17 Aprile 2003
il manifesto

Per forza o per amore?

Lo spettacolo della forza ci pervade, ma non tutto il mondo è consegnato alla logica dei rapporti di forza. In una società sempre più segnata dalla presenza femminile, sotto il cielo della politica c’è dell’altro, che la cultura laica stenta a vedere e che possiamo vedere solo sottraendo lo sguardo alla seduzione della forza. E’ da qui che comincia un altro mondo possibile
Luisa Muraro

Lo spettacolo della forza è letteralmente impressionante e qualche volta spaventoso: si imprime a tutti i livelli, fino ai nervi e ai muscoli. La legge del più forte, quando la vediamo all’opera, ci entra nella mente e sbaraglia i ragionamenti. C’è poco da fare. Ma, forse, c’è da dire almeno una cosa e cioè che questo vale più per gli uomini che per le donne. Lo dico sapendo di andare vicina ad uno stereotipo sessista che personalmente detesto. Lo dico lo stesso, per uno scopo molto preciso e cioè che si cominci a fare un qualche uso pensante delle nostre differenze. Nel tremendo frangente storico in cui ci troviamo, tutte e tutti siamo impressionati dallo spettacolo della forza che schiaccia gli inermi, e moralmente abbattuti dal trionfo della legge del più forte. Ma questo non vuol dire che tutti facciamo il passo ulteriore (e a mio giudizio, catastrofico) di prendere la legge del più forte come criterio politico definitivo, al quale si potrebbe opporre unicamente l’utopia di un mondo pacificato, in cui il lupo e l’agnello bevono alla stessa fonte. No. Ci sono alcuni e, fra le donne, molte, che conoscono l’esistenza di un altro passaggio.

 

Un esempio del contrasto di posizione fra donne e uomini, lo dà lo scambio tra Ida Dominijanni e Mario Tronti, Che fare dell’Occidente (il manifesto di venerdì 11 aprile). C’è un punto in cui lo scambio si arresta e «lei» dice: «Non sono d’accordo». Non è d’accordo che lo strapotere Usa possa e debba essere fermato solo con l’uso di un potere uguale e contrario, non è d’accordo che tutto il resto che abbiamo visto in queste settimane (manifestazioni, bandiere, mobilitazione mondiale) sia da considerare impotente e già sconfitto. Ecco, se in quel punto d’arresto anche «lui» si fosse fermato e avesse ascoltato l’altra, avrebbe visto davanti a sé una persona che non era tutta invasa dalla legge del più forte, e lo scambio fra i due poteva ripartire di nuovo, in un orizzonte più grande, non più interamente occupato dalla logica dei rapporti di forza. Tu, gli chiede alla fine lei, dovendo appellarti a una figura filosofica della filosofia occidentale, chi sceglieresti? Risposta: per superare questa frattura – tra lavoro sporco della guerra, leggi Usa, e il lusso della pace, leggi Europa, tra guerra e politica – tanto vale ripartire da Hegel.

 

Era un gioco, per chiudere l’intervista; nondimeno la scelta mi sembra significativa. Tanto per stare al gioco, io avrei scelto Montaigne. La risposta di Tronti fa venire in mente, per contrasto, il titolo di un bellissimo testo di Carla Lonzi, Sputiamo su Hegel. A me fa venire in mente un’altra cosa ancora, poco nota, che Hegel, cercando una figura per significare la potenza della dialettica nella storia umana, pensò in un primo momento alla relazione amorosa e poi preferì la figura della lotta tra servo e padrone.

 

Questa notizia, velatamente, ci parla dei limiti politici della filosofia hegeliana, oggi. Oggi, infatti, tra le forze in campo c’è anche quella dell’amore. Non lo dico misticamente, ma a partire dal grido, indimenticato, della ragazza americana dopo l’11 settembre: «Perché ci odiano tanto?». Gli Usa hanno vinto la seconda guerra mondiale ma non stanno vincendo questa, se non altro per questa ragione, che non suscitano l’amore di cui, dopo quel grido, tutto il mondo sa che hanno bisogno. Lo dico perché viviamo in una società e in una cultura segnate sempre più apertamente dalla presenza femminile e l’amore è, notoriamente, una cosa importante per la grande maggioranza delle donne. Forse anche degli uomini, anzi ne sono sicura, ma le donne lo sanno. La sorella che, secondo la dialettica di Hegel, restava indietro rispetto allo sviluppo etico, per diventare moglie e madre chiusa nel mondo privato degli affetti, oggi entra ed esce di casa abbattendo confini che marcavano opposizioni altamente significative per «lui». Ne parlano anche le tanto citate, ma forse poco capite, bandiere della pace.

