20 Febbraio 2003

Mirafiori, i cavalli e «la Feroce»

Da immigrato a operaio. Una metamorfosi datata anni `60 e raccontata attraverso la vita di tre tute blu, che è anche un modo per raccontare la storia della Fiat in un momento in cui la fabbrica per eccellenza viene commemorata attraverso la morte di Giovanni Agnelli. Rino Brunetti detto «Zorro», Luciano Parlanti e Pino Bonfiglio, sono stati tre leader delle lotte operaie capaci di realizzare la loro rivoluzione: il riscatto da un destino di subordinazione
Marco Revelli

«Sai i cavalli giovani, appena domati? Tirano ancora calci. Il vecchio domato, invece, è paziente. Ha fatto tutto quello che poteva fare, poi ha dovuto prendere per forza la carretta e tirarla. Li vedevi, in fabbrica, dai volti, con quelle rughe, quegli occhi del sud, stanchi della terra, e invece era un metalmeccanico. Noi appena arrivati guardavamo questa trasformazione da un cavallo purosangue a un asino da soma, ed era una cosa che ti faceva piangere il cuore: «Io dovrei fare questa fine qui? Ci hanno fatto venir su per trasformarci così? E allora via in corteo, attraverso le officine!». La raccontava in questo modo, Rino Brunetti, la sua metamorfosi da immigrato a operaio. E ne andava fiero. La prima volta che l’avevo ritrovato, dopo il black out dei secondi anni settanta e la caduta dei 35 giorni che l’aveva condannato al tempo vuoto della cassa integrazione, era stato in un pomeriggio di giugno del 1981, alle Vallette, dove abitava da quasi un decennio. Il quartiere era immerso nell’afa appiccicosa delle estati torinesi. Agli angoli delle strade, grandi mucchi di spazzatura accumulata per lo sciopero dei netturbini, a cui la gente aveva dato fuoco per liberarsi dal fetore, fumavano lenti, con volute oleose, tingendo il sole di un colore rossastro, da tramonto africano. O da paesaggio di guerra. Rino giaceva sul letto, spossato, nella sua stanza sconvolta, dopo tre giorni di veglia. Dalla radio la voce dello speacker annunciava da Vermicino la morte del bimbo caduto in un pozzo artesiano per la cui sorte tutto il Paese aveva trepidato, e lui, emotivo e partecipe fino all’autolesionismo, ripeteva: «Guarda come finisce Zorro. Se non sappiamo nemmeno salvare un bambino in un pozzo, che senso ha la nostra vita?».

Zorro e l’ingranaggio

 

