7 Ottobre 2006

Movimenti in comune verso spazi pubblici non statali?

Peppe Allegri

Il movimento studentesco e una minoranza attiva delle/i precari-e della ricerca che nel settembre/ottobre 2005 si sono opposti al ministro Moratti (nel suo processo di istituzionalizzazione del precariato della ricerca) e all’Università del 3+2 hanno provato a “nominare” l'”autoriforma dal basso”. È stato il tentativo di enunciare, dal punto di vista comunicativo, una via di fuga rispetto ad una contestazione che era stata radicale, rabbiosa, minoritaria (perché particolarmente radicata nell’occupazione di 15 facoltà de La Sapienza di Roma) e al contempo assai partecipata, con un protagonismo giovanile impensato; ma in ogni caso completamente isolata rispetto sia ai mass media mainstream, che alle forze sindacali, per tacere di quelle dell’allora opposizione parlamentare.
Di fronte all’assenza di recepimento delle istanze del movimento (il Ddl Moratti divenne legge e non ci fu nessuna messa in discussione dell’Università esistente), i soggetti che avevano dato vita alle mobilitazioni proposero l’autoriforma dal basso come proposito, dispositivo di immaginazione politica per tentare una fuoriuscita creativa dalla contestazione: un anelito alla sperimentazione di pratiche immediate di riappropriazione di tempi, spazi, saperi, rispetto al contesto universitario e alla sordità della politica istituzionale.

 


I/LE PRECARI-E DELLA RICERCA E DELLA DIDATTICA, TRA INDIGENZA E DISSIPAZIONE
Si può ragionevolmente sostenere che il precariato nel mondo universitario, e più in generale nel “lavoro culturale”, sia sempre esistito. Ma nell’ultimo decennio all’interno delle cittadelle universitarie si è assistito ad un incontrollato proliferare di contratti, collaborazioni, assegni, etc. per docenza e ricerca, che hanno coperto il proliferare di crediti, insegnamenti, corsi previsti dalle riforme universitarie degli anni ’90. Fino ad arrivare alla stima, per difetto, di una forza lavoro di ca. 60.000 persone, comprese nella forbice dei 25-45 anni, che sono legate all’università da contratti temporanei, prestazioni d’opera, assegni di ricerca, etc., cui si aggiunge la “zona grigia” delle/i dottorande/i di ricerca, massimamente impiegate/i nei laboratori, ovvero per fare esami, seguire tesi, tutoraggi, etc. Un gran calderone di prestazioni intellettuali confinate nell’invisibilità delle garanzie e invece in prima linea nel mandare avanti il mondo universitario.
Questa moltitudine di precari-e che subiscono l’intermittenza della retribuzione, mentre lavorano continuamente, spesso diversificando le loro prestazioni (una delle formule delle/i precari-e è: “lavoratori della conoscenza a tempo indeterminato, retribuiti occasionalmente”): alternano eccesso di lavoro di docenza, consulenza, assistenza, ricerca, etc. con momenti di non lavoro (i periodi sabbatici garantiti agli strutturati), quindi ricerca solitaria con studi collettivi, scrittura e sperimentazioni, solitudine e comunanza, etc. A dimostrazione della impossibilità di discernere, nel “lavoro culturale”, creativo, i momenti di lavoro tradizionale da quelli di non lavoro, questione che investe in pieno le trasformazioni del lavoro in epoca postfordista e che fa il paio con la “femminilizzazione del lavoro” (Borderias, etc.), con il diffondersi del lavoro di cura, la messa al lavoro delle capacità relazionali e di linguaggio, etc. E rispetto a tutto ciò sia la sinistra (moderata o radicale che sia), che i sindacati non riescono a far nulla di meglio che riproporre uno “sterile (e improbabile, antistorico) ritorno al fordismo”(1).

