11 Marzo 2006
il manifesto

Lo sguardo di Dunja sulla guerra

Una ragazza giovanissima precipitata nella catastrofe della guerra, tra la violenza delle bombe nemiche e la follia degli amici. «Ci sentivamo come i partigiani»
Riccardo De Gennaro

No, non è la stessa guerra che vediamo in televisione. Nella guerra reale prima ci sono le sirene del coprifuoco, il rombo degli aerei nemici, il sibilo delle bombe. Poi le fiamme, le case distrutte, la paura di aver perso tutto, i morti, lo strazio. Chi ha conosciuto gli orrori della seconda guerra mondiale ricorda quei momenti, ma sono ricordi che risalgono a più di sessant’anni fa. Quelli di Dunja Popin, 30 anni, serbocroata di Belgrado, non ne hanno più di sette. Lei sa che cosa significa vivere per tre mesi sotto i bombardamenti senza un rifugio e con l’acqua razionata. Era il 24 marzo 1999. Per la prima volta dopo la fine dell’ultimo conflitto mondiale nei cieli di una capitale europea spuntava il muso ostile dei cacciabombardieri. L’obiettivo era Belgrado, gli aerei – impegnati in un’azione offensiva contro uno Stato sovrano, a dispetto della Charta dell’Onu – erano quelli della Nato. Dunja, un nome dolcissimo che in serbo significa «mela cotogna», come prima cosa aveva paura di perdere il suo mosaico. Il ’99 era per lei l’ultimo anno d’Accademia di Belle Arti, aveva disegnato un pesce enorme e lo stava ricoprendo di pietruzze variopinte. La guerra civile nell’ex Jugoslavia andava avanti da otto anni, ma Belgrado non era mai stata toccata. I serbi erano riusciti a tenere il teatro di guerra lontano dalla capitale, ma non dalle coscienze. «Vivevamo nel grigiore, eravamo convinti che non c’era futuro per noi. E allora io, che avevo 23 anni, mi costruivo un mio mondo tutto colorato. Mi vergogno un po’ a dirlo, ma quando sentivo venire gli aerei tremavo per la paura che le vibrazioni del pavimento distruggessero le tessere del mio lavoro che non avevo ancora fissato con la colla». Chi se ne frega di Milosevic? A Dunja di Milosevic non gliene importava niente, sapeva che era un mascalzone, tanto è vero che nell’ottobre 2000 sarebbe scesa anche lei in piazza giorno e notte per denunciare i brogli della sua ultima elezione: «La Nato voleva colpire lui, ma ha colpito noi, lui l’ha rafforzato, prova ne sia che è rimasto al potere fino alla fine del 2000». Quando era cominciata la guerra civile, nel ’91, Dunja aveva 14 anni. «Non pensavamo che sarebbe durata tutti quegli anni, dicevamo: tra tre mesi finisce. Speravamo in qualche intervento esterno, qualche mediazione, qualcuno che dicesse basta. Pensavo anche che ci saremmo fermati da soli, mi sembrava una cosa impossibile, eravamo tutti fratelli fino a ieri». I bombardamenti della Nato in Serbia hanno fatto un migliaio di morti tra i civili, a causa anche di quei «danni collaterali» rigorosamente pianificati dagli americani e dai loro alleati per costringere la popolazione a rovesciare Milosevic: ne fecero le spese, tra gli altri, i passeggeri di un treno che si trovava a passare su un ponte della Serbia meridionale (55 N RICCARDO DE GENNARO o, non è la stessa guerra che vediamo in televisione. Nella guerra reale prima ci sono le sirene del coprifuoco, il rombo degli aerei nemici, il sibilo delle bombe. Poi le fiamme, le case distrutte, la paura di aver perso tutto, i morti, lo strazio. Chi ha conosciuto gli orrori della seconda guerra mondiale ricorda quei momenti, ma sono ricordi che risalgono a più di sessant’anni fa. Quelli di Dunja Popin, 30 anni, serbocroata di Belgrado, non ne hanno più di sette. Lei sa che cosa significa vivere per tre mesi sotto i bombardamenti senza un rifugio e con l’acqua razionata. Era il 24 marzo 1999. Per la prima volta dopo la fine dell’ultimo conflitto mondiale nei cieli di una capitale europea spuntava il muso ostile dei cacciabombardieri. L’obiettivo era Belgrado, gli aerei – impegnati in un’azione offensiva contro uno Stato sovrano, a dispetto della Charta dell’Onu – erano quelli della Nato. Dunja, un nome dolcissimo che in serbo significa «mela cotogna», come prima cosa aveva paura di perdere il suo mosaico. Il ’99 era per lei l’ultimo anno d’Accademia di Belle Arti, aveva disegnato un pesce enorme e lo stava ricoprendo di pietruzze variopinte. La guerra civile nell’ex Jugoslavia andava avanti da otto anni, ma Belgrado non era mai stata toccata. I serbi erano riusciti a tenere il teatro di guerra lontano dalla capitale, ma non dalle