25 Settembre 2004

Scuola: un tempo pieno di vita

Ancora cinque minuti
Cristina Mecenero maestra elementare – scuola a tempo pieno di Milano

“Ancora cinque minuti”: questa è la lingua che parlano i bambini e le bambini. Ancora cinque minuti, e cioè lasciami in questa cosa che mi piace, che mi fa stare bene, di cui ho voglia. E’ anche una richiesta che crea un ponte immediato tra il nostro tempo di adulti e quello loro di infanti. Significa: ricordati che non mi interessa sempre cambiare, che sto bene ora e il resto per me può aspettare, non mi incalzare troppo se no mi perdo, l’efficienza tienitela per te, da me prendi questo tempo che afferro e stringo e non voglio mollare, ricordati anche tu di stringere ogni tanto il tempo e di non lasciarlo andare. Ricordati che con me dovrai sempre un po’ mercanteggiare: “ancora un po’”, no dobbiamo andare, “ancora dieci minuti”, no cinque, “allora ancora cinque minuti”… siamo al mercato dell’incontro tra generazioni, tu dai una forma alla mia giornata, io ti chiedo di riadattarla, di risagomarla. Per esempio chiedendoti di ascoltare i miei basta. I bambini dicono basta in vari modi. A volte sono proprio dei “no, adesso basta” chiari e netti. Senza equivoci. Spesso lo dicono senza parole. Improvvisamente rumoreggiano, si fanno catturatre da altro, come diciamo noi. E altro è un piacere del momento migliore.

 

La scuola, la nostra vita è una questione di tempo, con tutto ciò che può significare. E’ una questione che interroga, noi maestre, noi donne adulte, uomini adulti, di scuola, ma non solo, donne e uomini di questa città e di questo momento storico. E’ anche un po’ un giallo perché per certi versi non c’è più tempo.
Il tempo è senso, il tempo è scelta, è la forma della nostra libertà. Per me il tempo è presenza, è sentirmi contemporanea; sentirmi contemporanea vuol dire avere una tensione interiore a stare lucidamente nel mio tempo, e questo si declina almeno in due campi. Con i bambini sto protesa verso le atmosfere che si creano tra noi, è il campo dell’attenzione sottile. Vuol dire non avere pace se sento che si annoiano, se non c’è lavorio di scoperta di sé e degli altri, se non ci sono momenti magici di piacere e godimento. Poi c’è il campo della contemporaneità storica, anzi è meglio dire della contemporaneità politica, per cui sono qui con voi ora a parlare di tempo come spazio di azione di libertà, come spazio di rivoluzioni e cambiamenti. O sono con Vita e Clara a pensare iniziative che ci facciano del bene tenuto conto di chi siamo noi oggi come maestre e delle riforme che vengono proposte. La contemporaneità politica è anche quel continuare a fare ponte tra ciò che accade in Italia, e nel resto del mondo, non solo arabo, e la mia classe. E’ nel mio tempo libero leggere i giornali per un po’ e per un po’ la letteratura di infanzia. E’ continuare a leggere a lume di candela in classe, per far esistere la magia, il rito, invece che parlare di Ossezia se loro non me ne parlano, fino a che loro non me ne parlano. E’ sentire Denis che mi dice, dopo che ho letto all’aperto e loro ascoltavano sdraiati sull’erba, “mi sono sentito in paradiso Cristina. Tu che leggevi e il cielo sopra di me con gli alberi che erano mossi dal vento”.
Il mio discorso sul tempo lo faccio con il senso del presente, cioè di ciò che ancora è possibile ora perché ancora lo vivo, perché ancora siamo qui a pensarlo insieme e di ciò che ritengo un fondamento per fare bene la maestra, ed è anche in questo che si traduce il mio essere contemporanea.
Ho presente che in molte scuole elementari la riforma si sta già attuando, ho presente che nella mia abbiamo gìà un inssegnante in meno, e proprio su questo sfondo il mio interesse è fare luce su ciò che faccio/facciamo che va in un’altra direzione e come fare per continuare a potere praticarlo, per esempio il senso potente di coinvolgere le mamme e i papà a rigiocare insieme quello che vogliamo sia la scuola, il senso potente di essere comunità pensante intorno a questi temi.