 

Questo mondo sommerso ha conosciuto un piccolo, ma considerevole, processo di autonarrazione e soggettivazione politica, uscendo dall’invisibilità in cui era confinato, prendendo la parola in prima persona, rivendicando protagonismo, garanzie e provando a sperimentare una produzione e diffusione dei saperi che valorizzasse il momento della cooperazione sociale, senza chiudersi in rivendicazioni corporative, pietistiche, nostalgiche.
Ma quella “minoranza attiva” delle/i precari-e della ricerca e didattica è fatta di una strana combinazione, scissa tra una indigenza economica che costringe a sommare una serie indefinita di lavori, consulenze, collaborazioni e al contempo il perdersi in un eccesso di relazioni sociali, nel vivere la vita come “evento permanente” e come frammento di una trasformazione sociale condivisa con il resto della generazione precaria. Un contraddittorio alternarsi di vita messa al lavoro e di febbrile ricerca di spazio-tempo liberato: “lavorare con la lentezza” della passione e al contempo con l’urgenza dell’insofferenza, sottrarre “tempo perso” al lavoro per la condivisione e comunanza; sofferta concretezza e lud(dist)ica dissipazione, in una febbrile ricerca di combinare “felicità privata con felicità pubblica”, invece di alternarla (per dirla con A. O. Hirschman). Anche per questo la “minoranza attiva” delle/i precari-e della ricerca ha incontrato immediatamente il movimento studentesco dello scorso autunno: c’era una condivisa urgenza di mettere a tema una radicale trasformazione del sistema di produzione e trasmissione dei saperi (università, ricerca, formazione, etc.), insieme con la necessità di rivendicare un nuovo welfare, all’altezza delle trasformazioni sociali avvenute nell’ultimo ventennio. In anticipo rispetto alla primavera francese anti-cpe l’isolato movimento studentesco dell’autunno italiano aveva coniugato i “diritti al futuro” della generazione precaria, provando a parlare di una sensazione di insicurezza ormai intergenerazionale.

 

Per converso una parte ampia del precariato della ricerca e docenza si trova stretto dentro l’urgenza di entrare comunque nell’Accademia esistente, come è normale che sia nelle situazioni di totale crisi e chiusura di sistemi per definizione già autoreferenziali.

 

MISERIE DEL PRESENTE, RICCHEZZE DEL POSSIBILE: DALL’UNIVERSITÀ DI OGGI AGLI SPAZI PUBBLICI NON STATALI?

 

a) Quale Università, “al giorno d’oggi”…
Per molte/i tra la generazione dei neo-strutturati e quella del precariato di ricerca e docenza restare e/o tornare all’Università è come provare a dare forma ad una passione di ricerca, didattica, scambio e confronto con le nuove generazioni, piacere di vivere le trasformazioni, etc.: una sorta di “desiderio sociale”, di continuare a mettersi in gioco con quell’età in cui tutto sembra ancora possibile. E questa aspirazione è spesso vissuta “a discapito della logica”, provando a gettare lo sguardo al di là dell’Università esistente. Eppure percependo che l’attuale università in trasformazione (dagli anni ’90 in poi) potrebbe divenire un’impensabile spazio di immediata azione politico-culturale: come se si potesse desumere dall’avvento della crisi/riforma/trasformazione lo spazio e l’occasione per pratiche innovative. Con la consapevolezza insomma che non ci sia un’età dell’oro da rimpiangere della recente storia universitaria italiana (che per lo meno noi non abbiamo sperimentato): non c’è nostalgia, né massimalismi ottusi e conservatori, ma solo la volontà di essere in modo intelligente più o meno dentro uno spazio di formazione e incontro tra generazioni, come può essere ancora l’Università.

