1 Maggio 1997
Via Dogana n° 31

Più fiducia meno regole

Roberto Leone

Una delle contraddizioni più forti della nostra società è rappresentata dal conflitto tra l’esigenza della libertà individuale e la necessità di controllarla perché ci sia rispetto delle regole di convivenza di cui una comunità si dota. Nella storia dell’uomo, o per meglio dire nella storia della società maschile, questa contraddizione si è fatta sempre più acuta con l’aumentare della complessità sociale e della lotta per la gestione e il controllo del potere. Oltre che nelle forme di governo dittatoriali della nostra storia, dove si raggiunge il massimo di controllo e di repressione della libertà individuale e collettiva, anche nelle società definite democratiche il complesso di leggi, norme e regolamenti, che “ingabbiano” la vita quotidiana di uomini e donne, entra continuamente in contrasto con la spinta individuale alla libertà di espressione, comportamento, relazione.
Non intendo affrontare in questo articolo gli aspetti storici, filosofici e sociologici di questa contraddizione, né parlare della necessità delle leggi e del loro rispetto, tema molto al di sopra delle mie capacità. Mi interessa, invece, aprire una discussione e un confronto su cosa c’è dietro l’incapacità di eliminare o quantomeno attenuare quel complesso di norme, regolamenti e procedure di controllo (nella maggioranza dei casi formali piuttosto che sostanziali) che sovrintendono al nostro agire quotidiano, in particolare, ma non solo, nell’ambito lavorativo.
Chi non ha sentito dire o non ha detto frasi del tipo: “in Italia siamo oppressi dalla burocrazia”, “troppe procedure da seguire e rispettare, troppe carte da riempire”? Spesso ci si fa schermo con queste affermazioni per nascondere il desiderio di non rispondere delle proprie azioni, di non confrontarsi sulla qualità del proprio lavoro, quando invece non si voglia coprire la determinazione a frodare lo Stato o il proprio vicino. Per molti, però, l’insofferenza verso norme e procedure burocratiche esprime un desiderio del tutto opposto. La voglia, cioè, di eliminare gli ostacoli alla propria capacità lavorativa (“sei proprio brava e preparata ma non hai l’inquadramento giusto, il tuo sapere non può essere utilizzato, …..peccato!”), le perdite di tempo e di energia per i vuoti adempimenti formali. Per non parlare degli ostacoli che spesso norme e regole pongono alle innovazioni, alla libera sperimentazione, all’esprimersi della fantasia. E d’altra parte “il doversi attenere alla norma” fornisce un comodo alibi a chi non ha voglia di impegnarsi o di rischiare. Riemerge così prepotentemente la contraddizione: “meno norme maggiori possibilità di liberare le potenzialità individuali e di gruppo” ma anche “meno norme maggiori possibilità di abusi e sottrazione dalle responsabilità”.
Il terreno si fa scivoloso. Faccio fatica a pensare che nell’attuale situazione culturale, sociale e politica del nostro paese si possa facilmente e rapidamente fare a meno di vincoli e controlli. Tuttavia la strada per una maggiore libertà va intrapresa, anche a costo di correre qualche rischio. D’altronde, da tangentopoli in poi, è davanti agli occhi di tutti la facilità con cui si possono aggirare per anni norme e controlli. Così come è evidente che nessuna norma, per quanto dettata da nobili e lodevoli intenti, possa da sola modificare comportamenti individuali o collettivi. Ma allora perché si fa così fatica ad intraprendere una strada diversa? Perché anche chi condivide l’idea di aumentare gli spazi di libertà, attenuando i vincoli, non riesce ad operare?
