12 Novembre 2005
Liberazione

Non parlateci di politica o sociologia: parlateci di voi I maschi di fronte alla loro violenza

Angela Azzaro

Il merito più grande dell’iniziativa di Liberazione, “Maschi, perché uccidete le donne? “, dieci voci di uomini sulla violenza contro l’altro sesso pubblicate domenica scorsa, è stato quello di aver spostato completamente il punto di vista.
Non è una novità: gli uomini uccidono le donne. Uccidono quelle che amano. O che dicono di amare. Le violentano, le picchiano. Fino a levare loro la vita. Non è un caso. Non è un residuo. La prima causa di morte delle donne tra i 16 e i 44 anni, nel mondo, ma anche in Europa, è l’aggressione dei loro compagni. Non è una novità, sì. Ma crea sconcerto. Paura. Orrore. E’ una guerra. Le vittime sul campo di battaglia hanno tutte lo stesso sesso.
Colore diverso. Classe diversa. Cultura diversa. Ruoli diversi. Uguali solo nell’essere sopraffatte perché donne. Eppure alla fine si parla solo di loro. Da sempre sono l’unico oggetto di studio, di analisi. I dati contano le vittime. Le morti. Contano le violenze, le percentuali in famiglia: altissime; fuori, per strada, molto basse, ma usate per costringere le donne a una nuova violenza: non essere libere di uscire. Di vivere. Poco o nulla si parla degli altri. Dei maschi che violentano, che uccidono, che si sentono meglio perché ammazzano, perché levano di torno il loro controcanto, il massimo dell’alterità che trovino sulla loro strada.
Liberazione ha fatto un salto in avanti, una piccola (grande) rivoluzione, ha spostato l’attenzione dal genere che viene ucciso al genere che, non da oggi, uccide. Perché, gli ha chiesto? Perché, nonostante la lunga e straordinaria rivoluzione delle donne che ha attraversato il Novecento, i vostri simili continuano ad uccidere le donne? Come è possibile? Pensate che questo dato, sconcertante, riguardi anche voi? Le risposte, per quanto importanti di per sé, sono state deludenti, sfuggenti, quasi tutte ingarbugliate in un antico vizio che il femminismo ha denunciato da tempo: il vizio – come giustamente ricordava ieri su queste pagine Lea Melandri – della neutralità.
A parte alcune eccezioni, come quella di Claudio Jampaglia, che si mette in gioco in prima persona, o di Daniele Zaccaria che affronta il tema delicato ma centrale della relazione amorosa, dei fantasmi e dei desideri che si porta appresso, la maggior parte degli interventi hanno riportato la discussione su un piano tutto o solo culturale, o solo politico, o solo sociologico. Gli uomini che hanno preso la parola, hanno portato la domanda fuori da loro, ne hanno ragionato, anche in modo accorato, scandalizzato, intelligente e in alcuni casi condivisibile, ma si sono dimenticati il punto più importante: parlare di sé. Della loro identità sessuata. Finché gli uomini, gli uomini di sinistra, i nostri compagni di tante azioni politiche, di tanti piccoli e grandi cambiamenti politici e culturali, non capiranno che da qui bisogna partire, sarà difficile costruire un cambiamento radicale. Costruire un mondo dove le donne non muoiano più.
Neanche mille, neanche cento. Neanche una.In questi decenni molte donne, in testa un nutrito gruppo di femministe, si sono messe in discussione. Hanno guardato l’altra da sé, anche quella più lontana culturalmente o come classe sociale o come colore della pelle, per capire cosa le accomunava e cosa le separava. Per mettersi in discussione.
La prima rivoluzione le donne la hanno chiesta a se stesse, al loro essere soggetto sessuato. Hanno interrogato se stesse per interrogare e criticare il mondo. Alcune (molte, non so) ce l’hanno fatta, nonostante l’ampio margine di contraddizioni in cui ancora si muovano. Altre no, non ce l’hanno fatta. Non ce la fanno. La società è e resta profondamente maschilista e patriarcale. Gli uomini, la maggior parte di loro, questo lavorìo su di se lo devono ancora fare. Intravedere. Anche solo intuire. Ma la domanda “Maschi, perché uccidete le donne? “, non può che partire dalla messa in discussione della propria identità sessuata. Non può che partire dalla propria parzialità.
Diversi interventi chiamano in causa la globalizzazione liberista, i processi di precarizzazione e di flessibilizzazione che produce. Ma questo non basta. Non può bastare. Non può spiegare quello che accade. Gli uomini, le donne che amano, le uccidono da prima. Da molto. Da secoli e secoli.
Come interpretare però l’inasprimento di oggi? Quel dato così sconcertante? Il ragionamento andrebbe ribaltato: invece di usare la globalizzazione per capire il fenomeno degli uomini che uccidono le donne, si dovrebbe fare il contrario. Si dovrebbe usare la contraddizione di genere come lo strumento privilegiato per capire la nuova fase del capitalismo globale, la sua ferocia, la sua barbarie. E’ un vecchio discorso. Una vecchia diatriba che le femministe hanno più volte posto sul piatto della bilancia del cambiamento: il genere non è un di più, da aggiungere al conflitto di classe come un’appendice. Le donne non sono un sostantivo da mettere in fila con i bambini, i vecchi, l’ambiente. Sono il cuore del conflitto. Sono il cuore delle contraddizioni. Gli uomini che uccidono le loro compagne, che lo fanno in maniera così terribile, in maniera così significativa, parlano di questo. Chiedono alla politica, anche alla nostra politica, un cambiamento radicale. A partire dal cambiamento radicale di entrambi i sessi. Molte di noi ci stanno provando. Gli uomini che fanno?

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