27 Luglio 2005
il manifesto

Olanda, com’è finita la favola della tolleranza

Segregazione silenziosa, mondi paralleli e incomunicanti, la realtà anfibia degli immigrati di seconda generazione. La crisi del modello di convivenza olandese nel racconto di uno scrittore nato in Marocco ma cresciuto in Olanda. Come Mohammed Bouyari, condannato ieri all’ergastolo per aver ucciso il regista Theo van Gogh
Abdelkader Benali

Sono cresciuto a Rotterdam, la città in cui ha avuto inizio l’ascesa irresistibile del populista Pim Fortuyn, il politico olandese assassinato nel 2002. Da due anni vivo ad Amsterdam, la città di Theo van Gogh, il regista ucciso barbaramente il 2 novembre da Mohammed Bouyari. Quando ho letto la storia di questo ragazzo, come me di origine marocchina, ho pensato: ha solo due anni meno di me e mi somiglia più di quanto non voglia ammettere. Chi lo conosce lo descrive come un tipo lavoratore, ubbidiente, ambizioso, che si sforzava di creare un ambiente migliore per sé e per gli altri. Anch’io sono così, ho pensato. Su di lui un giornalista ha scritto: «È uno dei tanti marocchini che riescono quasi ad agguantare il successo, ma se poi qualcosa va storto entrano in crisi». Ce ne sono molti di ragazzi così. Questo vuol dire che io ho avuto successo?

 

Sono nato in Marocco nella metà degli anni Settanta e all’età di tre anni mi sono trasferito in Olanda come figlio di un lavoratore immigrato. Gli immigrati erano sempre uomini, le donne non venivano selezionate per lavorare all’estero. I primi immigrati erano consapevoli del fatto che non avrebbero avuto successo, e lo accettavano; l’importante era poter offrire ai loro figli un’esistenza migliore. Si accontentavano di quello che ricevevano (era già un grosso passo avanti rispetto ai poveri paesini di montagna da cui provenivano) ed esprimevano gratitudine all’Olanda tenendo la bocca chiusa e lasciando la parola ai loro rappresentanti.

 

Oggi le seconde generazioni hanno violato quel tacito accordo: parlano perfettamente l’olandese e sanno mettere il dito nella piaga, si ribellano ai tabù e vogliono essere accettati come cittadini a pieno titolo. Il fatto che siano diventati così non dipende dai loro genitori, ma dall’Olanda. È l’Olanda che li ha emancipati. Mohammed Bouyari, paradossalmente, è un prodotto dell’Olanda. Per spiegarlo bisogna fare un piccolo passo indietro.

 

Mia madre mi ha portato in Olanda all’epoca del ricongiungimento familiare. Mi ha dato in affidamento alla società olandese e in poco tempo questa madrina ha superato mia madre su tutti i fronti (solo nell’amore materno nessuno poteva batterla). L’Olanda si è occupata della mia formazione intellettuale: leggere, scrivere, fare di conto. Mi ha riempito di idee, divine e diaboliche, esaltanti e inquietanti.

 

Molta libertà, poca storia

 

La cosa più difficile per me era che in Olanda bisogna sempre dire quello che si pensa, è considerato un gesto sportivo, un segno di spontaneità; ma ogni volta che ci provavo mi mettevo nei guai, sia a casa, che in strada, che a scuola. Col tempo ho capito che bisogna dire quello che si pensa in modo da non finire nei guai; così non solo la passi liscia, ma puoi contare sull’apprezzamento generale. Insomma, ho scelto di diventare scrittore.

 

Mohammed Bouyari invece era uno che voleva aiutare la gente, faceva volontariato in un centro sociale. Era avviato al successo, e diceva quello che pensava.

 

L’Olanda dà spazio al talento: ti offrono un’opportunità e se te la giochi, te ne danno un’altra. Siamo fatti così, e ne andiamo orgogliosi, ti rispondono gli olandesi, abbiamo lottato per arrivarci.

 

Ma se provi a chiedere quand’è successo, se vuoi sapere come stanno le cose esattamente, non sanno cosa risponderti. L’Olanda ha moltissima libertà, ma poca storia.