 

Lo strapotere degli Usa non si ferma con le bandiere iridate, dicono. D’accordo. Non si ferma neanche con l’amore, aggiungiamo pure, con gli occhi pieni dell’immagine di Rachel Corrie davanti al bulldozer che la schiaccerà insieme alla casa che lei ha tentato invano di difendere. Naturalmente che no, se facciamo il confronto sul terreno dei rapporti di forza. Ossia, se noi stessi restiamo su questo tereno e ragioniamo in questo orizzonte, facendo di quello che lì s’impone la nostra legge mentale. Il punto è proprio questo, strapparsi a quel terreno, allargare l’orizzonte, non farsi trovare lì.

 

Lo spiegherò con un’idea di Cristina Campo, citando le sue esatte parole, perché, come sa chi l’ha letta, lei pesava le parole con bilancia d’orefice. Parla delle fiabe (che vuol dire che parla anche del Vangelo) e dice: «La caparbia, ininterrotta lezione delle fiabe è la vittoria sulla legge di necessità e assolutamente niente altro, perché niente altro c’è da imparare su questa terra» (Parco dei cervi). Gli eroi delle fiabe, spiega, sono chiamati ad affrontare prove che superano solo quando, uscendo dal sistema dei rapporti di forza, cercano la salvezza in un altro ordine di rapporti. Finché valgono i rapporti di forza, non c’è gigante al quale non possa opporsi un più tremendo gigante e non c’è fine al gioco pendolare delle contrapposizioni. E cita il pastorello coraggioso sfidato al tiro a segno da un tremendo gigante: se avesse tirato una pietra, non ce l’avrebbe fatta perché il bersaglio era troppo distante; vince perché fino al bersaglio invia un uccello in volo.

 

L’idea di Cristina Campo è un’idea immediatamente politica. Per saperlo,la si applichi al movimento no-global. Insegna la libertà di un agire politico che si schioda dal confronto speculare con l’avversario dentro al sistema del potere. Non c’è solo la libertà di optare fra alternative già date. C’è altro, un altro mondo è possibile e comincia a nascere nello sguardo non affascinato dallo spettacolo che offre la forza.

 

Ma la Campo parla di trascendenza e i suoi simboli hanno un significato religioso. Sorge inevitabile l’obiezione laica, di chi non crede in Dio o, anche credendoci, non vuole mescolare le cose divine con le faccende umane.

 

Non è un’obiezione da poco in questo frangente che vede la religione portare acqua al mulino della guerra, aggravando i conflitti oltre ogni misura umanamente praticabile. La cultura laica ci insegna a tenere Dio e la religione separati dalla scienza, dalla politica, dal diritto. Lo ha ribadito su questo giornale Valentino Parlato in garbata polemica con un noto opinionista che voleva spiegare (a noi europei) il senso normale e civile della giornata di meditazione e preghiera proclamata da Bush durante la guerra. Mi hanno insegnato a tenere separate certe cose, ha scritto facendo un elenco e nell’elenco c’era anche la separazione tra vita privata e vita pubblica. Sembrava quasi che dicesse: una volta… sembrava che sapesse che ormai l’equilibrio inventato dai filosofi moderni non regge più. Infatti. I nodi vengono al pettine. La modernità laica occidentale era una complicata costruzione della classe intellettuale al potere. Doveva tenere a bada la bigotteria e il fanatismo, ha fallito e sarebbe ridicolo mettersi a difenderla come una religione.

