17 Gennaio 1993
l'Unità

Quanta voglia di autoriforma

Luisa Muraro

Il 22 dicembre, nella rubrica delle lettere, l’Unità ha pubblicato la lettera di un barone, cioè di un prof universitario ai vertici della carriera. E’ una lettera singolare. Spesso i giornali pubblicano lettere e servizi sull’università, il più delle volte per denunciarne qualche male. Anche questa lettera è di denuncia. Il suo autore, che si firma con nome, cognome e posto occupato all’università, scrive per denunciare i superprivilegi di cui egli gode insieme alla sua categoria, ben pagata, potente e garantita, e per farci sapere che questo stato di cose dura fin dalle origini dello Stato italiano e non è scalfito dalla situazione presente, che pure vede più o meno tutti in qualche difficoltà. Tutto qui. La cosa che colpisce è la mancanza di qualsiasi proposta. Perché mai uno espone la sua categoria all’invidia sociale e se stesso al sospetto dei suoi pari, se non è per proporre qualcosa che gli preme più del suo privilegio? O per spogliarsene pubblicamente, come fece san Francesco sulla piazza di Assisi. Consideriamo però il contesto. La lettera, in sé un atto di rottura di complicità, fa pensare a ciò che avviene, oggi, nella mafia, nei partiti politici e in altre consorterie, con la differenza che, nel caso in questione, non c’entra il codice penale. Questo è il punto interessante: sappiamo tutti che la preoccupazione di assicurarsi un vantaggio sociale è quanto basta per dare alimento a un sistema di tipo mafioso, ma nessuno considera che, alla fine, i conti potrebbero non tornare, nel senso che il vantaggio così assicurato, per alcuni può rivelarsi inferiore a ciò che si deve pagare in termini di dignità, di tranquillità, di gusto della vita.
Forse, c’è anche l’azione di questa superiore contabilità, e non soltanto quella della magistratura, nel terremoto che scuote un certo numero di botteghe del potere nel nostro paese. Forse, esiste anche una libera rottura di complicità, e noi corriamo il rischiò di non vederla.
E’ contro il rischio di questa ottusità, io ritengo, che il professore ha voluto scrivere la sua lettera. In effetti, quanti sono coloro che si trovano nella mafia o in altro sistema perverso di potere, senza veramente starci? Pensiamo a Sergio Moroni, il deputato socialista coinvolto nell’inchiesta Mani pulite, e suicida. Io non credo che il discrimine più significativo sia fra chi si è sporcato le mani e chi invece no. La magistratura deve fare il suo lavoro, che però è grossolano. Il discrimine fine, quello umanamente e politicamente più significativo, è fra chi si identifica con la sua consorteria (per dire: il giro del do ut des garantito) e chi invece si giustifica in un orizzonte più grande. Dispiace che un Sergio Moroni non abbia trovato altro che togliersi la vita per significare che lui stava nell’orizzonte più grande, però si capisce, io lo capisco.
Che cosa chiamo orizzonte più grande? Semplicemente, la vita pubblica. Della quale si sa che noi donne vi prendiamo una parte troppo piccola per quello che dovremmo. Ma si dovrebbe ancor più sapere e dire che non è vita pubblica quella cosa che gli uomini imbastiscono con lo scambio di favori per la salvaguardia di privilegi particolari, dandole magari nome di Stato, governo, democrazia, economia, cultura.
Perciò ha senso che uno scriva al suo giornale per marcare la distanza dai super privilegi attaccati alla sua funzione pubblica: lo fa per renderla veramente pubblica. Anche da questo punto di vista conta che qui non agisce la magistratura. Qui agisce invece la volontà di trasparenza e di consapevolezza, vissute come condizioni per avere esistenza pubblica. La lettera del professore è quindi anche un invito all’autoriforma. Invito implicito, si dirà. No, secondo me: invito apertissimo ma non verbale (a quelli verbali, chi crede più?), fatto a partire da sé, esponendosi alla luce del sole e alla sua azione.
Non è un caso isolato. Per restare all’università, il 25 novembre il manifesto ha pubblicato la testimonianza della prof. Laura Boella commissaria nei recenti concorsi, e il 31 ottobre il terzo programma Rai ha fatto conoscere la storia della dotto Luisa Busico che da anni combatte con il potere accademico-burocratico per cambiare il risultato, palesemente iniquo, di un concorso.