 

Andando per approssimazione e cenni, “al giorno d’oggi” l’Università sembra in una crisi strutturale che investe la sua organizzazione: tra persistenza di baronie pre-moderne, introduzione di una progettite neo-burocratica (ne ha parlato già Adele Longo nella sua relazione) e aspirazione ad una governance post-moderna.
Il tutto ossessionato da una deriva produttivistica, asservita all’economicismo dei crediti formativi, della frammentazione e diversificazione dell’offerta formativa e quindi della parcellizzazione dei corsi, degli insegnamenti, dei master, seminari, etc., con effetti a cascata sulla previsione di contratti di docenza-ricerca-assistenza senza alcuna garanzia e soprattutto sui tempi di studio/apprendimento di studenti/esse, quindi sugli spazi delle cittadelle universitarie, che vedono alternarsi di tre mesi in tre mesi il desolante deserto e l’eccesso di densità studentesca.

 


b) dimenticando il contesto politico-economico?
Per converso l’attuale quadro politico-istituzionale sembra solo in parte voler invertire la rotta rispetto all’ultimo lustro. E allora, senza entrare nel merito di una legge finanziaria disastrosa per università&ricerca, vi è un ministero che prova assai timidamente a rimettere in discussione il 3+2 (attraverso la probabile (?) previsione di una commissione di valutazione dei suoi effetti), l’accorpamento dei crediti e degli insegnamenti, la razionalizzazione della governance, la convocazione degli Stati generali dell’Università, con ciò appropriandosi in parte del linguaggio dei movimenti di opposizione presenti nelle scuole e nelle università negli ultimi anni (“mai più riforme dall’alto”, “i riformatori siete voi”, “disarmo normativo”, etc.).

 


c) noi “qui e ora”: per uno spazio pubblico non statale…
Proprio questo contesto in transizione potrebbe dare l’occasione di realizzare ora il “nostro nuovo governo” (cogliendo l’evocazione fattane da Cristina Mecenaro nella sua relazione).

 

Provare a puntare sulla “vita universitaria” e non sulla università intesa come istituzione: investire nei percorsi di autoformazione tra più o meno giovani e più o meno intermittenti lavoratori/lavoratrici della conoscenza e studenti/esse. Una nuova relazione formativa che tenga conto della “qualità sociale” dei saperi, che colga il vincolo dei “progetti” come occasione di messa in comune del lavoro, di inclusione di soggetti altri rispetto a quelli tradizionalmente interni all’Accademia, di apertura pluralistica, di presa di parola pubblica, critica e collettiva, che parli il linguaggio della condivisione, piuttosto che quello della separazione e dei tecnicismi, che sia sempre eccedente rispetto allo status quo culturale, politico, sociale.

 

Sperimentare lo spazio universitario, non più come cittadella arroccata, ma come reale spazio aperto alle innovazioni sociali. Giocarsi la possibilità che la metropoli, la città, il territorio invada l’università e scombini le istituzioni, tanto quanto i saperi codificati. Contribuire alla creazione di nuovi spazi pubblici non statali, insieme con i soggetti sociali portatori di domande irriducibili sia alla politica esistente, quanto al contesto economico dominante. E in questo aprirsi e lasciarsi attraversare dal territorio si dovrebbe far tesoro dell’incontro con le pratiche delle forme dell’autorganizzazione sociale: dall’associazionismo diffuso, ai centri sociali, dalle strutture di intermediazione culturale, ai collettivi che lavorano sull’ambiente, le nuove tecnologie, la formazione diffusa, etc.
Inventarsi nuove pratiche di cooperazione, solidarietà e comunanza con i soggetti portatori di richieste sociali (nuovo welfare, produzione e fruizione culturale, servizi pubblici, questione abitativa, formazione diffusa, immigrazione, etc…..), lavorando anche sulla possibilità di ottenere un’autonoma produzione e redistribuzione di reddito, diretto e indiretto. Provare a inserire la radicale trasformazione dell’università nel contesto di un ripensamento dell’intero sistema sociale, auspicando che l’università in mutamento sia una delle occasioni dalle quali partire per rendere possibile questo cambiamento.

