27 Gennaio 2023

Raccontare i traumi è fare politica

di Antonella Nappi


L’articolo Cambiare le adozioni per tutelare gli orfani di femminicidio (Gianluca Di Feo, La Repubblica 13 gennaio 2023), così chiaro nella dichiarazione dei giudici – “Le criticità principali di zio e prozio,” a cui sono stati affidati i bambini piccoli che hanno perso i genitori perché il padre ha ucciso la madre, “consistono nella incapacità di accogliere gli aspetti depressivi dei bambini e di riferirli al trauma, cercando di porre fine in fretta ai momenti di crisi riportando ad altro le cause” –mi ha spalancata una questione personale.

La rimozione del dramma non avrebbe permesso ai bambini di affrontarlo e superarlo negli anni, è stata la questione principale della mia esistenza; ho rivisitato biograficamente il tema dell’articolo e ho compreso mia madre, me e mio padre nel nostro pervicace silenzio tutta la vita. Il silenzio di chi non può elaborare i traumi, né aiutare altri a farlo. La donna del mare di Ibsen racconta di questo silenzio tra lui, la nuova moglie e le figlie. E alfine riescono a rompere l’isolamento tra loro.

Nonostante i molti anni di analisi e la soluzione di molti problemi non avevo compreso il complessivo contesto nel quale ero vissuta non solo da bambina ma tutta la vita. Una cosa veniva superata e un’altra, ma il cammino continuava a essere nelle tenebre anche dopo le terapie, non avevo mai focalizzato il perché di tante sofferenze anche dopo le prime, e le successive, il continuare a muovermi in un mare tempestoso, la grande difficoltà di individuarmi.

E qualcuna teorizza che dall’io ci si debba allontanare! Sì, se l’hai ben saldo. L’impossibilità di elaborare i traumi, proviene da chi ti sta vicino se te lo impedisce in mille modi perché egli stesso è incosciente di che cosa lo frena e lo manipola, di che cosa lo obbliga a manipolare gli altri. In pratica a fuggire dal mettersi in discussione.

Per l’infanzia e anche per la politica è un fatto centrale aprirsi al dolore, mettersi in discussione, dipende da questa paura.

Sappiamo quanto è vero e quanto ne abbiamo parlato, anche a sproposito: perché il fastidio verso chi si lamenta, un po’ teorizzato tra alcune femministe (in Libreria), ha tutte le giustificazioni di chi non può essere terapeuta con quella o l’altra a ogni riunione ma sfugge una problematica centrale della politica. Le persone possono imparare da te tanto, ma se non sono loro stesse a maturare una questione, saranno sempre poco capaci di difendere le tue stesse posizioni. Devono creare le loro posizioni. Se come molte persone hanno subito traumi devono parlarne.

Ho vissuto il conflitto dei miei genitori non potendo fare da intermediaria perché è iniziato prima che io nascessi. Lei lo sposò per uscire di casa, aveva diciotto anni. Lui la mise a fare i conti della spesa con grande pignoleria, indi a correggere le bozze che scriveva per il suo libro. Ma soprattutto, anche durante il giorno, voleva approfittare dell’avere una moglie e per pochi minuti ripeteva i rapporti sessuali che continuarono durante tutta la gravidanza. Era scritto in un pezzetto della biografia che mia madre strappò prima di morire e ne lessi postuma quel che rimase. Alla Liberazione, io avevo appena compiuto due anni, mia madre se ne andò di casa assieme a me.

Mia madre non raccontava. Non voleva farmi i suoi racconti di odio per mio padre. Ma l’odio e la disperazione per tutto quanto successe dopo quella fuga, straboccavano incontenibili dai suoi pianti; negli anni successivi bastava un piccolo accenno alla sua storia. Così non ho saputo mai nulla che potesse essere discusso e ragionato. Ho saputo tutto come uno stato incombente e terrorizzante, una aspettativa di morte celata dalla presenza di una parete di nebbia impenetrabile. In quella parete era nascosto il mio mondo. Sognai da adulta una bambina truce, assassina o assassinata che mi fece molta paura. Questo muro lo vedevo bene nella mia vita con mia madre, era in casa ma bisognava far finta di niente. Non domandare, non parlare, sbottava a piangere e la colpa era mia, non dovevo tormentarla, mi diceva.

