1 Marzo 2006

Ebrei per la pace a Bi’lin. Stupefatti

Un gruppo di European jews for a just peace è andato a vedere il villaggio della Cisgiordania spaccato in due dal Muro
Paola Canarutto

Bi’lin è un villaggio agricolo, a cui la “barriera di separazione” confisca metà del terreno coltivato. Il motivo ufficiale addotto dalle autorità israeliane è che la “barriera” viene costruita per motivi di sicurezza, ma il movente reale è quello di impadronirsi di terra per la colonia ebraica ortodossa di Modi’in Illit. Gli abitanti del villaggio lottano da diversi mesi in modo non violento, e Ejjp (European Jews for a Just Peace), una confederazione di gruppi ebraici di 10 paesi europei, ha deciso di dimostrare loro solidarietà.

 

E’ così che, la mattina del 16, siamo partiti in aereo per Tel Aviv, per tenere la nostra riunione del comitato esecutivo nel municipio di Bi’lin. Ma le cose non sono andate lisce. All’aeroporto Ben Gurion, il nostro segretario, Dan Judelson, è stato fermato ed interrogato per 5 ore, per aver dichiarato di far parte di un gruppo ebraico per la pace, che intendeva parlare con ebrei e palestinesi. L’agente gli ha chiesto: “Perché un buon ebreo vuole parlare con palestinesi?”. Così pure è stata fermata per 5 ore l’anziana Paula Abrahams, il cui “reato” è l’aver sposato un palestinese. Peggior sorte ha avuto Houria, figlia di madre ebrea e moglie di un ebreo (il cui cognome è riportato sul passaporto), per il fatto di avere padre musulmano e nome arabo (Houria in arabo significa libertà): è stata trattenuta all’aeroporto per 10 ore e interrogata per 9, da 7 agenti diversi. Per liberarli hanno dovuto intervenire un avvocato e la bravissima giornalista israeliana Amira Hass.

 

A Bi’lin abbiamo manifestato con gli abitanti contro il Muro (Dror Feiler, il presidente di Ejjp, ha suonato il sassofono davanti ai soldati in assetto di guerra, che non sapevano bene come reagire a tale insolito comportamento). Il giorno dopo ci siamo uniti al migliaio di israeliani che è andato a piantare ulivi nelle zone in cui erano stati divelti dai coloni. I palestinesi erano felici della nostra dimostrazione di solidarietà, benché almeno in una zona questi siano stati dopo pochi minuti divelti dai coloni medesimi.

 

Siamo transitati diverse volte, a piedi e in auto, dall’orrido posto di blocco al Muro di Qalandya: due alti muri concentrici, interrotti da torrette, e in cima ai quali c’è il filo spinato: l’unico commento possibile è che ai costruttori del Muro manca ogni memoria storica di quel che hanno subito gli ebrei in Europa, poco più di 60 anni or sono. Si passa in corridoi senza contatto con i soldati, che impongono ordini dagli altoparlanti; sbarre parallele rotanti permettono loro di fermare il transito dei pedoni ogni qual volta lo desiderano. “Come galline in un pollaio”, ha commentato una di noi, che si è trovata bloccata. E Houria, a cui all’aeroporto non era stato apposto il timbro di ingresso sul passaporto, è stata di nuovo fermata dai soldati: mancando il timbro, a Gerusalemme Est, che Israele ha annesso, è “illegale”. Ma non vi è controllo routinario delle borse, né delle auto: che i controlli siano “per la sicurezza”, come sostengono gli israeliani, lascia per cui alquanto a dubitare.

 

All’università palestinese di Al Quds i dipendenti sono in sciopero bianco da tre settimane, in quanto non sono pagati da due mesi; la situazione sul versante “paghe” è la stessa all’ospedale Makassed, a Gerusalemme Est (che ora i pazienti trovano difficile raggiungere: Gerusalemme Est è separata dal resto della Cisgiordania dal Muro, e i palestinesi che non hanno la carta blu dei residenti a Gerusalemme devono chiedere ogni volta un permesso della durata di 24 ore allo Shabak, la polizia israeliana, per poter passare). Abbiamo visto la miseria in cui vivono i palestinesi cisgiordani (e nella Striscia di Gaza la situazione è ancora peggiore) – questo ancora prima che si manifestino le conseguenze della confisca degli introiti doganali e dell’Iva palestinesi, voluta dal governo israeliano per punire gli abitanti del voto a Hamas.

 

Dopo decenni di occupazione israeliana, le strade in Cisgiordania sono in condizioni pessime, ciò che non può che rallentare l’economia. Le confische di terra e di acqua, aggravate dalla distruzione degli olivi, impedisce l’attività agricola, e le centinaia di posti di blocco (all’interno della Cisgiordania medesima, onde difendere le colonie e le strade che le collegano) impediscono a chiunque di recarsi al lavoro, se questo non è prossimo all’abitazione; la conseguenza è la fame.

 

Nel campo profughi di Jenin, Dror e Jonathan Stanczak hanno inaugurato il Teatro della Libertà, ispirato al teatro di “Arna’s Children”, distrutto nell’invasione israeliana di Jenin nel 2002. Altri di noi hanno partecipato alla conferenza sui metodi non violenti di lotta, tenuta a Bi’lin il 20 e il 21; fra i temi trattati, c’è stato quello di come opporsi alla costruzione di linee tranviarie da Gerusalemme Ovest alle colonie (per la prima delle quali, Pisgat Zeev, si progetta una connessione in atto già fra due anni): è un sistema per consolidare l’annessione di terre palestinesi, rendendo così la nascita di uno stato di Palestina sempre più improbabile (se con il termine “Stato” non si vogliono indicare bantustans disconnessi fra di loro dalle colonie e dalle strade che le collegano).

 

Abbiamo avuto modo di incontrare diversi gruppi israeliani che, in modi diversi, combattono l’occupazione: i giovanissimi anarchici, Ta’ayush, i Rabbini per i diritti umani, l’Alternative Information Center (l’unica organizzazione in cui israeliani e palestinesi sono allo stesso livello, condiretta da Michel Warschawski e Majed Nassar), l’Icahad (International Committee against House Demolitions), Machsom Watch (le donne che ai posti di blocco cercano di ridurre la violenza dei soldati), Bat Shalom, l’Arcobaleno democratico mizrahi (degli ebrei di origine africana, discriminati da decenni nello Stato di Israele). Alla conferenza a Bi’lin ci è stato riferito che la grande maggioranza dei partecipanti erano ebrei, come pure che sono ebrei la maggior parte degli aderenti allo Ism, l’International Solidarity Movement. Questo fa ben sperare per il futuro, benché attualmente la stupefazione di noi tutti sia che, in queste condizioni, la maggioranza dei palestinesi riesca a sopravvivere senza emigrare. Un’opzione apertamente auspicata in Israele dal partito di destra Moledet, ma portata avanti da tutti i partiti al governo.

 

* Ebrei per una pace giusta a Bi’lin

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