Mi rifaccio alla mia esperienza nell’Università. Da qualche anno le università italiane sono impegnate nella stesura di statuti e regolamenti per dare attuazione alla tanto “sospirata” autonomia: “finalmente ci liberiamo della burocrazia ministeriale”, “tutto sarà più semplice e più rapido”, sono le frasi più ricorrenti di presidi e rettori. Belle parole, sicuramente sincere, ma la realtà si è dimostrata ben diversa. Al di là di qualche limitata eccezione, statuti e regolamenti amministrativi e didattici si muovono nel consolidato solco della tradizione ministeriale e, in qualche caso, si è avuto un ampliamento normativo. Eppure ho ben presente le affermazioni che tutti indistintamente facevamo e continuiamo a fare nelle riunioni del Senato Accademico e delle diverse commissioni di lavoro: “mi raccomando, poche e chiare regole, semplifichiamo le procedure, evitiamo di far compilare troppe carte,…”.
Perché non riusciamo a tenere fede a questi intenti? Perché, mano a mano che si procede nella stesura dei regolamenti, escono fuori tutte le possibili ipotesi di abusi e quindi la necessità di ostacolarli tutti, anche i più improbabili?
Perché favoriamo nei fatti la deresponsabilizzazione chiedendo l’adesione ad un certo preciso comportamento formalmente ineccepibile? Perché non riusciamo a vedere l’inutilità di certe norme rispetto agli obiettivi per cui vengono costruite? Perché, infine, stiamo al gioco di chi vuole utilizzare la norma per esercitare il proprio potere piuttosto che delineare e favorire percorsi di autorità, nel senso che a quest’ultima parola danno le autrici di Oltre l’uguaglianza?
Probabilmente qualche mia amica di Diotima risponderebbe a queste domande facendomi notare che i luoghi dove si scrivono norme e regolamenti sono “luoghi di potere maschile”. Difficile contestarlo se penso alla ridottissima e poco partecipe presenza femminile, all’assenza delle donne più autorevoli della nostra università, ai continui scontri di potere che si giocano in quei luoghi. Vorrei allora sottolineare quella che a mio parere è una delle con notazioni della politica maschile, che impedisce di porre maggiormente nelle mani delle lavoratrici e dei lavoratori la responsabilità dello svolgimento dei propri compiti: la mancanza di fiducia nei confronti dell’altra/altro.
A sentire certi discorsi mi viene di pensare che l’università italiana sia percorsa da persone impegnate prevalentemente ad evitare il lavoro a tutti i costi e a cercare di “fare le scarpe” al prossimo. Inevitabile allora tenere tutti sotto rigido controllo ed entro ambiti e mansioni ben delimitati. D’altra parte se manca la fiducia giocoforza non può che prevalere, fino all’eccesso, la necessità di regolamentare i comportamenti da tenere. Così la mancanza di fiducia si tradurrà inevitabilmente nella sfiducia di poter far crescere, prosperare l’altra/altro, limitando gli interventi in positivo e favorendo l’aspetto del controllo. Porto un esempio, come farmacologo, che ben illustra questa situazione. Un recente decreto legislativo impone ai medici, pena sanzioni pecuniarie e l’arresto fino a sei mesi, di comunicare alle autorità sanitarie gli effetti negativi dei farmaci che osservano nei loro pazienti. L’obiettivo della norma, aumentare le conoscenze sulla tossicità dei farmaci, è assolutamente condivisibile, lo strumento, la minaccia delle sanzioni, assolutamente inefficace allo scopo. Non si ha fiducia nella possibilità di cambiare la realtà attraverso uno strumento educazionale-informativo rivolto ai medici e si ricorre allo strumento burocratico-poliziesco che non provoca nessun cambiamento culturale e di attenzione alla problematica nei medici.
Per finire, credo che ci si debba interrogare sulla nostra mancanza di fiducia negli altri, su quali motivazioni ci stanno dietro e su come superarla. Solo una maggiore fiducia nell’altra/altro può condurci a limitare norme, vincoli e limiti che ingabbiano le nostre potenzialità.
Così come una maggiore fiducia in noi stessi e negli altri può consentire una diversa pratica politica, un intreccio di relazioni che, modificando la realtà, fanno diventare l’invocazione alle regole inutile.

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