 

C’è la tendenza alla scomparsa dei tempi, quelli diversi che ogni fase della vita ha. L’efficienza, il fare tanto, il tentativo continuo di riempire di utilità gli spazi temporali sono una cornice-gabbia molto robusta che finisce per creare un solo tipo di tempo possibile anche a scuola, se non ci si sta attenti. Un solo tipo di tempo possibile per tutti. E lo sono anche per me, io voglio riempire di qualità e cose intense, ma è una trappola anche quella.
Capita che quando esco con il gruppetto di sei che non fanno religione mi accorgo che per loro più del fare è urgente parlare con gli altri, ridere, anche giocare, e non c’è verso di vedere Azzurra, una bambina super produttiva, produrre con le stesse modalità di quando è in classe con tutti. Ma loro lì sentono che c’è possibilità di un altro tempo. E passano all’azione. E la fatica è più mia a comprendere ciò che sta capitando. Perché il mio ideale di efficienza dice che meno si è più si può fare. Ma con loro ho imparato che non è così. Per la maggior parte la massificazione dell’attività con tutta la classe comporta una temporalità più stringente a cui ci si adegua.
Personalmente ho sentito nell’ultimo anno di non avere più a disposizione la stessa quantità di minuti ore giorni che sentivo di avere negli anni precedenti, ho sentito cioè che era in corso un’accelerazione sempre più frenetica. Non so dire ancora molto di questo per il momento. Adesso qualcosa di quel mio sentire è già cambiato. Ho pensato che entrando in una nuova fase della vita, avendo raggiunto i quaranta, respiro il tempo dell’esistenza in un altro modo, e forse la capacità di vedere tante possibilità, tante cose che hanno bisogno di cura, mi ha schiacciato finora, anche congiungendosi con le preoccupazioni di cambiamenti negativi possibili nella scuola e nel mondo. Mi sono dovuta ritarare forse anche perché mentre prima pensavo che ciò che sceglievo di fare, ciò che desideravo fare, bastava farlo e tutto sarebbe andato per il meglio, ora penso che posso avere anche delle buone intuizioni, delle buone idee ma le cose possono andare a volte meglio a volte peggio. Allora il tempo mi è sembrato più stretto di come lo vedevo prima. Insomma sto assumendo dentro di me di più il peso del rischio. E attraverso questa ricerca di un buon tempo per me, sento che con i bambini voglio essere ancora più radicale. Più radicalmente adulta e radicalmente capacace di fare esperienze di gioia con l’infanzia.
Mentre sentivo che il tempo mi veniva a mancare, ho avuto anche davvero la sensazione che stesse capitando qualcosa un po’ a tutti, cioè tutte le adulte e gli adulti che avevo vicino non trovassero più il loro tempo.
In apparenza qualcuno sta rubando il tempo, come succede in quel libro di Ende, Momo, in cui i signori grigi rubano il tempo agli adulti per poter dar consistenza alla loro vita, e se è abbastanza facile fregarli gli adulti, il progetto degli uomini grigi si imbatte in un problema: il tempo dei bambini. Quello è più difficile da rapinare. Momo, la protagonista della storia, è una bambina che aiuta il mondo a ritrovare il tempo, a partire da un dono che ha: sa ascoltare. Che poi significa che sa stare nel tempo presente, sa stare in relazione a chi ha di fronte per quello che c’è, per quello che l’altro ha da portare, e l’altro proprio perché è chiamato ad esserci per quello che è, finisce per essere se stesso e per fare risuonare le proprie note soggettive.
Quel libro è una bella metafora sul rapporto tra il mondo adulto e il mondo dell’infanzia. Un po’ è come se ci dicesse: se non riuscite a uscire dall’ingranaggio della contrazione del tempo, della rapida successione, state a fianco di bambine e bambini e immergetevi nel loro tempo. Ricordate che esiste quella modalità di essere nella vita che tutti avete sperimentato da piccoli e che continua a essere sperimentata dai piccoli di oggi.
A stare a fianco delle bambine e dei bambini io mi sento chiamata a piegare la mia curva temporale verso la lentezza, la ripetizione, il cambiar programma per imprevisti insorti improvvisamente, la risata, oppure la rabbia delle provocazioni che neanche sanno di essere tali. Chiamata a piegare la mia curva temporale verso il piacere. E a continuare ad andare e tornare tra due modi diversi di stare nello scorrere del tempo. Il loro è immaginifico, è fantastico, è l’essere catturati dalla presa del momento. Scrive Peter Hoeg, attimi che durano un’eternità, per esempio immaginate un bambino, sta facendo pittura con la sua classe, con le sue maestre, in un laboratorio che è nei sotterranei della scuola, una scuola in centro a Milano, e a un certo punto arriva al lavandino a svuotare un vasetto pieno di acqua ormai molto colorata. In un attimo è come rapito dall’acqua pulita e limpida con cui riempie il vasetto e poi la rovescia lentamente e continua a riempire a e a svuotare, e a un certo altro punto inizia ad accompagnare il movimento di restituzione dell’acqua al lavandino con delle parole: “pioggia, pioggia, pioggia” appena sussurrate. Sta capitando qualcosa per lui. Che cosa? E’ entrato in un altro tempo.
Cercare il rapporto tra il vuoto e il modo in cui il tempo scorre: scrive così Simone Weil in uno dei suoi quaderni. Per noi come scorre? per noi adulti il tempo viaggia a una velocità inadatta all’infanzia, di questo dovremmo ricordarci quando pensiamo a programmi organizzativi per gli spazi scolastici. E del vuoto che dire? È silenzio, è pausa, è non programmare. E’ un po’ il fiato sospeso che sento di avere subito prima che inizi qualcosa di nuovo con loro, quello spazio di indugio in cui mi chiedo se funzionerà oppure no. E’ l’indugiare quando non senti di poter partire con qualcosa di nuovo. E’ l’attesa che qualcuno dica qualcosa per poter riaggiustare il tiro.
Per noi maestre? Il nostro modo di fare scorrere il tempo a volte è più felice e a volte è più sofferto.
Più sofferto: “dai, muoviti, fai presto. Non c’è più tempo, non riusciamo a fare quei lavori, quelle attività, non abbiamo abbastanza tempo”.