Fatto non comune, va detto. Il costume era di sopportare e tacere, come feci io stessa quando fui scavalcata da un candidato con titoli inferiori e seppi che le mie pubblicazioni non erano mai giunte sul tavolo della commissione: “perse” per strada… Il barone interpellato dalla giornalista Rai sul caso della dott.Busico, sapeva solo ripetere che sono incidenti fisiologici e che niente è cambiato. Lo ripeteva proprio perché non è vero; qualcosa infatti sta cambiando ed è il sentimento della necessità di autoriformarsi, che cresce. Oltre che dai segnali esterni, lo misuro in me stessa.
Anch’io lavoro all’università. Il mio posto, nella gerarchia accademica, è basso; questo fatto corrisponde, presumibilmente, al cattivo sistema di selezione del corpo docente. Ma “cattivo” da quale punto di vista? Se, come fa il professore della lettera all’Unità, parto da me, ossia da ciò che da me dipende, le cose da mettere in chiaro sono almeno due. In primo luogo, che io non sarei arrivata dove mi trovo, senza l’aiuto di una raccomandazione. Forse devo precisare che avevo titoli in sovrabbondanza; ma non sarebbero bastati. Per il passo ulteriore, i titoli sono sempre abbondanti ma non trovo raccomandazioni abbastanza forti. Non le trovo perché non ci sono, ed è questa la seconda chiarezza che devo fare. lo sono stata, come dire, intercettata da un sistema che ha le sue compatibilità. A questo punto tutto il più e il meglio cui aspiro, non mi verrà dalla carriera ma per altre vie. Come, di fatto, viene. Per esempio, quando non avevo ancora un mio insegnamento né potevo, per motivi di decoro, fare l'”assistente” di un cattedratico del mio istituto, per avere studenti ho aperto una libera scuola di filosofia nei locali della mia università. E se oggi, titolare di un insegnamento provvisorio e precario, non parlo in un’aula vuota, è perché guadagno le presenze opponendo la qualità del mio insegnamento alla logica fiscale. Alla stessa stregua, da anni faccio ricerca solo con donne che mettono la passione della ricerca sopra la preoccupazione della carriera, e ne sono ampiamente ripagata non soltanto dalla fecondità del nostro lavoro ma anche dal riconoscimento sociale.
Tutto questo che cos’è se non ‘autoriforma dell’università? L’università che io sono, minima quanto effettiva, riesce ad accordare l’ambizione personale con i superiori interessi della ricerca, presta agli alle studenti una non finta attenzione ed è aperta allo scambio con la società circostante. E una cosa rinforza l’altra, circolarmente. E ciascuna cosa si ottiene con un’equa contrattazione fra ambizioni, capacità e bisogni collettivi.
Tuttavia non basta. A questa riforma in stato nascente, io devo dare la mediazione che può rafforzarla, cioè dire il suo senso, senso che non è affatto ovvio. Nei recenti concorsi universitari le donne sono state discriminate ha chiesto Franca Chiaromonte alla prof. Boella (l’Unità 24 novembre 1992). Non metterei l’accento sulla discriminazione, ha risposto la docente, ma sulla questione di politica culturale che emerge ancora una volta dai concorsi. Io sono molto d’accordo con questa risposta, purché sia chiaro che si tratta ancora e anzi ancor più del mio essere donna. E’ politica culturale, infatti, anche il senso che sappiamo dare , (o dobbiamo sopportare) al fatto del nostro essere donne o uomini. Ma, certo, la questione della discriminazione delle donne non interpreta neanche lontanamente quella che è, oggi, la posta in gioco quando si tratta della presenza femminile nella vita pubblica. Anzi, la interpreta ma in un senso reazionario che ci riporta alle istanze di una cultura senza parola femminile. Oggi, la differenza femminile è qualificata da un movimento e da un sapere politico. Da una storia, da una tradizione. Perciò oggi il senso della presenza femminile, in università come negli altri luoghi della vita associata, si gioca non in un generico confronto con la presenza maschile, ma con un sistema di potere dominato da uomini che hanno semiprivatizzato la vita pubblica. E’come tale mi esclude: è un conflitto, non una discriminazione. Detto alla buona, in università io cerco non un posto qualsiasi o a qualsiasi condizione, ma posto per la donna poco raccomandabile che sono diventata agli occhi di un sistema molto maschile e quasi privato di gestire il potere.
Verso il quale, in passato ho potuto sentirmi inadeguata o estranea, mentre oggi lo giudico e, insieme ad altre e altri, mi pongo come sua riformatrice.

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