1 Settembre 2005
Adultità n.21

Parzialità maschile e precarietà della virilità

 

Stefano Ciccone

Il percorso di riflessione maschile a cui faccio riferimento, anche in questo intervento, è nato da una iniziale spinta a rompere con una complicità maschile, di denunciare fenomeni come la violenza sessuale che sentivamo chiamarci in causa, di rompere un silenzio maschile su un ordine sociale segnato dal potere maschile.
Abbiamo scoperto che quel silenzio era anche silenzio su noi stessi e tra uomini e soprattutto abbiamo scoperto che quel prendere parola, un prendere parola a partire da una rottura di complicità col nostro sesso, diventava occasione per costruire un nuovo sguardo sul mondo e su noi stessi, un’occasione per costruire una diversa esperienza di sé.
Rileggendo un percorso durato ormai diversi anni credo possibile oggi ritrovarne il senso, una chiave di lettura che sento abbiamo costruito e che ci permette di andare oltre, di costruire una nuova ricerca collettiva. Quali sono i nodi centrali della nostra ricerca e iniziativa? E quali le peculiarità?
Innanzitutto il punto di vista, la scelta di porsi come parzialità
In secondo luogo la lettura della cifra di questa parzialità. La precarietà della virilità,
Dopo una lunga fase in cui la riflessione sull’identità maschile ha riguardato un numero molto ristretto di uomini tra loro culturalmente molto vicini, da qualche anno anche in Italia è però cresciuta una rete di esperienze e di individui molto eterogenea che ha posto a tema il maschile e che ha ricercato una relazione specifica tra uomini nominando questa scelta. Al crescere di queste differenze tra noi, abbiamo forse preferito l’incontrarci al “confrontarci” ed abbiamo anche avuto paura del “configgere” sapendo che i modelli che avevamo erano inservibili.). Questa “rinuncia ad agire un conflitto” non è stata detta e riconosciuta ed ha assunto forme diverse: dall’abbandono del gruppo romano da parte di alcuni, al suo allargarsi, alla scelta di non partecipare alla rete nazionale di discussione da parte di uomini di diverse città, alla scelta di modalità e tematiche che mettessero ai margini le differenze politico culturali che ci avrebbero potuto dividere.
Dentro questa aconflittualità c’è anche, però, una risorsa, un atto che richiede una piccola dose di coraggio in più: la disponibilità a far emergere anche la parte peggiore o più contraddittoria di noi, i risentimenti, le paure che spesso sono poco “politicamente corretti”. Abituato a estenuanti assemblee dove combattere per far passare mozioni che sarebbero state dimenticate poche ore dopo scopro, con fatica, che non ho l’ansia del prendere posizione pubblica ma posso concedermi e concedere agli altri lo spazio per capire, far decantare, tornare. Senza rifugiarmi nelle mie sicurezze di un’identità e un linguaggio conosciuto.
Abbiamo capito di aver bisogno di far emergere meglio le diverse opzioni che ci muovono. E vogliamo darci reciprocamente fiducia di poterlo fare. Nello stesso gruppo romano, ad una apparente consonanza iniziale -“vogliamo riflettere come uomini sulla nostra identità, sui nostri rapporti con le donne e tra noi”- emergono di continuo dislocazioni che evidenziano come sia “mobile”, frastagliata l’identità comune che tentiamo di costruire e che, anzi, a volte tendiamo a dare per scontata. Più in generale emerge come siano ambigue le categorie e le domande che il nostro percorso mette in campo, come sia contiguo il nostro percorso a esperienze da cui, al primo sguardo ci penseremmo lontani mille miglia come il rivendicazionismo dei padri separati o il tentativo di rivalsa maschile di movimenti come quello dei maschi selvatici.
In realtà ciò che ci accomuna sono le domande ed il disagio che attraversano l’universo maschile a cui tentiamo di dare risposte diverse ma sempre risposte che non possono fare a meno di registrare il cambiamento avvenuto, magari per opporsi ad esso ma sapendo che nulla può essere più dato per scontato e che non è possibile limitarsi a far finta che nulla sia accaduto.
