16 Marzo 2006
il manifesto

Oggi, Rachel Corrie

Oggi «Reading» a Gerusalemme est e a Rafah (Gaza sud) per ricordare Rachel Corrie, la giovane pacifista americana uccisa da un ruspa israeliana tre anni fa mentre cercava di impedire la demolizione di case palestinesi.

Usa, chiuso il sipario su Rachel Corrie
Autocensure. Due anni fa l’attivista americana veniva uccisa dalle ruspe israeliane. Ma i teatri di Broadway scelgono oggi di annullare il debutto dello spettacolo sulla sua storia per «evitare tensioni»
Irene Alison

Due anni proprio oggi. Da quando, il 16 marzo del 2003, Rachel Corrie veniva uccisa da un bulldozer israeliano sulla strada che porta a Rafah. Lei, sottile e bionda nei suoi 23 anni di ostinato impeto pacifista, era arrivata fin lì dall’America per impedire, col suo corpo di ragazza, alle ruspe di Israele di abbattere le case del campo profughi palestinese. Ma da lì non era più tornata indietro. La sua storia, raccontata a teatro dalla piece My name is Rachel Corrie (scritta dall’attore Alan Rickman e dalla giornalista del Guardian Katharine Viner intrecciando i diari e e-mail di Rachel) , è allora storia di un viaggio senza ritorno, ma anche, da qualche settimana, di un debutto mai avvenuto. Dopo aver raccolto applausi e premi dal palcoscenico del Royal court di Londra, My name is Rachel Corrie era infatti prevista nel cartellone del New York Theatre Workshop per la sua «prima» americana. Ma, all’inizio di marzo, la messinscena della piece è stata posticipata a tempo indeterminato. «Dopo l’annuncio della malattia di Sharon e della vittoria di Hamas in Palestina la situazione ci è sembrata troppo tesa per portare in scena una storia così controversa» – ha motivato il direttore artistico del teatro James Nicola. Di fronte a pressioni politiche subite e a temute inquietudini dell’audience, Nicola ha dunque preferito – come ha sottolineato Katharine Viner in una lettera sul Guardian – ricorrere all’autocensura preventiva. Non sarà allora il pubblico americano ad applaudire, piangere o protestare (come ha fatto nei giorni scorsi la comunità ebraica di Anchorage, in Alaska, davanti alla messinscena di The skies are weeping, altro spettacolo dedicato a Rachel) davanti alla storia di un’adolescente di Seattle che cerca il suo posto nel mondo, che si fa presto adulta maturando coscienza politica e curiosità famelica, che parte per scoprire dove porta la sua strada e per dare corpo e luogo alle sue idee. «My name is Rachel Corrie non è una piece contro Israele, è una piece contro la violenza» scrive la madre di Rachel nel sito dedicato a sua figlia (www.rachelcorriefoundation. org) e ricorda tutte le e-mail ricevute da chi, come un giovane ebreo newyorkese che ha visto lo spettacolo a Londra, ha avuto l’occasione di emozionarsi, capire, cambiare idea. Su un altro sito, (rachel.rickmansweb.net) l’attore e autore Alan Rickman ha invece indetto una petizione, che ha già raccolto migliaia di firme, perché sulla storia di Rachel si apra il sipario dei teatri americani. E perché anche negli Usa dove lei era nata e da dove era partita, possa arrivare la sua voce. Le parole limpide con cui raccontava la sua quotidiana scoperta del mondo: «Mi guardo intorno e vedo sempre più persone che cercano di resistere alla direzione nella quale il mondo sta andando, una direzione nella quale noi siamo senza alcun potere, il nostro futuro è già scritto e la più alta espressione della nostra umanità è scegliere che cosa comprare ai grandi magazzini».

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