11 Gennaio 2009

No alle classi ponte

Nota redazionale: Il metodo uasto dalla scuola italiana per integrare i bambini funziona meglio e ci assicura un futuro.

Elisabeth Jankowski

Parlando con Staffan Mossenmark, l’artista performer e compositore svedese che dirige il SoundArtVerona, gli ho detto che l’ultima volta che ero passata dalla Svezia tutti i cittadini avevano ancora i capelli biondi. Era tanto tempo fa, quando a Verona si parlava ancora il dialetto veneto o qualche dialetto meridionale. Sono da sempre un’ammiratrice della politica svedese e gli ho chiesto se siano ancora oggi un modello per quel che riguarda l’immigrazione. Improvvisamente la sua faccia si è fatta buia. “No, per niente, le gang di giovani immigrati di seconda generazione mettono a soqquadro la città, rubano, si accoltellano e mettono dell’esplosivo sotto le macchine. Sono vissuti nei quartieri periferici senza che nessuno ci abbia fatto caso, ma ora il disastro sta diventando innegabile.” “Forse”, chiedo io, “non ci sono state relazioni significative fra la gente del luogo e loro?” Lui pensieroso e arrabbiato ha fatto cenno di sì con la testa.

 

Qualche mese fa sono stata invitata a una cena da una mia amica del Ghana. Dopo aver assaggiato le specialità e chiacchierato un po’, ci siamo messi a cantare e la mia amica, mamma del piccolo Liroy, ha cercato di coinvolgere anche lui nel canto. Cantavamo canzoni in inglese. Poi, la mamma ha proposto al bambino di cantare qualcosa, in italiano, per la compagnia. Così ho potuto assistere a un momento singolare dell’Italia multietnica, un momento che mi è apparso profetico ed emozionante: Liroy con la sua voce da bambino di 4 anni ha cominciato a intonare con l’aiuto della mamma “Fratelli d’Italia”. Alto come il tavolo, mi guardava serio con i suoi occhi neri e i suoi riccioli cortissimi mentre regalava un omaggio musicale al paese che stava diventando la sua terra. Liroy è un bambino fortunato, con una mamma, una zia ed altri parenti adorabili; frequenta la scuola materna dove impara un italiano da piccolo principe e dove è molto amato dalle educatrici. Sembra uno dei re Magi che si sono recati fin qui per portare un dono dall’Africa.

 

Quest’anno, all’Università dove insegno, tra le matricole ho sei studenti stranieri su trenta complessivi: vengono dalla Colombia, dal Perù, dalla Romania e dal Marocco, quasi tutte ragazze. Ciò che le distingue non è solo il loro aspetto fisico ma soprattutto l’attenzione che leggo nei loro visi e la passione per quello che stanno facendo. C’è chi suggerisce che sono ancora molto ambiziose negli studi perché non sanno che con quelle lauree non possono raggiungere nessuna promozione sociale mentre gli studenti italiani lo sanno già e si comportano di conseguenza. Così queste studentesse mangiano già un po’ di quella nuvola di grigio che sta avanzando nelle aule e che rende l’insegnamento pesante come un macigno.
Sono anche felice che l’immigrazione abbia prodotto in così poco tempo un numero già abbastanza alto di studenti universitari. Si tratta di un merito dell’Italia, non solo delle famiglie straniere che hanno curato e motivato i propri figli. L’Italia da sempre ha fama di avere un eccellente sistema scolastico, ma soprattutto di dedicare estrema attenzione e un grande amore alla prima infanzia. Quando mio figlio ha frequentato la scuola materna e la scuola elementare mi è capitato spesso di andare dalle maestre e dalle educatrici per complimentarmi con loro per il loro prezioso lavoro e per il sincero affetto nei confronti del piccolo gruppo e di mio figlio.

 

Grazie al movimento delle donne italiane e a quello delle donne immigrate che fanno riferimento a “Casa di Ramia” -Verona, dove è la Comunità di filosofe Diotima, è un centro importante di grande impegno politico – ho conosciuto molte maestre che ammiro tantissimo per la loro cultura e la loro dedizione al lavoro. Non basta un intero giornale per elencare i progetti molto interessanti che stanno svolgendo. Quando vedo passare delle classi elementari per strada mi fermo sempre perché quelle bambine e quei bambini in fila per due così colorati che si tengono per mano mi fanno un enorme piacere e mi sembrano come un salto nel futuro. Dopo essermi turbata con la mia dose quotidiana di articoli sulla nostra società multietnica catastrofica e altamente conflittuale, in quei momenti, quando vedo quei bambini chiacchierare allegramente e sbaciucchiarsi, mi torna l’anima di nuovo in pace.
Certo le maestre fanno un lavoro del quale sui giornali non si parla quasi mai, un lavoro di cura che viene registrato solo quando manca. Il lavoro relazionale che ci è necessario e che costruisce tutto il nostro vivere non si lascia facilmente portare in un testo, sfugge spesso alla visibilità e alla concettualizzazione. Anzi l’organizzazione del lavoro tiene sempre meno in conto il fondamentale lavoro di relazione probabilmente perché sfugge agli incasellamenti proposti in questo mondo di tecnocrati. La relazione non potrà altro che essere imprevedibile, alle volte caotica, un luogo magmatico che forgia il nuovo realmente: produce una politica che nasce dall’amore per l’altro e per un mondo più vivibile.