 

Fra le molte cose lette in questi mesi di intensificate letture, ricordo il lungo articolo di un analista inglese che diceva, acuto e sprezzante: Bush non ha né l’intelligenza né la cultura minime richieste per parlare di politica con argomenti razionali, e perciò si aggrappa al linguaggio religioso. Azzeccato, ma che cosa prova questo se non il fallimento della cultura laica? Fallimento tacitamente registrato, in sostanza, anche dai molti fra noi che, senza essere né credenti né cattolici, hanno esultato per la passione politica con cui il papa cattolico è sceso in campo contro la guerra. Non è stato solo per un calcolo, del tipo: se può servire, ben venga anche il papa. No, la sua foga virile intrisa d’angoscia e dolore, ci ha comunicato un sentimento di commozione e ci ha dato coraggio.

 

Perciò propongo che torniamo sulla questione della trascendenza e dei simboli religiosi. Viviamo in un passaggio difficile e lo affrontiamo senza disporre della nostra eredità religiosa, vale a dire del meglio della civiltà europea premoderna. Le premesse della separazione tra politica e religione risalgono al Medioevo, come noto. Ma il Medioevo non ne faceva una forma del pensiero definitiva, e non spezzava il continuum che è ogni civiltà, a causa della lingua che la pervade tutta, e che siamo noi stessi, per la stessa ragione, la lingua. Perciò, nel Medioevo poteva capitare che un vescovo, Ambrogio, armato della sua autorità spirituale, non consentisse all’imperatore di entrare in chiesa e lo rimandasse pubblicamente indietro, a fare penitenza per aver ordinato la distruzione di una città che non si sottometteva al suo potere.

 

Noi oggi dobbiamo congedarci dalla modernità e ci tocca farlo senza poter prendere né fiato né rincorsa. Tant’è che ci chiamiamo, tristemente, postmoderni. Non abbiamo niente da opporre alle tendenze dell’integralismo. Lasciamo la religione all’uso e abuso di fanatici e bigotti.

 

Qualcuno che mi legge si sarà accorto che ho fatto mia l’idea di un prete che fu anche un politico, ma in una maniera molto diversa da don Sturzo. Parlo di don Giuseppe De Luca che in politica fu, essenzialmente, un mediatore. L’idea di far parlare tra loro cultura laica e tradizione religiosa, in effetti, viene da lui e io non potrei aggiungervi nulla. Ma c’è una cosa che si può dire in più, perché da allora qualcosa è cambiato, la stessa che ho ricordato all’inizio, una presenza libera di donne e di pensiero femminile. Viviamo in una società in cui una donna può fermare il lui di turno e dirgli «Non sono d’accordo».

 

La differenza femminile libera – alla condizione che «lui» si fermi e ascolti, chiaro – è la possibilità che io vedo che abbiamo di schiodarci dalla legge di necessità in politica, ossia dal paralizzante confronto tra forze contrapposte. Possibilità che si distribuisce su due versanti, uno rivolto al presente e uno al passato.

 

Al presente, sta diventando riconoscibile una politica delle relazioni praticata di preferenza dalle donne, che si esercita fuori dal terreno del potere e del dominio, e che sa che il mondo non è tutto consegnato a questa logica. C’è altro ed è possibile vederlo all’opera se lo sguardo non si lascia catturare dallo spettacolo della forza. Questo «altro» non è un di più, è l’essenza della politica, oso dire, in quanto non do nome di politica al fatto che noi dobbiamo sottostare alla legge del più forte, ma, al contrario, che riusciamo a vincerla.

 

Al passato, l’ermeneutica della differenza ci insegna a recuperare l’eredità religiosa fuori dalla traiettoria di una storia maschile che è terminata con la inevitabile separazione delle cose divine dalle faccende umane, pena guerre e intolleranza. Sono ormai parecchi anni che studio la cosiddetta mistica femminile, che forma un ricchissmo filone di ricerca libera di Dio, ininterrotto dal Medioevo ai nostri giorni. E ho imparato una libertà religiosa che non avevo, quella di un dire dio che apre l’orizzonte chiuso dalla nostra presunta autosufficienza, e che in politica si traduce, senza troppi passaggi, nel sapere che la libertà è l’ingrediente più prezioso dell’amore, e l’amore quello della libertà.

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