La scelta di un percorso che ascolti queste domande non rinuncia ad agire un conflitto nel maschile non ripropone una nuova complicità basata sull’accoglienza reciproca e vittimismo ma è attraversamento di un conflitto che è dentro di noi.
La categoria “crisi del maschile” è ambigua. Ma rimanda ad una questione più generale che è il riconoscimento di una articolazione di atteggiamenti e posizioni maschili che anche nel nostro paese assumono forme collettive e pubbliche e vanno riconosciute e messe a confronto, rendendo visibile la specificità di una scelta rispetto ad altre ma anche rendendo visibile il fatto che questa scelta non è un dato concluso.
Per la ricerca degli uomini sulla propria identità sessuata il rapporto con la storia del proprio genere (quello degli oppressori) ed il confronto tra propria ricerca di libertà e “dividendi del potere maschile” è un nodo più intricato di quello affrontato dalle donne nel rompere la naturalità del domino patriarcale.
Pone la necessità di guardare con attenzione al rischio continuo di un’operazione inautentica ridotta all’atto volontaristico di solidarietà con le rivendicazioni delle donne, di denuncia della violenza maschile o di assunzione di un orizzonte emancipazionista. Il rapporto con le generazioni precedenti di uomini e con la complicità maschile che segna i luoghi pubblici della politica ed i modelli delle relazioni personali paradossalmente contrassegnati da un assordante silenzio maschile richiede di produrre una nuova parola che non si confonda con il monopolio maschile di una parola maschile sulla sessualità che si è detta neutra ed universale.

Non quindi una parola normativa e neutra sulla sessualità e sui rapporti tra i sessi. Parola che gli uomini hanno sempre prodotto e su cui anzi hanno avuto un monopolio, ma una parola che dicendosi parziale scopre in questo limite una nuova potenzialità, una nuova occasione di sapere.
Credo che per un uomo questa strada sia un’occasione preziosa per tentare di sperimentare, oltre la falsa alternativa tra estraneità e complicità con la storia del proprio sesso, l’opportunità per reinventare un modo di stare al mondo e di vivere il proprio corpo, di costruire relazioni con le donne, con gli uomini, con se stessi.
Se oggi posso intravedere lo spazio per un percorso di reinvenzione dell’identità maschile nell’inscindibile intreccio tra materialità del corpo e stratificazione sociale e culturale è possibile grazie a quanto il femminismo della differenza ha sedimentato non solo come strumenti culturali ma anche come concreta pratica delle donne che ho incontrato.
Questo percorso è stato possibile anche a seguito di quanto le donne hanno prodotto Per questo credo sia necessario riconoscere una sorta di “debito” culturale e sociale nei confronti del femminismo da parte di uomini che in esso hanno trovato le parole per avviare una propria autonoma riflessione e grazie ad esso lo spazio sociale per svilupparla.
Questo percorso di “diserzione” maschile ha ad esempio avuto bisogno di utilizzare una nozione di differenza che da un lato si liberasse di una concezione essenzialista dell’identità sessuata come determinata in modo ineluttabile dal dato biologico e dall’altro rinunciasse alla scorciatoia di ridurre al dato sociologico e di costume la forma che ha assunto l’immaginario ed il ruolo sociale maschile che intendiamo mettere a critica.
Assumere il tema di due differenze, pur apparentemente ovvio (non esiste una differenza se non ce n’è un’altra) implica un passaggio ulteriore rispetto al riconoscimento della soggettività femminile ed alla fertilità del superamento del paradigma emancipazionista. Può significare, in realtà, il rischio di approdare ad un’accezione della differenza diversa da quella che ha prodotto l’elaborazione del movimento delle donne negli anni ottanta.