 

In Svezia e in altri paesi dove questo sforzo è mancato i cattivi risultati si vedono e non basta una buona politica di Welfare, ma occorre imparare a coinvolgersi nelle relazioni in prima persona. Certo alle scuole servono dei soldi e la politica non fa altro che introdurre delle riforme, ma noi sappiamo oggi che da qualche anno la parola “riforma” ha cambiato il suo significato. Mentre trenta anni fa significava più scuole, più università, più stipendio etc, oggi significa quasi esclusivamente “tagli del welfare”, e non solo in Italia. Mi auguro perciò meno riforme per il futuro.
Certo nelle scuole, si dice, regna il caos: i genitori italiani si lamentano del servizio insufficiente, le maestre sono stremate e i genitori stranieri desiderano che ci si occupi del loro figlio con un curriculum scolastico spesso molto particolare. Non si può fare altro che dare ragione a tutti quanti. Dalle ricerche nel campo delle scienze della formazione si sa che più del 20 % di stranieri in classe non può essere integrato. Se fossi mamma di una bambina piccola pretenderei anch’io che mia figlia frequentasse una classe con non più di 5 bambini stranieri su una classe di 25 complessivamente. Ma siccome gli stranieri non hanno superato il 20 % della popolazione, non dovrebbe costituire problema garantire questa percentuale. Certo non si dovrebbe confinare gli stranieri tutti insieme nella scuola di un quartiere povero ma fare in modo che siano suddivisi sul territorio. In questo modo si potrebbero evitare le classi “ponte” perché sappiamo che l’apprendimento spontaneo, che è quello più efficace, avviene solo a contatto con le persone di madrelingua, cioè gli altri ragazzi e le maestre.
Un altro problema sono anche gli arrivi continui di bambini che comunque non potrebbero essere inseriti nella classe “ponte” perché di età diversa e con percorsi di vita completamente distinti. Uno degli errori più gravi che stiamo commettendo è quello di credere tutti gli stranieri uguali: loro sono meno simili fra di loro che al confronto con gli italiani. Non ci rendiamo conto che un bambino che viene dal Marocco non condivide nulla con un bambino cinese tranne il fatto di trovarsi nello stesso luogo.
L’Italia in tutto questo ha una grande fortuna storica rispetto alla Germania, dove, per esempio, in certe scuole di Berlino la maggioranza è di origine turca e si è dovuto arrivare a una decisione collettiva per introdurre la lingua tedesca in una scuola che è frequentata dal 85 % di bambini di origine turca e che naturalmente parlavano a scuola fra di loro solo la loro lingua madre. In Italia invece gli studenti di un’unica scuola possono anche avere cinquanta origini diverse, fatto che promuove decisamente l’italiano come lingua comune.

 

Al di là dei fatti organizzativi comunque non dobbiamo dimenticare che l’unica cosa importante per la crescita di un bambino straniero è la relazione con altre bambine e bambini e con le maestre che a loro volta devono valorizzare la loro provenienza. Quando una maestra accoglie il bambino con gioia, ammira ed apprezza la sua lingua e cultura di provenienza, il processo di apprendimento sarà velocissimo perché sappiamo che circa fino alle scuole medie, bambini e bambine hanno un enorme potenziale di apprendimento naturale. Quando invece per indifferenza o per rifiuto l’economia emozionale di un bambino si blocca ogni parola nuova entra come un chiodo nello stomaco.

 

Noi tutti e tutte veniamo da un paese di principi e principesse e anche a scuola desideriamo essere trattati come tali. Soprattutto perché la scuola è un occasione d’incontro favoloso. Quando si accompagnano i propri figli piccoli in quel luogo che promette amore, relazione più ampia e istruzione per un futuro più vivibile i genitori sono particolarmente disponibili ed aperti. Quale altro luogo potrebbe esser migliore per incontrare l’altro in carne ed ossa? Si tratta in primis di un luogo di donne, mamme e maestre, che come sappiamo da una recente ricerca sono le protagoniste dell’integrazione, perno sul quale ruota tutta la vita relazionale di immigranti e locali.
Anche se nelle elementari e nelle materne si sprecassero dei soldi non mi preoccuperei, sono soldi investiti bene per evitare di costruire più carceri e più ospedali. La seconda generazione degli emigranti sarà meno pacifica della prima e potrebbe far pagare un conto che non ci si aspetta.

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