20 Giugno 2004
il manifesto

Open source L’epidemia a fin di bene

Franco Carlini

Dall’Europa all’estremo oriente il software libero si sta propagando in tutto il mondo. Un modello di produzione e distribuzione basato su concetti anti-economici, come la diffusione della conoscenza e la negazione dei diritti d’autore. E anche l’Economist si chiede: siamo al post-capitalismo?
Il software libero ormai è usatissimo, e non solo sui poco diffusi server. Il «pinguino» Linux gira su milioni di personal computer, telefoni cellulari, console per videogiochi. Lo usano i governi perché costa meno e le aziende perché è più solido di Windows. Per Steve Ballmer (il grande capo di Microsoft) è «un cancro», ma molti imprenditori ormai ne sfruttano le possibilità.

 

Le ultime notizie del mondo Open source vengono dall’Europa e precisamente da due paesi che contano. A Monaco di Baviera tutti i partiti del consiglio comunale salvo l’Unione Cristiano Sociale hanno approvato il piano di passaggio dei 13 mila computer cittadini al sistema operativo Linux entro il 2006. Nella fase intermedia resteranno ancora alcuni server Microsoft, ma nel 2008 tutte la applicazioni saranno «sotto Linux».

 

Vecchio continente, software nuovo

 

In Francia venerdì scorso il ministro della Funzione pubblica, Renaud Dutreil, ha annunciato l’intenzione d’introdurre i software aperti nei computer dell’amministrazione, per risparmiare nei costi. Ha anche precisato all’agenzia Reuters che «non stiamo iniziando una guerra contro Microsoft o contro le aziende americane nel settore», ma che «la Microsoft deve tornare a essere un fornitore tra gli altri. La competizione è aperta e la mia stima è che potremo dimezzare almeno della metà le spese di software». Le valutazioni del ministro si riferiscono soprattutto a un piano triennale di aggiornamento dei software per l’ufficio, per 300 milioni di euro.

 

Decisioni analoghe sono state prese nei mesi scorsi da paesi come il Brasile, la Malesia e Israele, in forme e modalità diverse ma ispirate alla stessa filosofia di maggiore concorrenzialità e di risparmio. Nel frattempo il sistema operativo Linux che inizialmente sembrava confinato ai server (i potenti computer su cui s’impernia una rete informatica), si fa strada anche in altri apparati come telefoni cellulari e lettori di musica. Insomma il successo sembra inarrestabile.

 

Il fenomeno dunque non è di nicchia e lo conferma il fatto che alla questione dell’Open source il settimanale The Economist abbia dedicato un editoriale, la settimana scorsa, con il titolo «Oltre il capitalismo?». Vale la pena di seguire il suo ragionamento, come al solito assai lucido, e di annotarlo.

 

Al di là del capitalismo?

 

Intanto i dati di fatto acquisiti: «È fuori discussione che l’Open source è un buon modo di fare il software», in contrapposizione al modo proprietario dove i codici sorgente originari sono gelosamente custoditi. Il secondo dato di fatto è che «esso produce software sicuro, affidabile e ovviamente economico». Il terzo elemento certo è che anche la sola presenza dei prodotti aperti ha comunque un effetto positivo di «maggiore trasparenza»; lo testimonia il fatto che pur mantenendo la sua ostilità ai sistemi aperti, la stessa Microsoft ha modificato le sue politiche e oggi permette a dei partner accreditati di accedere al suo codice, se non altro per ottimizzare le applicazioni che al di sopra di esso devono girare.

 

Queste due affermazioni, abbastanza perentorie, ovviamente non piacciono ai produttori di software chiuso, i quali le hanno contestate con varie argomentazioni. Due fondamentalmente: la prima mette in dubbio l’economicità del software aperto e di Linux in particolare. Si sostiene infatti che il costo totale nel tempo (total cost of ownership) dell’adozione di Linux sia ben più elevato di quanto i suoi tifosi sostengono perché mentre si risparmia sulle licenze d’uso si deve spendere molto in gestione e manutenzione.

