24 Novembre 2004

Kerry e il dono dell’immunità

Naomi Klein

Il vero regalo di Kerry per Bush non è stata la presidenza, ma l’immunità. La dimostrazione migliore si incarna nell’uomo Marlboro di Falluja e nei dibattiti surreali che lo hanno coinvolto. La vera immunità genera una specie di delirante decadenza, e la sua faccia è questa: una nazione che si scalda con il fumo, mentre l’Iraq brucia.

Le immagini simboliche suscitano attrazione e avversione. È il caso della fotografia di James Blake Miller, il ventenne marine di Appalachia ribattezzato “il volto di Falluja” dagli autorevoli sostenitori della guerra, e “l’Uomo Marlboro” da quasi chiunque altro.

 

Riproposta da più di un centinaio di quotidiani, la foto del Los Angeles Times mostra Miller “dopo più di dodici ore di intenso e quasi ininterrotto combattimento” a Falluja, la faccia dipinta con pittura di guerra, un graffio sanguinante sul naso e la sigaretta, appena accesa, tra le labbra.

 

Osservando Miller con benevolenza, Dan Rather, anchorman di CBS News, ha confidato: “Mi ha coinvolto personalmente. È un guerriero che scruta l’orizzonte lontano, per cogliere con lo sguardo il pericolo. Guardatelo, studiatelo, assimilatelo. Pensateci su. Quindi tirate un profondo respiro di orgoglio. E se non vi ritrovate con gli occhi umidi, siete più bravi di me”. Qualche giorno dopo, il LA Times dichiarava che la foto era “entrata nel regno dell’allegoria”. A dire il vero, l’immagine sembra allegorica solo perché è evocativa in modo quasi ridicolo: è uno scopiazzamento bello e buono dell’icona più forte della pubblicità americana, l’uomo della Marlboro, che a sua volta imita la stella più brillante che Hollywood abbia mai creato, John Wayne, che impersonava il più grande mito originale d’America, il cowboy sull’impervio confine. È come una canzone che ti sembra di aver già sentito mille volte, perché è proprio così.

 

Ma non è questo il punto. Per un Paese che ha appena eletto un aspirante uomo Marlboro come suo Presidente, Miller è un’icona, e lo prova il fatto che lui stesso abbia dato origine ad una disputa. “Molti bambini, ma soprattutto ragazzi, giocano ‘ai soldati’ e si divertono a imitare questo giovanotto. Il chiaro messaggio della foto è che il modo giusto di rilassarsi dopo una battaglia è una sigaretta”, ha scritto Daniel Maloney in una lettera di protesta allo Houston Chronicle. Linda Ortman ha mosso lo stesso appunto agli editori del Dallas Morning News: “Non ci sono foto di soldati in Iraq che non fumano?”. Un lettore del New York Post ha suggerito qualche immagine per una propaganda più politically correct: “Mostrare un marine su un carro armato, mentre aiuta un altro militare, o beve acqua, avrebbe un impatto più favorevole sui vostri lettori”.

 

Proprio così: coloro che hanno scritto lettere ai giornali da tutta la nazione esprimono unanimi la stessa indignazione: non che il soldato dagli occhi d’acciaio che fuma rende l’uccisione di massa accattivante, bensì che un’azione encomiabile come l’uccisione di massa renda accattivante il terribile crimine del fumo. Questo mi ricorda la battuta sul rabbino della comunità hasidic, secondo il quale sono accettabili tutte le posizioni sessuali tranne una: quella in piedi, “perché potrebbe indurre a ballare”.

 

A pensarci bene, forse Miller merita davvero di essere elevato allo status di icona: non della guerra in Iraq, ma della nuova era della dilagante immunità americana. Poiché, al di fuori dei confini americani, come sappiamo, c’è un altro il marine a cui è stato assegnato il titolo di “volto di Falluja”: il soldato ripreso da una videocamera mentre uccide un prigioniero ferito e disarmato in una moschea. A seguire, ci sono le fotografie del bimbo di due anni di Falluja in un letto d’ospedale senza la gamba che gli è stata strappata via; del bambino morto, steso sulla strada e aggrappato al corpo senza testa di un adulto; e di un centro di pronto soccorso ridotto in macerie. All’interno degli Stati Uniti, queste istantanee di un’occupazione fuorilegge sono comparse solo brevemente, se mai sono comparse. Al contrario, lo status di icona di Miller ha resistito, tenuto vivo da storie di umano interesse sui suoi fan che inviano stecche di Marlboro a Falluja, interviste alla mamma orgogliosa del marine e accese discussioni sulla possibilità che il fumo possa ridurre l’efficienza di Miller come macchina da combattimento.