L’assunzione del “paradigma della differenza” ha significato infatti per le donne la rottura con la prospettiva egualitaria ed emancipatoria per affermare una “irriducibilità” della soggettività femminile all’universo di norme e al mondo di valori patriarcale.
La nozione di differenza sessuale femminile è quindi inscindibile (fattualmente se non teoricamente) da una soggettività critica delle donne e da una cultura politica che assume la storia di un genere ma ne rappresenta l’espressione critica e consapevole.
Assumere invece il confronto tra due differenze che popolano il mondo, vuol dire fare riferimento ai due generi nella loro effettiva costruzione storico culturale e non necessariamente alla loro espressione critica.
Questa scelta contiene in sé il rischio di una torsione essenzialista del termine differenza non tanto nella volontà di chi la compie ma nel terreno di analisi che propone. Questo è evidente quando si assume in questo terreno di confronto la “differenza maschile” che non si è pensata storicamente in quanto tale.
Il rischio consiste nel non limitarsi a cogliere nella materialità dei corpi sessuati la fondazione di una soggettività ma nell’adombrare l’equivalenza tra due sessi e due differenze in un’accezione identitaria e biologista della differenza sessuale.
Il nostro tentativo di costruire un punto di vista maschile “parziale” ha quindi presente il rischio che l’assunzione di due differenze, che considero un passaggio necessario, non approdi a considerare queste differenze come dati “naturali e statici”.
Le due “differenze”, inoltre, non sono simmetriche. La storia della differenza maschile è la storia di una parzialità che si è fatta norma e si è pensata come neutra. Dirlo è meno banale di quanto sembri. Non si tratta soltanto infatti di disvelare la presunta neutralità dell'”ordine patriarcale” ma di cogliere ciò che quest’ordine ci dice e ciò che occulta della parzialità che lo ha generato. Soprattutto scoprire quella parzialità che facendosi neutra si è nascosta e imposta allo stesso tempo e rilevare quali elementi siano il prodotto di questa: pensiamo al rapporto con il tempo o con il potere, il rapporto con la natura prodotto dagli uomini. Pensiamo al tempo della trasformazione e al nesso tra la rottura del maschile con la propria corporeità e con il presente e la costruzone di prospettive utopiche. A quale esigenza risponde la costruzione simbolica operata dal maschile? Si può rappresentare la politica e le grandi narrazioni come frutto anche di una tensione maschile a “mettere al mondo un mondo” contro l’esclusività del potere generativo femminile? (vedi ad es. la conclusione del libro “cassandra” di Crista Wolf e l’introduzione di Rossana Rossanda ad Antigone sulla “condanna maschile” alla politica ed alla storia)
Scegliamo di formulare questa domanda quindi non solo per destrutturare la soggettività maschile e rompere gli istituti di oppressione che ha generato, ma anche per scoprirne le potenzialità creative e dare un senso diverso a quelle domande. Se è vero che questa tensione corrisponde ad un tentativo tutto maschile di rompere il monopolio femminile sulla capacità riproduttiva, è anche vero che dentro questa tensione è possibile scoprire spazi irrinunciabili di libertà e creatività per tutti e due i sessi.
L’asimmetria sta anche, ovviamente, nel fatto che una “differenza”, quella delle donne, è oggetto e frutto di una riflessione collettiva che per gli uomini non c’è. Ciò pone un problema nella concreta interlocuzione tra noi in cui si potrebbe cadere nell’errore di attribuire ai pochi uomini presenti una rappresentatività che non hanno e che non possono avere.
Il tema del corpo e della percezione del corpo maschile è stata una costante del nostro percorso ed è stata al tempo stesso fonte di fraintendimenti ed equivoci.
Per la sua centralità attraversa molte altre questioni rappresentando un punto di vista ed un approccio che segna questioni che vanno dalla paternità al “consumo di prostituzione”.
