone. È quindi la società il loro ambito di intervento, non le persone migranti.

Non è questo il contesto né tantomeno il momento per discutere se davvero l’esperienza di Riace abbia prodotto tutto questo. In altri termini, non serve stabilire se davvero, in concreto, Riace sia riuscita a praticare la deistituzionalizzazione, dando vita a istituzioni inventate dell’accoglienza. Non è infatti la Riace data la ragione dell’azione repressiva delle autorità, bensì la Riace possibile, ciò che sarebbe potuto essere, a Riace e altrove. Il modello sperimentato e raccontato, le energie liberate, la cooperazione sociale innescata, il disvelamento di un campo di possibilità inesplorato, che andava fermato a tutti i costi. Se la colpa di Lucano è questa, la “nostra” – su cui interrogarsi – è perché non siano divenute molteplici le Riace possibili. Oltre alla solidarietà umana e politica con Lucano, alle sacrosante manifestazioni, alle raccolte fondi e alle prese di posizione pubbliche, la sfida ora è forse quella di provare a reinventare Riace ovunque, non solo nell’accoglienza.


Bibliografia


(1) E. Rigo, L. Gennari, Processo alla solidarietà, il Manifesto, 23.02.2021, disponibile a https://ilmanifesto.it/edizione/il-manifesto-del-23-02-2021/

(2) Z. Campbell e L. D’Agostino, Friends of the traffickers. Italy’s Anti-Mafia Directorate and the “Dirty Campaign” to Criminalize Migration, 30.4.2021, disponibile a

(3) F. Rotelli, L’istituzione inventata, 1986, in F. Rotelli, Quale psichiatria? Taccuino e lezioni, Edizioni Alpha Beta Verlag, Merano (BZ), 2021

(4) F. Rotelli, Per un’impresa sociale, 1991, in F. Rotelli, Quale psichiatria? Taccuino e lezioni, Edizioni Alpha Beta Verlag, Merano (BZ), 2021.


Per citare questo articolo:


Caprioglio C., Ferri F., Gennari L., (2021), La colpa di Lucano: una lettura della condanna oltre la criminalizzazione della solidarietà, pubblicato in Studi Sulla Questione Criminale Online. Consultabile al link: https://wp.me/p7JYW5-16J


(Studiquestionecriminale.wordpress.com, 11 ottobre 2021)

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