«Zorro» era stato il suo nome di battaglia in Fiat, da quando, nell’«autunno caldo», aveva incominciato a «firmare» con una grande zeta le proprie personalissime azioni di boicottaggio dei crumiri: «Cosa faceva Zorro? – raccontava ridendo – Per esempio saliva dove i capi e i crumiri scaldavano i “baracchini”, quelle specie di gavette portate da casa, con dentro pollo, tacchino, minestra, roba buona, li vuotava, qualcuno lo riempiva magari di acqua sporca, e portava tutto di sotto, dove c’erano gli altri, quelli che avevano scioperato, che lottavano, e avevano l’affitto, la luce, l’acqua e il gas da pagare, e non avevano niente nel baracchino, metteva tutto quel ben di dio in comune, e si faceva festa». Ma prima di diventare «Zorro», Rino aveva fatto di tutto.
Era nato in un paesino vicino a Napoli, nel 1942. Il suo primo ricordo – non so se un sogno o un frammento di realtà – è terribile: come in una fiaba crudele, i suoi due fratellini sono legati vicino al pozzo di casa e la madre lo insegue, per catturare anche lui e farla finita tutti insieme. Il padre «disperso» in Albania, i pochi risparmi finiti, quella sembrava essere l’unica soluzione, quando miracolosamente sul sentiero apparve la figura del padre «vestito da tedesco» ritornato dalla prigionia, e il dramma fu evitato. Vero o non vero, certo è che gli anni successivi non erano stati facili: panettiere, benzinaio, battilastre e poi, a 16 anni, alla fine degli anni `50, Torino. «Scrivevo a casa che stavo bene, che qui c’erano tutte le cose che ci avevano promesso, invece piangevo, proprio piangere!, dalla mattina alla sera, perché pioveva sempre. Abituato a vivere con il sole e il mare, che a me dava la vita, mi sentivo morire. E poi laggiù eravamo abituati che qualsiasi cosa succedeva, si parlava tutti insieme, si discuteva. Invece qui, proprio quella diffidenza nordica. E quella programmazione! «io alle nove devo andare qui, alle dieci devo fare questo, alle undici quello…», e se ti saltava un passaggio impazzivi. Io al sud non conoscevo l’orologio, da quando son venuto su vivevo solo più per l’orologio. Sono stato male appena ho incominciato a capire cos’è questo ingranaggio, l’orario come «tutto il calcio minuto per minuto». E la solitudine: un giorno ho visto un funerale, in centro, in via Principi d’Acaia: c’era il carro funebre, e dietro una sola persona. Una sola! Al paese, quando morivi, venivano tutti, anche i cani – i cani animali -, anche gli infami. Qui, invece, tutta una vita e dietro niente. Allora sono crollato». Mirafiori l’ha salvato: Mirafiori quando era ancora una comunità operaia, densa di uomini e di ribellione. Lì ha ricostruito i suoi legami, negli scioperi, nei cortei, nella dignità riscoperta ogni giorno attraverso la solidarietà con quelli come lui, contro quelli che stavano sopra, e pretendevano di usarli come si usano le cose. Rino, una «cosa» – un oggetto, una merce – è riuscito a non diventarla mai. E i legami, ha continuato a tesserli, sempre. Alle Vallette raccoglieva i ragazzi di strada, quelli cui come unico destino la società per bene lasciava un futuro di emaginazione o di piccola delinquenza. E li «educava»: «Teppa siete. Venite con me, diventerete comunisti», ripeteva spesso. Lo ricorda Emilio, uno di quei «ragazzi», che comunista lo è diventato davvero, nel senso non politico ma «antropologico» del termine, se è vero che continua a gestire il suo bar come luogo d’incontro, di socialità e di discussione sulle ingiustizie piccole e grandi.
Quanto a Zorro, l’ultima volta che l’ho incontrato, era nel reparto di medicina oncologica delle Molinette, divorato da un cancro allo stadio terminale. Intorno, ritagli di giornali, libri, manifesti: le testimonianze di un’esistenza, e lui, dal letto, che spiegava alle infermiere, e a un vicino morente, quanto importante sia il modo in cui si è vissuto.
Mi è venuta in mente allora una frase che ripeteva spesso, a proposito del cervello e della libertà, parlando della fabbrica e della rivolta, dei ritmi monotoni, della ripetitività e della catena di montaggio: «Mi ricordavo quando andavamo a liberare gli uccelli messi in gabbia per farli scappare, e questi qui non sapevano più volare. Allora provavamo una tristezza, un dolore, e pensavamo al nostro cervello, a come ce lo stavano aggiustando in fabbrica: “Dio fa’, qui il nostro cervello non ce lo fanno più pensare”».

 

Raccontare la fabbrica

 

La stessa immagine l’aveva impiegata, qualche anno prima, Luciano Parlanti, anche lui a proposito della Fiat di cui era un pezzo vivente di memoria, ricordando la «rottura» sociale, ma anche esistenziale, rappresentata dai fatti di piazza Statuto: la prima, violenta rivolta operaia dopo la lunga crisi degli anni `50 e la trasformazione radicale nella composizione del lavoro nel cuore della produzione automobilistica. «…tu fai sempre lo stesso lavoro, lo stesso bullone, la stessa saldatura, fai gli stessi passi, gli stessi orari, stessi pasti, stesso baracchino, ti alzi sempre alla stessa ora… non sei più un uomo, sei un robot. Ricordo che quando mi alzavo alle cinque del mattino, in realtà alla Fiat mi svegliavo alle nove. Mi svegliavo alle nove ed era dalle sei che lavoravo. Il mio cervello era proprio congelato… il nostro cervello, in quegli anni vallettiani, era rimasto lì, bloccato, fermo, eravamo degli automi. Poi venne il 1962: il cervello si aprì, tutto d’un colpo».
Era uno straordinario narratore, Parlanti. Raccontava la fabbrica come nessun altro era capace, come una propria memoria personale, un pezzo di sé. Di una decina d’anni più anziano della generazione di Zorro, una tradizione di comunismo livornese alle spalle, Luciano aveva dentro la stessa rabbia di quelli – e anche la stessa identità: l’essere e il sentirsi, come dire?, individuo e gruppo insieme; persona ma anche «pezzo» di qualcosa che va oltre te stesso, più ampio, allargato e forte -. Ma l’esprimeva in modo diverso: tutto dentro l’officina, come se la fabbrica fosse la sua seconda natura, il luogo geometrico dell’esistenza. Raccontata da lui, la catena di montaggio prendeva forma e voce: il reparto, la complessa geografia della fabbrica – di quella fabbrica, Mirafiori, di quasi 3 milioni di metri quadrati, una città -, diventava una realtà vivente, capace di una dimensione epica. Il piolo piantato tra le maglie del nastro trasportatore che, giunto a fine corsa, impattando con la parete finale della linea strappa la catena e ferma la produzione lasciando respirare gli uomini; la riga tracciata sul pavimento di terra, segno di riconoscimento essenziale per capire se il capo ti frega accelerando la cadenza e per saltare giù in tempo; la conta dei pezzi in più o in meno rispetto alla «norma» come misura del rapporto di forza tra padrone e operai; sono i frammenti di un discorso complessivo, universale, sulle alterne vicende del rapporto tra capitale e lavoro nel cuore del mondo in cui ogni gesto, anche minimo, ogni comportamento, anche periferico, sposta qualcosa. Determina e pesa.
Da Luciano ho imparato quanta fatica nascosta, e sforzo collettivo anonimo, ed energia intellettuale e sociale, e anche di violenza, ci fosse alla base della nostra democrazia sociale degli anni sessanta e settanta, quando ogni centrimetro di socialità e di reddito redistribuito e di libertà dal e nel lavoro doveva essere strappato nel corpo a corpo con le macchine e le gerarchie di fabbrica. Non nascondeva nulla, quando raccontava dei cortei tumultuosi e difficili dentro le officine, delle corde con cui a forza i recalcitranti venivano guadagnati alla rivolta, dei bulloni che volavano, ma anche della dolcezza con cui – fuori finalmente da quell’inferno di ferro e olio bruciato, di acidi e di fumi – le persone, liberate dalla morsa del lavoro e del comando, potevano reincontrarsi e riconoscersi. Se n’è andato anche lui, la primavera scorsa, schivo, appartato e un po’ misterioso com’era vissuto, senza che sapessimo nulla del suo male, e neppure della sua morte scoperta tardivamente, quando era già tardi per un saluto.

