Ida Dominijanni
«Quando i gay e le lesbiche della costa californiana, a partire dal 1965-70, vollero diventare genitori, inventarono una cultura della famiglia che non era, per molti aspetti, che la perpetuazione del modello che avevano contestato e che era già in piena trasformazione. Ed è proprio perché questa cultura portava con sé un grande desiderio di normatività che fu accolta come la peggiore delle ferite inflitte all’ordine simbolico». Ne La famiglia in disordine (Meltemi 2006), un libro intelligente e di questi tempi assai consigliabile della psicoanalista francese Elisabeth Roudinesco, i/le omosessuali entrano in scena solo alla fine, nel capitolo dedicato alla famiglia a venire che chiude la sua illuminante ricostruzione di una crisi della famiglia tradizionale cominciata, come vedremo fra poco, almeno un paio di secoli fa. Ma intanto l’osservazione appena citata di Roudinesco è illuminante per capire quello che di reale e di fantasmatico si agita oggi in Italia attorno alla pur modesta proposta dei Dico. Sul «desiderio di normatività» che muove le richieste di legalizzazione delle coppie omosessuali circola oggi infatti un legittimo interrogativo nella cultura radicale che dagli anni Sessanta in poi si è nutrita di contestazione dell’istituto familiare e matrimoniale, a molti e molte – compresa chi scrive – quel desiderio di norma sembrando in contraddizione con la trasgressività del desiderio omosessuale. Roudinesco risponde però che è proprio quella domanda di norma, e di normalità, a mettere in crisi la norma e la normalità dell’ordine familiare, come se ne minacciasse il monopolio. Non solo: suggerisce che nell’allarme omofobico che si leva da ogni dove agisce, più che l’intolleranza per la sessualità «diversa» dei gay e delle lesbiche, il panico per la loro possibile genitorialità.
Per quanto siano stati per secoli «perseguitati, trattati da paria, invertiti, uraniani, sodomiti, poveri diavoli, omofili, pederasti, povere diavole, tramatrici», gli /le omosessuali, argomenta Roudinesco, sono stati tuttavia relativamente tollerati finché si sono tenuti nell’ombra della sfera privata e si sono attenuti all’interdizione di procreare. Ma se alla rivendicazione e alla politicizzazione di una sessualità «diversa» si aggiunge «il rifiuto di piegarsi alle regole della procreazione naturale», allora il gioco si fa duro: il tabu che si infrange non è più solo quello della norma eterosessuale, ma quello della procreazione naturale che procede dall’accoppiamento di un uomo e di una donna. Più dell’omosessualità dunque, è proprio la famiglia omosessuale, o il suo fantasma, a scatenare le reazioni fobiche di un ordine socio-simbolico che si sente minacciato in una sua colonna portante.
Non solo dal versante dell’omosessualità, del resto. Nell’interpretazione di Roudinesco, dicevamo, la «minaccia» omosessuale all’ordine familiare è l’ultima tappa di una parabola di crisi della famiglia che comincia a fine Settecento con la Rivoluzione francese ed esplode a fine Novecento con la rivoluzione tecnologica della procreazione assistita. Protagonisti di questa parabola sono per un verso la crisi progressiva dell’autorità paterna: dal «Dio-padre» della famiglia pre-moderna al patriarca secolarizzato del contratto sociale, dal «patriarca mutilato» dalla ribellione dei figli e dall’emancipazione femminile che Freud registra nel teorema dell’Edipo e che abita la società novecentesca all’eclissi del padre (e del patriarcato) delle società post-femministe di oggi. E per l’altro verso, il processo di emancipazione e l’irruzione novecentesca della libertà femminile, con quello che ne consegue per la separazione della sessualità dalla procreazione e per il rilievo centrale che la figura materna assume a fronte del declino di quella paterna. «L’ordine naturale della procreazione» si ritrova dunque attaccato, a fine Novecento, sia sul fronte delle relazioni eterosessuali sia sul fronte delle relazioni omosessuali. Ed è questo il vero fantasma che agita oggi i sonni della Chiesa e dell’esercito neo e teocon mobilitato a difesa della famiglia tradizionale.
Si spiega facilmente, in questa prospettiva, la doppia crociata che il Vaticano ha lanciato in Italia prima contro la procreazione assistita, poi contro la famiglia omosessuale, nell’un caso e nell’altro la posta in gioco essendo per l’appunto la difesa dell’ordine procreativo naturale. E si spiega facilmente anche come nelle analisi sociologiche di stampo tradizionalista sullo stato della famiglia la preoccupazione numero uno sia rappresentata, più che dalle trasformazioni delle tipologie familiari, dal declino della natalità e della «ambizione» di mettere al mondo dei figli. Illuminante in questo senso La fine della famiglia di Franco Volpi (Mondadori 2007), un’indagine statistico-valoriale che guarda con occhi desolati al mutamento in corso, diagnosticandolo come ineluttabile declino dell’istituzione familiare. Due cause, scrive Volpi, concorrono a questo declino: la «riduzione ai minimi termini» del numero di figli all’interno dei nuclei «regolari» e l’aumento delle tipologie familiari (single e coppie) senza figli (nel censimento 2001, su 100 famiglie 25 sono unipersonali, 22 sono costituite da coppie senza figli, 43 da coppie con figli ma con una media di 1,11 figli per coppia, un valore costantemente in picchiata negli ultimi trent’anni). Non solo: prima che la spinta a procreare, nell’Italia di oggi manca la spinta ad accoppiarsi: la famiglia che resiste è solo quella di provenienza. Conclusione: «Hanno vinto i celibi e le nubili, i trentenni che vivono ancora in famiglia come figli, le coppie di una sola persona e quelle senza figli». E perso l’ancoraggio ai figli, la famiglia perde peso, senso e prestigio, e l’individualismo trionfa.
Ma è davvero così? O è piuttosto l’ottica familista a non saper più rendere conto delle nuove declinazioni della famiglia e delle relazioni affettive che in essa maturano? Guardando l’insieme del quadro dal punto di osservazione delle madri sole, Franca Bimbi (e Rossana Trifiletti, Madri sole e nuove famiglie, Edizioni lavoro, 2006) arriva a tutt’altre conclusioni: l’indagine sui nuclei monoparentali mostra non una famiglia incompleta o impoverita, ma al contrario un universo articolato «in cui le relazioni di cura e i legami sembrano moltiplicarsi», uscendo dai confini stretti della coabitazione della famiglia «regolare» nucleare e dalla coincidenza obbligata fra il suo perimetro biologico, affettivo e giuridico. Dove l’analisi tradizionale vede processi di de-familiarizzazione, si può intravedere al contrario un ritorno in forme nuove della famiglia allargata di un tempo: a dimostrazione che «il presente contiene più passato di quel che non appaia, mentre il futuro spesso ci sorprende anche quando sembra ripetere il già noto».
A condizione, s’intende, di lasciarsi sorprendere; e dunque di guardare al mutamento familiare e sociale con occhi sgombri da pregiudizi e ideologie, apocalittiche o progressiste che siano. Non c’è fine ma trasformazione della famiglia in corso. E se non c’è una norma a cui adeguarsi, nemmeno ci può essere una normalizzazione a cui aspirare. Più che famiglie da catalogare e giudicare, ci sono soggettività ed esperienze differenti da far parlare e da ascoltare. Come scrive Roudinesco, «di fronte al vasto cimitero di riferimenti patriarcali abbandonati» o aggressivamente resuscitati – esercito, Chiesa, nazione, partito – la famiglia può morire anch’essa, o viceversa ritrovare la sua generatività simbolica: ma a patto di essere «di nuovo reinventata».