Nel primo articolo che scrivemmo parlavamo di una riflessione cresciuta in modo frammentario su pezzetti di carta e poi ricomposta. Oggi scrivo al computer e faccio largo uso della funzione “copia e incolla” non per pigrizia ma per ripercorrere sensazioni e intuizioni cresciute frammentariamente in questi anni.
Mi riferisco alla natura maschile non come dato definitivo ma come risultato di una stratificazione che, a partire dalla materialità di dati biologici ineludibili, come la disparità tra i sessi nel processo riproduttivo, ha prodotto una tensione oppressiva e distruttiva. Proprio nella oscillazione tra “natura” maschile e “maschilità” storicamente e socialmente determinata si sviluppa il nostro tentativo di decostruire e reinventare un’identità maschile.
Indagando su cosa di comune segnasse l’universo che genera la violenza abbiamo scoperto un immaginario maschile segnato da quella che abbiamo chiamato “miseria” del corpo e della sessualità maschile. Misurarsi con la violenza è misurarsi con questa miseria per tentare di scoprire lo spazio per una diversa esperienza del corpo maschile da parte degli uomini e quindi nelle relazioni con le donne.
Forse la reazione incredula delle donne di fronte al nostro ricorrere all’immagine della “miseria del corpo maschile risponde al sospetto femminile verso una possibile strategia maschile di vittimismo o autocommiserazioni da sostituire all’orgoglio virile.
La nostra motivazione, il nostro stato d’animo e tutt’altro. Il disagio del maschile nel rapporto col corpo non credo sia una nostra invenzione. Lo riconosco di continuo nella storia del pensiero e delle convenzioni sociali costruite nei secoli. Ma gli uomini hanno dissimulato questo disagio con il potere e con un’operazione di inversione simbolica di questa miseria in valore. Il mio/nostro tentativo è quello di svelare questo disagio, nominarlo non per fermarsi alla contemplazione depressa di questa miseria ma per tentare due percorsi connessi e distinti: rileggere il corpo maschile” destrutturando” quella “miseria aggiuntiva” prodotta dal simbolico patriarcale per scoprire una possibile significazione del corpo maschile che ne reinventi altre possibili ricchezze. dall’altro misurarsi con i limiti del corpo maschile(primo ma non unico quello di non generare) per proporre di questi un uso ed un’esperienza diversi, facendone un’opportunità.
“C’è qualcuno che corrisponda al proprio corpo?” Il Cyborg mi aveva colpito nel saggio di Caterina Botti aperto da questa citazione di Francesa Alfano Miglietti e rimanda ad un’altra parola in uno dei tanti cortocircuiti del nostro pensare in questi anni. Protesi.
Protesi è la stessa parola che abbiamo usato per rappresentare il rapporto del maschile con la Legge o con la tecnologia per inseguire il controllo del corpo femminile rendendolo “luogo pubblico” sui cui processi dettare legge o morale e intervenire medicalmente.
La tematica del Cyborg mi viene riproposta da una riflessione femminista che a molte giovani donne offre una prospettiva di risignificazione del corpo e quindi di liberazione. Ne sento la potenza ma la piego ad una ricerca che non può per noi essere invenzione di un’identità oltre l’appartenenza di genere ma tentativo di costruire un immaginario del maschile diverso da quello estraneo e nello stesso tempo pervasivo che le generazioni precedenti e la norma quotidiana mi rimandano.
Si può in questo senso dire che il corpo maschile si sia storicamente costruito come cyborg, che abbia costruito miriadi di protesi di cui ha disseminato lo spazio sociale, l’immaginario, le relazioni? Fino a perdere la percezione di quel corpo che ha generato il bisogno di quelle protesi.
Chi usa le protesi? Chi ha un handicap, un’amputazione. Quali sono le amputazioni che il maschile ha percepito nella sua storia e che ha tentato di superare?