 

La mitica 54

 

E poi Pino. Pino Bonfiglio. Era un leader naturale. Nell’autunno del `69, quando era stata decisa spontaneamente l’occupazione di Mirafiori, da solo, in piedi su un cassone, aveva organizzato i presidi delle 35 porte dello stabilimento, una per una. Conosceva tutti i gruppi organizzati e informali in fabbrica, le reti etnico-regionali, i loro capi naturali – sardi, pugliesi, siciliani, cerignolesi, lucani, veneti… forse un po’ meno i piemontesi -, e gli intricati percorsi, sotterranei e in superficie, che collegavano le diverse Sezioni, così, chiamando ognuno per nome o soprannome, copriva il perimetro di quel mostro di fabbrica.
Era arrivato anche lui, lì, su quella cuspide del mondo dove si facevano cadere i governi e si decidevano le sorti dell’economia italiana, dopo un lungo, accidentato percorso attraverso il lavoro. Anzi, «i» lavori, partendo da Messina, nell’immediato dopoguerra: prima il ciabattino, poi il ciclista, a 10 anni, per uno stipendio di 5 lire la settimana, panettiere, fabbro ferraio infine Torino, il 10 maggio del `62, saldatore in una fabbrica di marmitte per la Gilera, e dopo qualche anno di apprendistato, Mirafiori. Verniciatura. A fare la 124: tutti meridionali con il capo squadra e l’operatore piemontesi, 60 macchine all’ora, una al minuto, in uno dei reparti peggiori, l’«antirombo» («stavamo con l’acqua fino al ginocchio e quel liquido nero che ti colava addosso, ti entrava nella pelle, noi cercavamo di ripararci con stracci portati da casa, ma servivano a poco»). E poi a fare le lotte, alla guida della «mitica» 54, l’Officina che nella primavera del 1969, con uno sciopero spontaneo a oltranza, aveva bloccato tutta Mirafiori per quasi venti giorni anticipando l’«autunno caldo». Ma quando, per punizione, era stato trasferito alla periferia dell’impero, isolato e separato in un reparto marginale, non aveva fatto una piega. Aveva continuato esattamente come prima a tessere la rete dei legami e delle solidarietà fuori dalla fabbrica, nel ristorante dove a fine turno faceva il cuoco (cucinava benissimo). E a tessere aveva continuato anche dopo l’autunno `80, quando – capito che il gioco in fabbrica era ormai chiuso – aveva organizzato una trattativa collettiva con i suoi dieci compagni di lavoro ed era riuscito a strappare quasi un miliardo di liquidazione straordinaria (novanta milioni a testa, con cui si era pagato il ritorno al lavoro originario di fabbro ferraio). Era solito ripetere che la Fiat lascia il suo segno sui corpi, non per niente i vecchi operai la chiamavano «la Feroce». Se l’è portato via un tumore allo stomaco, quasi tre anni or sono.
A loro tre ho pensato, la mattina del 25 gennaio, sul tetto del Lingotto, mentre la fila di gente curva aspettava di rendere omaggio alla salma del «sovrano», e i giornali intitolavano «Grazie Avvocato». Li ho pensati con nostalgia ma con serenità, perché anche se al loro funerale non c’erano stati né cardinali, né sindaci, né televisioni e giornali, la loro «impresa» l’avevano chiusa comunque in attivo. La loro «rivoluzione» l’avevano fatta, dentro di sé, rovesciando un destino di subordinazione in una pratica di autonomia, senza comando e senza obbedienza.

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