4 Maggio 2004
il manifesto

Nel mondo dell’immondo, storie di “Monnezza”

Ulrike Viccaro

Roma anni 70, quando era al culmine l’epopea dei «cernitori» e dei raccoglitori d’immondizia, non ancora «operatori ecologici». La loro eredità sta per diventare un dramma: MalagrottaVi hanno mai detto, da bambini, «studia se no vai a fare lo scopino»? A me è capitato spesso di sentire questa frase, e di sobbalzare leggermente perché proprio questo era il mestiere che faceva mio padre. I bambini non sono tanto operaisti, o semplicemente risentono del mondo che li circonda e ne assorbono vizi e pregiudizi; da grande, credo che questa mia provenienza abbia creato qualche disturbo. Non riesco ad attuare separazioni definitive da nessun vestito, sia pure vecchio e lacero, né da oggetti rotti. Il secchio diventa una sorta di tomba, e accompagno le cose – fruste, inutilizzate, inservibili – verso il loro destino di rifiuti con la faccia e l’incedere da funerale. Non parliamo neppure della carta, feticcio sottile accumulato anche per anni negli angoli più nascosti della casa, di cui riesco a liberarmi dopo accurata selezione e enormi sospiri. Velleità artistiche – mai tramutatesi in realtà pratiche – mi inducevano a pensare che avrei prodotto opere d’arte dal rifiuto, e la fantasia si sbizzarriva nel pensare – non fare: pensare – a pupazzi imbottiti con scarti di vestiti, cornici rivestite di cartapesta, scatolette di latta tornate a nuova vita nella loro nuova funzione di porta-qualcosa-che-forse-ora-non-serve-ma-poi-chissà. Un angolo del mio cervello sembra essersi dedicato solo a questo pensiero: come posso riutilizzarlo? Sono proprio sicura che non mi servirà più? E se poi lo getto via e poi scopro che lo potevo usare ancora, in un altro modo?

 

Il mestiere della cernita

 

Sarà per questo che l’incontro con persone che hanno fatto del mestiere della cernita dell’immondizia la propria fonte di guadagno colpisce così tanto. Prima che questo mestiere diventasse un’esclusiva dei nomadi e degli addetti comunali al riciclaggio, e prima che la gestione dei rifiuti urbani fosse responsabilità diretta del comune, c’erano persone che si recavano presso i giganteschi prati che circondavano le periferie, ricoperti di immondizie, e «sceglievano» le cose da prendere per riutilizzarle, immettendole di nuovo nel ciclo produttivo.

 

Chi ha svolto questo lavoro lo ricorda spalancando gli occhi, come per voler far entrare nelle proprie pupille tutto lo stupore di chi ascolta. Come mai non sai della cernita? A leggere e rileggere Pasolini lo trovi, questo e altri mestieri da borgataro; anzi, nei libri e nei film sulla borgata viene fuori un filo spesso di significati, quello che collega i «borgatari» confinati ai margini della città con l’immondizia, il recupero, il «vivere separato». Ho conosciuto anche una cernitrice donna, Anna, che lavorava nel cuore di Roma, a Trastevere. «Capava» i metalli: tra tutti uomini, «io l’unica donna. Lavori da maschio, capisci?»; quando ho usato il termine «riciclaggio» riferito al loro lavoro, Sergio (manovale edile, asfaltista, poeta e scrittore, cernitore) mi ha corretto: «Cernìta. non riciclata, o differenziata. Cernìta a me piace di più». Anch’io «cernisco», scelgo tra i racconti, li «càpo» e li rimonto. Quello che mi è più vicino è quello di Silvio Zaccarelli, che conosce mio padre da quando è entrato «a fa’ er monnezzaro», e mi permette di registrare un racconto di due ore sulla sua vita, e sulla vita dell’immondizia romana: «Un’assunzione al comune di Roma, e da lì ho iniziato la cosa che è stata una Divina Commedia… non in tre parti, perché il Paradiso manca, ma è stato Inferno e Purgatorio. Da una parte l’avvilimento più grande… Io credo che era un mondo, proprio, e poi te lo racconterò, che ce se potrebbe veramente scrìve, ma non pe’ fa un libro, ma… un cortometraggio sulle realtà, che veramente me sembra de rivìve adesso vedendo i nomadi, gli extracomunitari».