L’etimologia del cyborg rimanda al concetto di pilota, una mente che pilota il corpo
Ne sento la potenza ma la piego ad una ricerca che non è invenzione di un’identità oltre l’appartenenza di genere ma tentativo di costruire un immaginario del maschile diverso da quello estraneo e nello stesso tempo pervasivo che le generazioni precedenti e la norma quotidiana mi rimandano. Si può essere in conflitto con il proprio genere senza essere in conflitto con il proprio corpo che della storia di quel genere è il prodotto? E’ possibile costruire un percorso politico di rottura con la storia e la quotidianità del proprio genere e con le corrispondenze che il nostro corpo ci rimanda che diventi anche occasione per reinventare un uso ed una percezione del nostro corpo e spazio, per nuove relazioni tra uomini?

Riconoscere un universo maschile comune non rimovibile ma del quale assumere responsabilità e storia e nel quale ricercare un percorso diverso che, reinventando uso e rappresentazione del nostro corpo, aggredisca le radici della violenza e offra lo spazio per nuove relazioni
Avviare una riflessione al maschile su questi temi vuol dire camminare su un campo minato in cui si mischiano ambiguità e ipocrisie.

Attraversare le forme del maschile quindi non solo o non tanto per un’assunzione di responsabilità e nemmeno per una prospettiva “civilizzatrice” dei costumi ma per sperimentare le radici profonde dell’universo maschile e tentare di costruire da qui un percorso di libertà.
Gli elementi di ricchezza e continuità che a distanza di anni ritrovo nella riflessione che abbiamo sviluppato sono proprio nella critica di questa motivazione volontaristica e nell’intuizione di individuare la “miseria” della sessualità maschile come nodo fondante dell’identità che vogliamo destrutturare. La natura maschile non come dato definitivo ma come risultato di una stratificazione che, a partire da dati biologici ineludibili , come ad es. la disparità tra i sessi nel processo riproduttivo, ha prodotto una tensione oppressiva e distruttiva.
L’affermazione e la rappresentazione del desiderio maschile come unico desiderio esistente ed il corpo maschile come un corpo da imporre, il piacere femminile sempre dissimulato e comunque speculare ai meccanismi di quello maschile. In ogni caso rimosso. Il maschile come unico soggetto desiderante e dunque come unica soggettività.
Rompere questa rappresentazione vuol dire fare esperienza di un limite ma al tempo stesso di un’opportunità. Scoprire l’affermarsi di un’altra soggettività, incontrare la libertà femminile vuol, dire anche fare attraverso questa una diversa esperienza del corpo maschile come corpo desiderato.
Da questo punto di vista, a proposito del tema dei conflitti, la lettura della violenza sessuale come risposta conflittuale maschile all’affacciarsi della libertà femminile nella società non ci è mai sembrata uno strumento efficace di lettura vedendo anzi nell’espressione della libertà e della soggettività femminile una leva per rompere uno dei meccanismi profondi che producono la violenza sessuale e che attiene alla percezione del corpo maschile.
Percezione e uso del corpo maschile come tema politico e non come fuga nel privato o nella scoperta superficiale della tenerezza per non misurarsi col tema del potere.
Ma dov’è il potere? E su cosa si fonda l’uso e la costruzione del potere da parte del maschile? Io credo che si debba andare al fondo e cioè al rapporto con il corpo maschile e questa ricerca non sia una fuga dal nodo del potere ma al contrario il tentativo di fare i conti con esso e con la sua pervasività senza facili scorciatoie di denuncia del sistema politico.
Questo il nodo di cui parlare e per farlo cerchiamo un interlocuzione che riconosca l’asimmetria dei percorsi ma anche la loro reciproca autonomia
Si tratta di una interlocuzione preziosa ma non fondante, nè capace di fornire ciò che la ricerca autonoma degli uomini dovrà produrre.
Non come esponenti di un genere ma come soggettività che in quanto tale è conflitto e internità al proprio sesso, non restare oggetto della riflessione critica delle donne ma tentare di porsi come interlocutore, non paritario ma “altro”, che non chiede legittimazione ma semplice interlocuzione e riconoscimento reciproco.

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