 


DOMANDE INTERROTTE
In conclusione vale la pena nominare la possibilità di questo incontro.
Come fare della internità/esternità all’università esistente un’occasione sperimentabile per creare spazi pubblici non statali? Ci sono pratiche di relazioni possibili tra le minoranze attive dei movimenti studenteschi, delle/i precari-e della ricerca con la politica delle donne e dell’autoriforma della scuola e università, così come è stata sperimentata nello scorso decennio? Può essere questa un’occasione di crescita reciproca nella differenza e tra le differenze? Ciò permetterebbe ai movimenti studenteschi e delle/i precari-e di evitare un ripiegamento nelle forme usurate della politica, che dalla contestazione portano ad invischiarsi con il lato più oscuro della rappresentanza dei partiti, piuttosto che nella sterile dialettica sindacale? Che sia un momento di rilancio anche per quegli esperimenti di autoriforma nell’università di inizi anni ’90?

 

Non sappiamo se questo incontro sia realmente “nei tempi” delle nostre esperienze: andrebbe forse sperimentato un momento dell’intempestivo e dell’inattuale. Ma al contempo c’è la difficoltà di pensarsi come singolarità che possano praticare una comunanza nella differenza: c’è insomma anche l’irruenza immatura e a tratti effimera dei movimenti interni ed esterni all’università, a fronte di una consolidata tradizione di pratica politica dei movimenti femministi e dell’autoriforma. Può esserci una reciproca diffidenza. Siamo all’altezza di inventare un incontro generazionale che, partendo dalle pratiche di narrazione e di soggettivazione, trasformi l’università in uno dei possibili spazi pubblici non statali? Dagli “sguardi e movimenti di donne sul lavoro che cambia” e dalle narrazioni di molti gruppi di giovani donne, così dalla nuova “narrativa precaria” (Michela Murgia, Francesco Dezio, Giorgio Falco, etc.) (2) è possibile realizzare “l’intreccio tra creazione di un linguaggio e costruzione di una consapevolezza di soggettività”(3), che permetta di “trovare nella condizione di lavoro postfordista, gli elementi di liberazione o almeno di autotutela”? (4) Di nuovo: si può sperare che questo spazio di narrazione/soggettivazione possa attraversare l’università, trasformando quel luogo e i dispositivi che produce? Pensiamo valga la pena giocare la scommessa di questa creazione?
Dipende dalla nostra capacità inventiva ed immaginativa, ma anche dalla nostra debolezza, di movimenti che tentano di cambiare radicalmente l’esistente, in un epoca di massimalismi ottusi, insofferenti risentimenti, assenza di radicali riformismi ed evanescenza delle forze sindacali e di sinistra. Ma dipende soprattutto dalla nostra capacità di conoscerci nello scambio reciproco, ricombinando le nostre identità predefinite e senza presumere un’unica strategia risolutiva: provando a pensare che probabilmente non abbiamo nulla da perdere, ma solo da guadagnare, nello sperimentare un’alleanza inedita tra diverse/i che si attivano per una radicale e condivisa trasformazione dell’esistente.

 

Note:
(1) S. Bologna in Tre donne e due uomini che parlano del lavoro che cambia, Quaderni di Via Dogana, Libreria delle Donne, Milano, 2006, pp. 43-44.
(2) Nel corso di Incontrotempo3 – festa delle precarie e dei precari, svoltosi a Roma presso il Laboratorio Occupato e Autogestito Acrobax, si è tenuto un primo incontro dal titolo LAP – Letteratura a progetto. Come si scrive precarietà?, in cui un nutrito gruppo di “giovani narratori/narratrici della precarietà” hanno avviato una discussione, che si protrarrà nel tempo, con precari-e della ricerca, del lavoro culturale e più in generale del precariato sociale diffuso. Cfr. www.acrobax.org,
(3) Così A. Nannicini, in due recenti lavori contenuti in Tre donne e due uomini che parlano del lavoro che cambia, cit. e nel volume a cura di T. Bertilotti, C. Galasso, A. Gissi, F. Lagorio, Altri femminismi, manifestolibri/Società italiane delle storiche, Roma, 2006.
(4) S. Bologna articola lungamente questa analisi in Tre donne e due uomini che parlano del lavoro che cambia, cit.

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