 

La seconda obiezione a Linux e compagni è più radicale: esso distrugge ricchezza e rischia di mettere in crisi l’intera economia basata sui diritti di proprietà industriale e intellettuale. Quando il capo di Microsoft, Steve Ballmer, definì Linux «un cancro» l’espressione era certamente forte (e infatti, saggiamente è stata abbandonata), ma proprio questo voleva segnalare: la messa in discussione non solo ideologica, ma pratica di un modello economico. Una messa in discussione che avveniva in maniera contagiosa, propagandosi come un cancro da una cellula a un’altra. Se non un cancro quanto meno un’epidemia.

 

Questo è appunto il tema che l’editoriale dell’Economist afferra per le corna: il modello Open «rappresenta un nuovo modello di produzione, post-capitalistico?». Può dunque essere esteso a altri settori industriali? Può essere l’Utopia che si realizza, trasformando o forsesovvertendo il capitalismo?

 

Il capitalista «flessibile»

 

La conclusione del settimanale, la cui fede liberista è totale, è al riguardo negativa: «Il modello Open source non rimpiazzerà il capitalismo» e tuttavia «la collaborazione tra larghi gruppi di persone che lavorano senza compenso per un fine comune, che la si chiami Open source o in qualsiasi altro modo, può essere una forza potente di bene, e dunque deve essere la benvenuta».

 

Va detto che, allo stato delle cose e dei rapporti di produzione esistenti, quello dell’Economist è un atteggiamento realistico. Esso rappresenta l’aspetto più intelligente del capitalismo, la cui ragione principale di successo sta nella grande capacità di adattarsi ad ambienti che cambiano e a rapporti di forza mutevoli. Il capitalista puro non ha bisogno di rigide ideologie per fare il proprio mestiere; lascia che siano altri, gli apologeti, a rivestire di principi e di supposti valori il suo modo di produzione e queste ideologie servono a posteriori per legittimare quel modello agli occhi dell’opinione pubblica. Ma nella sostanza è pronto ad adattarsi a ogni nuova opportunità, anche a quelle che emergono dalle culture a lui antagoniste. Con due risultati: da un lato annacqua la carica antagonista di idee e movimenti, riconducendoli dentro il sistema, e dall’altro, nel caso per lui migliore, li trasforma in nuove occasioni di affari.

 

Ritorno al futuro

 

Esattamente questo sta succedendo nel mondo del software, basti riandare indietro negli anni, con un piccolo esercizio di memoria. Fino alla fine degli anni `70 il software era aperto e condiviso; esso veniva per lo più pensato e scritto dai suoi stessi utilizzatori, per esempio gli addetti alla ricerca, ed era considerato pura conoscenza strumentale, che come tale veniva diffusa e scambiata gratuitamente con i colleghi. Le aziende delle informatica facevano soldi soprattutto vendendo l’hardware e il software aveva al più la funzione di accessorio funzionale. L’hardware era invece tutto proprietario e di solito incompatibile tra i diversi produttori, con l’effetto di incatenare gli utilizzatori al singolo fornitore, magari il grande monopolista Ibm.

 

Ma alla fine degli anni `70 dei giovani californiani realizzarono un sogno, quello del personal computer, e una scelta quasi casuale della Ibm ne fece un prodotto aperto, a differenza dei precedenti mainframe (i grandi computer). Quella fu una tipica «innovazione distruttiva» che metteva in crisi l’intera industria informatica, basata sui hardware proprietari, ma nello stesso tempo apriva il campo a un settore completamente nuovo. L’intelligenza di Bill Gates fu di capire che c’erano nuovi bisogni e consumi: software applicativi di massa, per il grande pubblico. Ma per farlo era necessario che il software cessare di essere a libera circolazione ma diventasse un prodotto industriale. Non per caso il movimento che prende il nome di Free software nacque al Massachusetts institute of technology (Mit) proprio in contrapposizione a questi processi di chiusura: Richard Stallman se ne andò polemicamente dal Mit indignato al vedere che persino il software delle stampanti non era più modificabile secondo le esigenze degli utilizzatori.

