18 Dicembre 2003
Metro

O lavoro o acqua: il ricatto sui poveri

Marinella Correggia

Nel piccolo stato indiano del Kerala un oscuro consiglio locale sta tenendo testa a un colosso multinazionale. Lo scontro è ormai classico: da un lato i diritti fondamentali di comunità locali (spesso povere) sulle risorse vitali dell’area, dall’altro gli interessi di giganti che producono ma creano un certo numero di posti di lavoro (per poveri), il tutto con la connivenza delle autorità regionali o statali, e con un ruolo talvolta progressista e talvolta conservatore da parte dei tribunali. Stavolta, il tribunale dello stato ha agito per bene: ordinando a un impianto di imbottigliamento della Coca Cola di fermare l’estrazione di acqua dalla falda acquifera locale, dando un mese di tempo all’azienda un mese di tempo per fermare le operazioni estrattive nell’impianto di Plachimada, distretto di Palakkad, e trovare fonti alternative. I dirigenti della Hindustan Coca-Cola Beverages Private Limited, branca indiana del colosso di Atlanta, ricorreranno in appello. L’azienda aveva chiesto tempo fa il rinnovo della licenza per la sua fabbrica di imbottigliamento a Plachimada, in Kerala appunto. Era stato lo stesso panchayat (il consiglio locale, organismo eletto) di Perumatty nel gennaio 2000 a dare la licenza alla Hindustan Coca-Cola per la fabbrica di Plachimada, il cui compito consisteva nell’importare da Atlanta la miscela segreta, mescolarla con l’acqua locale e imbottigliare il tutto. Erano un po’ di soldini per la comunità: annualmente il panchayat riceveva l’equivalente di 11.000 come tassa sull’immobile, poi circa 800 euro-equivalenti a titolo di licenza per produrre e infine circa 4.000 euroequivalenti sotto forma di tassa professionale. Soprattutto, c’era la questione dei posti di lavoro: 150 permanenti e 250 a termine. Il permesso era stato regolarmente rinnovato, e l’ultima licenza scadeva il 31 marzo 2003.

 

Ma i vantaggi erano evidentemente poca cosa a fronte della perdita di acqua. Così, gli abitanti dei villaggi circostanti, colpiti da crisi idrica – la fabbrica assorbiva 1,5 milioni di litri al giorno – si sono organizzati e sono riusciti, con l’appoggio di gruppi ambientalisti e di alcuni partiti, a rendere pubblica la loro protesta in tutta l’India. Tanto che è partita proprio da Plachimada, nel gennaio scorso, la padhyatra (marcia) di un’alleanza indiana di lotte popolari – fra cui la Narmada Bachao Andolan – che in due mesi di cammino si è posta l’obiettivo di interagire con le popolazioni e le autorità locali e statali in diverse parti dell’India.

 

Pochi mesi dopo, il 7 aprile di quest’anno, di fronte alle proteste popolari il panchayat ha preso la decisione di cancellare la licenza, con la motivazione che la fabbrica aveva portato al quasi esaurimento, e all’inquinamento, delle falde acquifere dell’area circostante. La Hindustan Cola si è allora rivolta alla Kerala High Court (tribunale) mettendo in discussione l’autorità del panchayat in materia; ma il tribunale ha stabilito che quest’ultima spieghi la propria posizione all’incontro del panchayat, il 17 novembre. Quel giorno, come riferisce il reportage della rivista indiana Down to Earth, il presidio di protesta davanti alla fabbrica era ormai arrivato a 550 giorni. Tre chilometri più in là, davanti alla sede del panchayat, invece, da circa 180 giorni erano i dipendenti di Coca Cola a campeggiare, chiedendo il rinnovo della licenza di imbottigliamento. Il 17 novembre i tredici membri del panchayat hanno sottoposto al manager una serie di domande, lasciate senza risposta. Poi la recente intimazione di chiusura da parte del tribunale.

 

Problema: Cherkkalam Abdulla, ministro dello stato del Kerala, poco prima della nuova sentenza ha ribadito che «il punto di vista degli abitanti di Palakkad non riflette quello dell’intero stato. Abbiamo bisogno di industrie e di lavoro» (nnon importa per produrre che cosa, e a quale prezzo).Il tribunale ha invece sentenziato che l’acqua di falda è un bene collettivo e lo stato ha il compito di proteggerla dallo sfruttamento eccessivo, pena la violazione dei diritti fondamentali garantiti dall’articolo 21 della Costituzione. Chi vincerà in appello?

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