coscienze. «Vivevamo nel grigiore, eravamo convinti che non c’era futuro per noi. E allora io, che avevo 23 anni, mi costruivo un mio mondo tutto colorato. Mi vergogno un po’ a dirlo, ma quando sentivo venire gli aerei tremavo per la paura che le vibrazioni del pavimento distruggessero le tessere del mio lavoro che non avevo ancora fissato con la colla». Chi se ne frega di Milosevic? A Dunja di Milosevic non gliene importava niente, sapeva che era un mascalzone, tanto è vero che nell’ottobre 2000 sarebbe scesa anche lei in piazza giorno e notte per denunciare i brogli della sua ultima elezione: «La Nato voleva colpire lui, ma ha colpito noi, lui l’ha rafforzato, prova ne sia che è rimasto al potere fino alla fine del 2000». Quando era cominciata la guerra civile, nel ’91, Dunja aveva 14 anni. «Non pensavamo che sarebbe durata tutti quegli anni, dicevamo: tra tre mesi finisce. Speravamo in qualche intervento esterno, qualche mediazione, qualcuno che dicesse basta. Pensavo anche che ci saremmo fermati da soli, mi sembrava una cosa impossibile, eravamo tutti fratelli fino a ieri». I bombardamenti della Nato in Serbia hanno fatto un migliaio di morti tra i civili, a causa anche di quei «danni collaterali» rigorosamente pianificati dagli americani e dai loro alleati per costringere la popolazione a rovesciare Milosevic: ne fecero le spese, tra gli altri, i passeggeri di un treno che si trovava a passare su un ponte della Serbia meridionale (55 non so perché c’è stata la guerra civile. Abbiamo fatto delle cose atroci». Durante la guerra Dunja e la sua famiglia hanno sofferto la fame. Un giorno vede il padre pittore uscire di casa con una sua tela ad olio sotto il braccio, un vaso di fiori. Quando rientra sotto il braccio ha un pezzo di lardo da sette chili. L’aveva scambiato con il quadro al mercato nero. «Sì, la cosa peggiore è stata la fame. Non avevamo niente. Non so come siamo riusciti a sopravvivere. Per gli otto anni della guerra ho mangiato lardo fritto e pane fatto con farina andata a male. Gli aiuti dell’Europa andavano soltanto ai rifugiati, i croati ricevevano cibo e armi dal Vaticano, noi niente. Se oggi sento l’odore di grasso di maiale muoio». La fame anche in Italia È un’esperienza, quella della fame, che farà anche in Italia. «Alla fine della guerra volevo soltanto fuggire dalla Serbia, non c’era lavoro, la vita era diventata carissima. Avere il visto per espatriare era difficile, qualcosa si trovava se si sceglieva l’Australia, il Canada, la Nuova Zelanda. Per fortuna ho vinto un concorso per un breve master in pittura a Firenze. Quando l’ho terminato ho deciso fermarmi qui in Italia. Sono venuta a Roma, dove avevo alcuni amici, per fare l’artista a tempo pieno. Come ho vissuto durante questi sei anni? Ho trascorso molti periodi difficili, ma ogni volta che rimanevo senza soldi o un tetto riuscivo miracolosamente a vendere qualche quadro e a tirare avanti. Il mio stomaco ricorda uno per uno questi momenti di tensione, ma se si tiene conto in quali condizioni e tempi ho vissuto nel mio paese per dieci anni non è difficile immaginare che per noi serbi la gastrite è come una bandiera nazionale, un segno di riconoscimento: chi ne è privo può tranquillamente essere considerato una spia, o almeno un intruso». Dunja dipinge acquerelli e fa mosaici marini. Quello che ha rischiato di andare a pezzi sotto le bombe, due metri per tre, l’ha venduto qualche anno fa. I più recenti si possono vedere sul suo sito on line (www.dunjapopin. com) e tra breve in una sua personale romana. A Roma si è fidanzata, dice di non avere nostalgia della Serbia, anche se le manca molto la neve. «Ogni volta che la vedo in televisione mi commuovo», dice. Torna raramente a Belgrado: «Costa troppo». Ma tutte le volte che ci va la sorprende vedere che negli occhi dei suoi concittadini c’è ancora la follia. «Io forse, grazie alla distanza, riesco a essere lucida e realista. Vedo che loro sono invece un po’ esaltati, oppure depressi cronici con cupi pensieri. Quegli anni ci hanno fatto diventare tutti un po’ matti. Siamo una generazione perduta. I nostri genitori erano ricchi e felici, viaggiavano all’estero, acquistavano appartamenti. Per noi solo fame e disoccupazione. Forse i nostri figli staranno meglio di noi. O forse i nostri nipoti». Quando riaccesero l’illuminazione delle strade a Belgrado dopo i mesi di bombardamento disse: «Guarda, Parigi!».

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