 

C’è stato un momento in cui Mohammed Bouyari ha rinunciato alla libertà per andare in cerca della storia e prenderne parte. Io invece volevo diventare scrittore: ero convinto di avere qualcosa da dire che nessuno aveva mai detto o fatto prima. Sentivo la necessità di sfruttare tutte le possibilità della lingua e la cosa veniva incoraggiata, era lecito. Il pubblico non aspettava altro.

 

È questa l’Olanda in cui sono cresciuto io, ma anche Mohammed. L’Olanda delle buone intenzioni che ha fatto dei propri ideali una bandiera, che voleva a tutti i costi essere progressiva e tollerante, a volte anche a discapito di grosse fette di popolazione. Ma ad un certo punto l’insoddisfazione è cominciata a crescere, era un po’ che covava sotto la cenere, e alla fine si è manifestata con violenza. La gente vedeva che la classe dirigente non affrontava i problemi sociali, specie quelli delle grandi città. Era evidente che molti immigrati vivevano ammassati uno sull’altro, ma perché all’Aia nessuno ha detto niente? Si sapeva che la criminalità all’interno della popolazione marocchina era più alta che tra gli olandesi, perché nessuno si è mosso? Domande che forse in un altro tipo di società sarebbero state poste ad alta voce, qui venivano solo sussurrate. Non se ne poteva parlare apertamente, perché era una cosa poco olandese, poco tollerante. E a partire dall’11 settembre 2001 c’è stata un’improvvisa accelerazione: i musulmani sono diventati il bacino di raccolta delle critiche e del risentimento.

 

La libertà olandese era messa in pericolo dalla presenza di un gruppo crescente di musulmani conservatori, intolleranti e tradizionali. C’era incomprensione. Rotterdam e poi tutta l’Olanda si schierò al fianco di Pim Fortuyn. I dubbi sulla società multiculturale venivano espressi ad alta voce, e i decibel aumentavano sempre più, fino a spaccare i timpani. Ma io non me la prendevo. L’Olanda è così liberale, c’è spazio per idee diverse e magari era un fatto positivo che le utopie socialiste venissero controbilanciate un po’ – giovava al dibattito. La società cambiava a ritmo forsennato e bisognava reagire in modo adulto. Insomma, anch’io pensavo che la classe politica avrebbe trovato una soluzione. E invece ha continuato a dormire, così sembrava, mentre le critiche crescevano a dismisura.

 

La novità era proprio questa critica diretta. Se nei primi anni Novanta dicevi che l’identità olandese doveva acquistare un significato più profondo per gli olandesi e per gli immigrati, se dicevi che il ricongiungimento familiare per gli immigrati aveva anche conseguenze negative, se puntavi il dito sul degrado, la gente ti guardava con commiserazione. In Olanda non si era abituati a parlare così apertamente e allegramente di certe cose. Viviamo in un paradiso, no?

 

La cosa strana è che i miei genitori sono stati i primi a rimpiangerel’Olanda dei bei tempi. Molto prima dell’ascesa politica di Pim Fortuyn, a tavola mi era capitato di sentirli dire: con l’arrivo degli immigrati l’Olanda è cambiata, in questo paese molti marocchini perdono la bussola, l’Olanda dovrebbe badare di più ai propri interessi.

 

Commenti di gente semplice, diretta. Ex immigrati che esprimevano le loro critiche all’Olanda, mentre gli olandesi non se ne accorgevano (o forse non venivano a dirlo a me). Non avrei mai pensato che i miei genitori potessero cogliere nel segno. Ora riconosco che avevano ragione, anche se con l’amaro in bocca. E ovviamente i miei genitori dicevano pure che in Olanda tutto è permesso e che non capivano bene perché dovesse essere tutto lecito. A casa mia di omosessualità non si è mai parlato. Non si parlava mai di sesso, se non in termini molto cauti e velati.

 

I tempi della coesistenza pacifica stavano finendo in fretta. Alle critiche degli olandesi nei confronti della società multietnica hanno cominciato a replicare i marocchini di seconda generazione. Si è aperto il dibattito, anche se a volte è un dibattito tra sordi.