 

Dunque non c’è niente di nuovo? Solo un ritorno all’idea del software condiviso dei tempi d’oro? Da un lato è così, ma i ritorni e i cicli non sono mai uguali a se stessi perché nel frattempo è arrivata una cosa che prima non c’era. Quella cosa si chiama Internet e fa una differenza fondamentale. Se prima i programmi venivano diffusi tra colleghi all’interno di piccole comunità di ricerca, ora la comunità è globale: centinaia di migliaia di persone tra di loro collegate grazie alla rete. Lo stesso sistema operativo Linux, che Linus Torvalds mise a punto nella sua versione primitiva nel 1991, crebbe e divenne robusto grazie alla possibilità di reclutare collaboratori entusiasti in tutto il mondo, ognuno dei quali produce righe di codice, collauda e verifica quelle altrui. E un processo di creazione e condivisione della conoscenza operativa che mette a frutto la diversità e persino la lontananza e che è radicalmente diverso dalla produzione industriale tipica della grande industria.

 

Internet che fa la differenza

 

La presenza dell’Internet è stata decisiva per lacrescita dell’Open source non solo come strumento di lavoro a distanza, ma anche come ambiente culturale poiché in rete è normale scambiare conoscenza senza fini di lucro.

 

Il recente dilagare dell’Open source ben al di fuori dei confini della comunità degli hacker alternativi ha provocato diverse reazioni nel mondo dell’industria:

 

(1) Numerose nuove imprese sono sorte che fanno profitti offrendo dei servizi accessori agli utilizzatori del software aperto. Ovviamente trattandosi di software in uso gratuito i margini di guadagno sono molto inferiori, ma alcune di queste imprese, come Red Hat e Mandrake, hanno raggiunto dei ragionevoli equilibri economici.

 

(2) Altre aziende hanno visto nel software aperto una poderosa arma concorrenziale contro la Microsoft. La più decisa a cavalcare Linux è stata la Ibm e anche questo è un bel paradosso: quello che era il più aggressivo monopolista oggi spinge un prodotto aperto, in questo caso associandolo al suo hardware e ai servizi di consulenza correlati. La decisione della Ibm di adottare Linux ha avuto un potente effetto simbolico verso le aziende clienti: se la Ibm lo consiglia, allora vuol dire che è una cosa seria e che ci si può fidare.

 

(3) Le aziende di software che fino a ieri avevano lavorato su software proprietari sono state costrette a mettere in atto politiche di maggiore apertura. Certamente lo sta facendo la Microsoft, sempre sensibile a cogliere i segnali che le arrivano dal mercato: non solo alcuni codici di Windows ora sono disponibili, ma soprattutto scendono i prezzi dei suoi prodotti. Questa è la forza della concorrenza, che talora viene usata strumentalmente dai clienti per ottenere sconti: «Stiamo pensando di passare a Linux, ma se ci offrite delle condizioni migliori potremmo restare con voi».

 

(4) I produttori di computer più importanti, come Dell e Hp ormai offrono normalmente dei Pc corredati dal sistema operativo Linux. Lo fanno per raccogliere le sollecitazioni della domanda, ma anche per non essere agganciati obbligatoriamente alla sola Microsoft, la quale oltre a tutto è stata vincolata dalle cause antitrust in America e in Europa a rilassare i suoi contratti di licenza, rendendendoli meno esclusivi.

 

(5) Ormai il mondo del software non è più diviso in due: aperto contro chiuso. Esiste invece un’ampia gamma di soluzioni intermedie, come quelle che va praticando la Sun, altra storica casa di computer californiana. Le sue meravigliose stazioni di lavoro tradizionalmente usano un sistema operativo proprietario, chiamato Solaris. Per frenare l’emorragia la Sun ha appena annunciato che anche Solaris diventerà almeno un po’ aperto, così come lo è il linguaggio Java che la stessa Sun inventò e che ormai è diffusissimo. Anche questa è una buona notizia e conferma che nel mondo dell’informatica gli scossoni continuano.


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