Da mio padre il muro era esterno alla casa. Fuori non sapevo che cosa ci fosse, se mia madre esistesse, se avesse fame, che noi mangiavamo tanto. Se soffrisse. No, che soffrisse lo sapevo, forse perché avevo sofferto io nell’essere stata rapita a lei poco dopo il nostro allontanamento dalla casa di mio padre. Lo sapevo anche perché l’avevo vista piangere e scappare quando eravamo nello studio del nonno, quando c’era il giudice amico di lui, quando mi fecero entrare nella stanza come fossi io a rompere la norma – prima dei sei anni i bambini non possono essere ascoltati dal giudice – come fossi capitata dentro spinta dalla voglia di dire che volevo stare con mio padre. Mi avevano tirata fuori a forza da sotto il letto della nonna che viveva a fianco dello studio, mi avevano ripetuto che dovevo farlo anche se non volevo, altrimenti sarei stata mandata in collegio, in un posto dove non avrei più potuto vivere con papà. Neppure la mamma avrei visto, che già non vedevo da diverso tempo.

La vidi quell’attimo che mi buttarono dentro, la vidi che era il mio sogno, la femmina a cui mi sarei abbarbicata. Finalmente la vedevo: una mamma nella bellezza dei suoi ventitré anni, con il viso rapito e felice nell’individuarmi. L’attimo me lo avevano preavvertito e proibito. Non dovevo guardare a sinistra ma guardare a destra e da quella parte correre. Dovevo andare da mio padre, seduto vicino al giudice e dire quello che dovevo dire.

La mia vita continuò solitaria accompagnata dall’attesa. Fuori non c’era la mamma in nessun luogo. Non all’asilo dove mi rifiutai di stare dopo un’ora passata contro il muro, in un angolo del gabinetto. Non alla scuola elementare dove a volte mi addormentavo cullata dalla voce della maestra. Altre volte vedevo le torture inflitte a quella bambina che aveva rubato, o l’interrogatorio all’altra piena di lividi per farle confessare chi l’avesse picchiata – era stato il padre portinaio. La lezione di canto è un ricordo quasi bello; la fatica di partecipare e di essere a scuola mi aveva portato un regalo: brava, sei intonata!

Fuori della scuola il papà con la macchina guidava svelto, il braccio teso a tenermi perché abbiamo sbattuto contro il tram, un grande spavento. Ma soprattutto il papà a casa che torna dall’ufficio, un quarto d’ora assieme, lui mangia sul carrello a fronte del mio letto. Io sempre malata, a volte finta malata, io a casa perché insonne, vomito appena alzata e riesco a non uscire. Fuori c’è solo pericolo, solitudine e le sgridate, i due con due segni di meno dei compiti.

La seconda volta che faccio la quinta elementare sono in un’altra scuola, anche la mamma qualche volta è venuta a prendermi. In ritardo perché molto indaffarata. Non ci vado molto a scuola e l’anno successivo vado alle medie dalle suore, vicino alla casa di mio padre. Ci vado di più, faccio anche la capoclasse a volte se la maestra deve assentarsi. I libriccini d’avorio con i disegni a cornice della messa sono una gioia, si gioca anche a palla e si fa il quadro svedese. Purtroppo vado ancora troppo poco e la maestra di economia domestica non accetta la mia dichiarazione che il cappellino del bambolotto, a maglia, sia fatto da me, è fatto a macchina e io mi oppongo, non ammetto la bugia e così il rapporto si rompe. Ma da lei ho imparato molto, a togliere le macchie di inchiostro, a mettere la mano davanti alla bocca se starnutisci, ho visto i filmati del fascismo – verranno usati per molti anni dopo la caduta – sono bellissimi e chiari, insegnano l’igiene in casa e fuori. Con il raffreddore non si abbracciano gli altri; non si mettono le mani in bocca mai, lavarle è importante e quando si è malati si rimane in casa, non possono entrare in camera i bambini e a volte con la bocca e naso coperti ti possono fare un salutino dalla porta.

Le malattie furono tante e la solitudine tanta. Lo sconforto che mi aggrediva per qualsiasi rimprovero, per ogni non approvazione dalle bambine del palazzo o dagli adulti, mi facevano rinunciare agli incontri, anche al gioco. Stavo sul letto al buio, piangevo infinitamente, invocando la mamma tra me e me. Non potevo che invocarla piano perché non c’era e neppure chiamarla al telefono: eppure c’era già il duplex. Era lei a chiamare qualche volta, non c’era da aspettare una telefonata. La mamma non c’era e il papà rincasava alle otto meno un quarto che io spesso mi ero addormentata per passare le ultime ore del pomeriggio. (Continunerà…)


(www.libreriadelledonne.it, 27 gennaio 2023)

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