 

La causa principale d’insoddisfazione tra i nuovi cittadini è che gli olandesi non capiscono quanto li ferisca nel profondo essere considerati sempre degli stranieri. Ogni discussione si riduce a questo punto. Il termine «alloctono» (che in Olanda è sinonimo di straniero, extracomunitario, contrapposto ad autoctono) viene considerato da tutti come molto negativo. Essere definiti «alloctoni» è la prova dell’esistenza della segregazione. È un marchio d’infamia, una condanna, un insulto nascosto. Forse non sarebbe una cattiva idea eliminarla, questa parola. Per molti olandesi è diventata sinonimo di problemi causati da Altri, che Noi non volevamo.

 

Com’è possibile che la coesistenza pacifica degli anni passati si sia trasformata in un dibattito così spietato, a tratti superficiale, che ha addirittura provocato delle vittime? Uno dei motivi è che l’Olanda è rimasta ferma dov’era, è rimasta troppo a lungo fuori dagli eventi mondiali. Per tutto il tempo ha pensato di poter tenere il suo giardinetto bello pulito e tranquillo, bastava accordare ad ogni gruppo la sua autonomia, favorendo la frammentazione delle culture e la pacificazione delle minoranze (la ricetta collaudata), nel clima di tolleranza per cui è famosa in tutto il mondo. Ma le cose non sono andate nel modo desiderato. La tolleranza si è rivelata sinonimo di miopia. A volta è una palla al piede. Ovviamente di per sé la tolleranza è un obiettivo ideale, ma non può essere usata per camuffare la realtà.

 

L’Olanda sembrava progressiva, ma adesso che l’imperatore gira nudo per la città ci accorgiamo che per tutto il tempo è rimasta immobile. Non ha mai pensato a come impiegare il suo capitale giovane, a volte di opinione diversa; non ha mai pensato a come affrontare la presenza dell’islam in Olanda. Perché ci vuole tanto per arrivare alla creazione di un islam olandese? Perché da noi ogni cultura ha sempre avuto la sua autonomia riconosciuta dal sistema, ti rispondono gli olandesi, perché noi sosteniamo il principio della sovranità all’interno del proprio gruppo. Ma questo significa ragionare solo a partire dai propri parametri storici. In Olanda non esiste un solo islam, come non esiste una sola tipologia di marocchini. Da quello che si sente negli ultimi tempi sembra che i marocchini formino un fronte compatto. Non c’è niente di più falso: metti insieme cinque marocchini e nel giro di dieci minuti escono fuori sei opinioni diverse. Ma gli olandesi non se ne accorgono. Com’è possibile? Pura ignoranza, da entrambe le parti. Adesso ho scoperto che l’Olanda è una paese pieno di società separate. Per educazione e signorilità le minoranze vengono lasciate in pace, se la devono vedere all’interno del proprio gruppo. E gli olandesi sperano in silenzio che ogni gruppo riesca effettivamente a risolvere i propri problemi dall’interno.

 

C’è tuttora poco scambio culturale nei due sensi. Da venticinque anni in Olanda c’è un gruppo crescente di musulmani e nessuno sa niente delle loro usanze. Com’è possibile che la classe dirigente non abbia mai fatto niente? Avevano troppo da fare?

 

Dopo l’uscita del mio primo romanzo (Matrimonio al mare, Marcos y Marcos, ndr), ho cominciato a fare presentazioni in giro per il paese. Mi accorgevo che il pubblico era impaziente di sentirmi parlare del Marocco, di come sono cresciuto, di come mi sento, di che cosa penso. La curiosità è grande. Per cui mi chiedo: i musulmani non dovrebbero essere più spesso quelli che portano le notizie invece di continuare a fare notizia? Sarebbe un modo per eliminare l’ignoranza, ma gli scivoloni sono sempre in agguato. Dopo l’assassinio di Theo van Gogh i portavoce dei musulmani turchi si sono affrettati a dichiarare che si sentivano in colpa per un fatto di cui non avevano alcuna colpa (una sana abitudine olandese). Gli olandesi ne erano molto felici. Ma invece di essere felici, avrebbero dovuto vergognarsi della loro ignoranza. Un musulmano turco è diverso da un musulmano marocchino come un cattolico palermitano da un libero pensatore svedese. I marocchini non pregano nelle moschee turche e i turchi non lo fanno in quelle marocchine. Per quanto possa sembrare strano, questo tipo di comportamento alimenta la segregazione. Ma allora, ti senti chiedere, com’è la storia dello scontro di civiltà? L’assassino di Theo van Gogh non è un musulmano che nel regista vedeva tutto il male rappresentato dall’Occidente: decadenza, senso di superiorità ingiustificato, ateismo, opulenza crassa? Senza volerlo, Theo van Gogh era diventato per i fondamentalisti la caricatura esemplare dell’Occidente ricco e corrotto; con la sua pancia e le sue provocazioni rientrava perfettamente nella loro teoria della guerra tra Islam e Occidente.