 


L’immunità, la percezione di essere al di là della legge, è stata a lungo il marchio del regime di Bush. Ciò che è allarmante è la sensazione che si sia accentuata dopo le elezioni, sfociando in quella che può ben essere descritta come un’orgia dell’immunità. In Iraq, le forze statunitensi e i loro delegati iracheni stanno prendendo di mira bersagli civili e attaccano apertamente medici, religiosi e giornalisti che hanno osato contare i corpi. In patria, la politica dell’immunità è stata ufficializzata da Bush con la sua nomina a ministro della Giustizia di Alberto Gonzales, l’uomo che, attraverso l’infamante “memoriale sulle torture”, aveva personalmente informato il Presidente che le norme della Convenzione di Ginevra sono ormai “obsolete”.

 

Questo genere di provocazione non può spiegarsi semplicemente con la vittoria di Bush. Qualcosa nel modo in cui ha vinto e in cui si sono tenute le elezioni deve aver dato a questa amministrazione la netta impressione di aver ricevuto una sorta di franchigia dalla Convenzione di Ginevra. Poiché questo è esattamente il dono che è stato consegnato proprio da John Kerry.

 

Per mantenere la possibilità di vittoria, la campagna di Kerry ha lasciato correre la macchina elettorale di Bush per cinque mesi senza mai affrontare questioni importanti come la violazione delle leggi internazionali. Nel timore di essere considerato troppo tenero riguardo al terrorismo e sleale verso le truppe statunitensi, Kerry ha scandalosamente taciuto riguardo ad Abu Ghraib e Guantanamo.
Quando è diventato chiaro che su Falluja si sarebbe abbattuto l’inferno subito dopo le votazioni, Kerry non si è mai opposto a tale piano, né ai bombardamenti illegali di zone civili che si sono verificati durante tutta la campagna. Anche dopo la pubblicazione su The Lancet dello studio in cui si stimava che 100.000 iracheni erano morti in seguito all’invasione e all’occupazione, con una frase oltraggiosa, anzi francamente razzista, Kerry aveva ripetuto che gli americani “hanno subito il 90% delle perdite in Iraq”. Messaggio inequivocabile: i morti iracheni non contano. Dando credito alla teoria altamente discutibile secondo cui gli americani sono incapaci di avere riguardo a qualunque vita che non sia la propria, la campagna di Kerry e i suoi sostenitori sono divenuti complici nella disumanizzazione degli iracheni, rafforzando l’idea che la vita di alcuni non sia così importante da rischiare di perdere voti. Più che l’elezione di un qualsiasi candidato, è questa logica moralmente insostenibile che consentire che crimini del genere possano susseguirsi senza freni.

 

L’effettivo risultato di tutte queste idee “strategiche” è stato che al danno hanno aggiunto anche la beffa: non hanno consentito a Kerry di essere eletto e hanno trasmesso a chi, invece, lo è stato, il chiaro messaggio che non avrebbe pagato alcun prezzo politico per i crimini di guerra commessi. È questo il vero regalo di Kerry per
Bush: non tanto la presidenza, quanto l’immunità. La dimostrazione migliore è, forse, nell’uomo Marlboro di Falluja e nei dibattiti surreali che lo hanno coinvolto. La vera immunità genera una specie di delirante decadenza, e la sua faccia è questa: una nazione che si scalda con il fumo, mentre l’Iraq brucia.

 

Fonte: Kerry and the Gift of Impunity
Traduzione di Tiziana la Cecilia per Nuovi Mondi Media

Print Friendly, PDF & Email