 

Non trespoli, sacchi

 

Sono i primi anni `70, non sono gli anni dei «miei» cernitori: «L’impatto più brutto è stato quello de anda’ a Balduina, nell’unica parte de Roma dove ancora resistevano i sacchi piuttosto che i trespoli: ancora il servizio andava fatto sulle scale, co’ ‘sti famosi sette sacchi che te venivano dati, e che pe’ un mese nun venivano cambiati. Tu dovevi anda’ all’ultimo piano, bussare alle porte se non c’era er secchio de fòri, e…: `Monnezza!’, quella tirava fuori il secchio della mondezza, e tutto quello che c’era… ma proprio tutto! E soprattutto era il liquame del risultato delle attività culinarie, che lì erano già in quei tempi abbastanza sostanziose; insomma quando eri arrivato al primo piano eri praticamente già pieno de olio, che oltre che nauseante per l’odore… Poi, la cosa veramente assurda era il fatto che la gente te guardava come se tu eri il monatto della situazione. Cioè, proprio l’untore. Te scansavano, e non c’era doccia che potesse tene’ al fatto che quando te finivi… Perché `sta sporcizia, per lo meno a me, me rimaneva proprio dentro».

 

Questa particolare sporcizia mi fa venire in mente per associazione di idee un’altro tipo di separatezza raccontata, quella di alcuni ragazzi del Pitigliani. Allora era orfanotrofio, oggi è centro di cultura ebraica. Ora faccio una cernita, monto due racconti: un ragazzo ospite, e un’educatrice che vive con i ragazzi: «Io faccio parte di quella fascia di ebrei che scappati dalla Spagna si sono poi insediati in tutto il Nord Africa, tant’è vero che il mio cognome è di origine tunisina, mentre mia madre è di origine libica. Già nella scuola io me ricordo de `na ragazzina romana che il primo giorno de scuola piangeva disperata come se j’avessero `mmazzato il padre e la madre, che l’avevano messa in una classe de tutti tripolini: stava coi beduini in classe! E’ vero! Cioè, verità vissute! La mia sezzione era `na sezzione de beduini. Noi avevamo la possibilità di non farci capire dall’insegnante perché parlavamo tutti l’arabo, e quindi potevamo parlare fra noi in arabo».

 

«Quelli dell’orfanatrofio»

 

«La scuola meglio non parlarne, perché i nostri ragazzi, già… E’ vero, perché anche a scuola: `…quelli dell’orfanotrofio…’! E hai voglia a vestirli bene, a cosarli, niente da fare. Loro ci dicevano sempre: `signorina Giu’, noi siamo la shakoranza!’. Shakor significa la cosa brutta, cosa che non ha nessun… ecco, l’immondizia».

 

Già, l’immondizia. Il primo significato di «shakor» è nero, ma il passaggio è semplice. Siamo al filo di prima, al senso profondo di immondizia: immondo è impuro, mentre puro è trasparente, non inquinato, «di prima scelta». Una cosa bella – puro è anche buono, no? – che non ha niente a che vedere con l’inferno, il posto dei cattivi, dei «diavoli» «Il tipo de macchinario che stava all’interno degli stabilimenti di raccolta dei rifiuti non prevedeva l’apertura dei sacchi, e quindi c’erano dei lavoratori all’interno degli stabilimenti che erano [detti] i diavoli, perché se dovevano mette’ nella buca dove veniva scaricato il camion con l’immondizia; tu te immagini, il camion quando scarica… la cosa che sale so’ le cose più leggere, quindi la polvere, oltre al fetore… e questi, arrampicati con un’ascia, co’ un’ accetta, dovevano rompe’ tutti i sacchi! Il lavoro diventava veramente diabolico, ecco perché erano chiamati diavoli; e io da questo deduco che il ritardo della raccolta a sacchi era dovuto al fatto che sicuramente qualche ingegnere che aveva costruito lo stabilimento seguitava a pensa’, co’ tutti i suoi studi, che la cosa, che lo scarico del camion doveva avveni’ così come avveniva all’interno dei vecchi orti, e non s’era accorto che invece mettendo il sacco bisognava pure fa’ un meccanismo semplicissimo che era il famoso spaccasacchi; cioè una macchinetta che apriva i sacchi mano mano che venivano scaricati; e questo credo che sia durato per un anno, due. E da lì è nato il ciclo del fatto così, proprio degli stabilimenti, però sempre meno veniva a galla la storia del riciclaggio, della cernita».

 

L’Innominato dell’immondizia

 