 

Viviamo in un’epoca di teorie monolitiche, ognuna cerca di soppiantare l’altra nella lotta al predominio. Ogni teoria cerca di ricondurre la realtà a una serie di presupposti perfetti. La teoria dello scontro di civiltà parte dal presupposto che le guerre future verranno combattute nelle zone di confine di queste civiltà. Tuttavia, nel suo pamphlet dal titolo La forza della ragione, Oriana Fallaci è del parere che il musulmani siano venuti in Europa (secondo la sua visione su invito della sinistra) per farci la guerra in casa utilizzando il loro numero crescente. La guerra verrà combattuta con l’arma della demografia e la soluzione della Fallaci è cacciare dall’Europa tutti i musulmani. A me le teorie piacciono da morire, ma non amo granché certe conclusioni. Ad un certo punto l’Europa dovrà convincere i suoi cittadini che una teoria del genere non può affermarsi. Ad essa va contrapposta la pratica. L’Europa è un esempio di come dovrebbe funzionare un’open civil society, il suo potere di assorbimento è all’apparenza infinito. Ma i suoi valori sono in pericolo e ciò richiede più Europa e meno etnocentrismo, più coraggio di predicare tali valori e meno scenari apocalittici come quelli che ci vengono scodellati a ripetizione.

 

La lingua dell’odio

 

Il 2 novembre scorso tutti noi, olandesi, musulmani, marocchini, abbiamo visto il pericolo dell’odio. La lingua del sangue ha parlato. La lingua di quest’odio si è sviluppata grazie anche alla crescente segregazione silenziosa, e l’unico modo per contrastarla è dire basta alla segregazione. In questo momento sembra che ogni decisione politica (la legislazione in materia di asilo, l’obbligo di identificazione, una linea più dura verso i nuovi immigrati) non faccia altro che favorirla ancora di più. La classe politica è priva di qualunque visione, pensa di poter far ritornare l’Olanda a com’era prima dell’arrivo degli immigrati, vende sogni in quantità industriali e inganna il popolo.

 

E la comunità marocchina come reagisce?

 

La mia è una famiglia silenziosa, una famiglia del nord del Marocco che non è abituata agli estranei. Hanno vissuto così per migliaia di anni, e non è cambiato niente. Non sentono la necessità di relazionarsi con chi è diverso da loro, di riflettere e accettare le differenze. Anzi, la prima generazione di marocchini si è abituata, quando le tornava comodo, a voltare le spalle alla società olandese. La società olandese non ha avuto niente da ridire e ha addirittura mostrato comprensione. Una bella cosa. Un segno di civiltà. Vivere vite parallele, per tanti anni, può essere un segno di civiltà. Gli olandesi si sono persi il cuscus, i marocchini il museo Van Gogh, ma in compenso c’era una bella tranquillità.

 

All’inizio pensavo, forse la mia frase d’apertura dovrebbe essere: Perché quest’assassinio non è successo prima, così forse a quest’ora avremmo già fatto un passo avanti. La segregazione silenziosa è il terreno più fertile per la malerba del fondamentalismo.

 

Agli olandesi non resta che uscire dal loro stato confusionale e rendersi finalmente conto che gli immigrati sono parte integrante della società, e vanno trattati di conseguenza.

 

I marocchini, dal canto loro, devono sforzarsi di capire il paese in cui vivono e imparare a non voltargli le spalle; devono assumersi le proprie responsabilità, come cittadini a pieno titolo, prendere posizione e, quando l’altro lo richiede, impegnarsi a creare unità. E sarà una liberazione: non saremo più degli estranei gli uni per gli altri, perché il destino ci ha fatto vivere insieme.

 

Traduzione di Claudia Di Palermo

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