Nell’odissea dell’immondizia c’è anche un Innominato: «Quando il camion era pieno, quindi settanta, ottanta quintali de rifiuti, questi venivano scaricati in un terreno a Ponte Galeria. Era Ponte Malnome, e fu inaugurato nel 1948. Se chiama Ponte Malnome perché se dice la cosa che era a Ponte Vaffanculo, perché è un ponticello piccolo piccolo, e infatti il camion ce passa proprio… lo sfiora, c’entra appena appena. La cosa bruttissima è che è veramente la fonte di tutti gli inquinamenti del mondo, perché c’è la discarica de Malagrotta, c’è l’impianto de Ponte Malnome, ma la cosa vera -quella brutta – è proprio la discarica: lì s’accumulano i rifiuti de tutta Roma. A differenza de prima, so’ diventati rifiuti coi residui plastici in quantità enorme, te immagini che la plastica non respira, quindi tutto quello che viene frammisto a questa plastica, è quello il famoso puzzo, e oltre che… il fetore della monnezza nasce pure da questo, la plastica nun fa’ respira’ niente. E poi, un ammasso de rifiuti de tre milioni de persone soltanto in un luogo, tu te lo immagini. E questa Malagrotta è andata sempre avanti perché rispetto a tutte le altre discariche faceva un prezzo inferiore, abbordabile, e quindi nessuno mai j’è venuto in mente de pote’ fa’ un altro tipo di lavoro, quello veramente de nun ammassa’ tutta la robba che veniva conferita in quel posto: costrui’ un impianto qualche cosa costa, e il gioco non valeva la candela; quella costava così poco, e rendeva soprattutto al detentore della discarica tanti soldi, i soldi sai che girano in politica, quindi un po’ perché dicevano non conviene perché costa de più, e nessuno pensava che poi la discarica a un certo punto se esaurisce, nun è infinita, e allora le cose so’ andate sempre avanti così, ‘sta discarica adesso finalmente nel 2005 credo che dovrebbe esse’ chiusa».

 

Arriviamo a oggi, agli odori di tutta una vita: «L’odore più bello, io l’odore che me ricordo de Roma sono due: il primo del pane. I forni de Trastevere erano una cosa eccezionale, proprio la cosa più pregnante ma più dolce che ho mai sentito. Poi l’odore della primavera, che è un po’ de tempo che me manca, gli odori de Roma». Preoccupatevi di quello che non puzza, di quello che sembra puro: «Gli odori della monnezza, quelli no. Te giuro! Perché poi, te l’ho detto, so’ odori che comunque se sei così disgraziato de fa’ il raccoglitore, le vivi per quelle sei ore; poi non è che le vivi tanto, la vive de più invece per esempio quello che è collocato vicino a Malagrotta, vicino alla discarica. Tu pensa che tutta la borgata Massimina, e tutta la parte de via Portuense che sfocia su via della Pisana, chiunque abita lì, appena tira vento… quello sente proprio il puzzo dell’immondizia. In più c’è pure l’inceneritore de Ponte Malnome, che è uno de quelli veramente più all’avanguardia del mondo, e ciò non toglie che le immissioni nell’aria le fa, e nulla toglie che quelle emissioni siano oltretutto maleodoranti. E la plastica quando brucia fa un odore terrificante, te l’ho detto. Un giorno ce facciamo una passeggiata a Ponte Malnome, e te faccio vede’ gli impianti da de fòri, ma soprattutto se c’è una giornata che tira un po’ de vento, te accorgerai che cominci a stomacàtte da Corviale, perché quello è un puzzo proprio brutto, che te prende proprio, che te chiude i polmoni e lo stomaco. E quello se lo cibano i cittadini quotidianamente. E invece gli odori della Nettezza urbana, anzi dei rifiuti, io credo che potrebbe esse’ un odore… perché se tu vai ai mercati, ai mercati grandi, quello è l’odore dei rifiuti, perché quello dovrebbe esse’ il rifiuto. Er rifiuto, quello proprio brutto, addirittura è inodore. La plastica solo se ce sta il pesce dentro puzza, altrimenti è inodore, non emana niente. E’ questo il problema. Forse bisognerebbe avverti’ de più l’odore della mondezza, e allora sarebbe mondezza pulita, gestibile».

 

Se chiude Malagrotta

 

«Quello che tu stai scrivendo, che stai elaborando, je devi da’ un tetto che è questo. Se nel 2005, con la proroga arriveremo al 2006, 2007 – chiude la discarica de Malagrotta, i rifiuti, cioè, i tre milioni e mezzo de tonnellate che produce Roma quotidianamente dove cazzo vanno a finire? Come saranno trattati? Impianti de riciclaggio non ce ne sono, ma no all’avanguardia, proprio non ce ne sono, il massimo che c’è, è l’impianti de stoccaggio, ma stoccaggio significa soltanto che io prendo la robba e la metto lì, e allora stocco il cartone e me salvo perché non puzza, stocco il vetro, me salvo perché non puzzo, e in più faccio opera de recupero, faccio opera de occupazione… ma gli altri rifiuti, quelli industriali, dove andranno? Chi li tratterà, se noi trattamo soltanto `ste du’ cose, vetro e carta? Gli altri rifiuti, dove andranno?» Nel mondo dell’immondo. Come questo foglio di giornale.

 

BIBLIOGRAFIA

 

G. Viale, «Un mondo usa e getta»

P. P. Pasolini, «Appunti per un film sull’immondizia»

P. P. Pasolini, «Che cosa sono le nuvole?»

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