 

Annaspiamo, sentiamo l’ansia montare, il terreno su cui appoggiavamo i piedi fino a un attimo prima è cancellato con un colpo di spugna, sotto di noi la visione di un pavimento trasparente, scivoloso, artificiale, su cui vediamo riflesso solo lo spazio dell’aula e l’elenco delle cose non fatte.
Non c’è abbastanza tempo può significare varie cose: non si è abbastanza signore del tempo, cioè non si riesce a giocare la propria libertà. La programmazione allora è un mostro a cui si immola in sacrificio la propria capacità umana di sentire cosa funziona e cosa non funziona. Molte volte è per paura: di perdere il controllo in mezzo a un sapere che è sempre più vasto e sempre più frammentato. Di venire giudicate dai genitori come non abbastanza professioniste. Di muoversi in territori che non sai dove porteranno esattamente. Di non preparare i bambini, e dietro a ciò bisogna leggere la preoccupazione di molte donne di dare qualcosa che aiuti effettivamente le piccole creature a stare nel mondo.
Oppure si vogliono fare molte cose con le bambine e i bambini, perché si sente, si sa che ce n’è bisogno. Ma allora è necessario quel lavorio interno anche raffinato per fare ordine: cosa è più importante ora? Cosa scelgo?
Io ho messo a punto un paio di criteri. Il primo è di portare a compimento ciò che ha avuto inizio, non lasciare aperto e in sospeso ciò che è già stato avviato. Cosa significa in pratica? Che un lavoro si inizia e si finisce anche se prende molto più tempo del previsto.
E anche consumare le cose che si avviano, lasciandole così senza dirsi nulla, passando ad altro coe cambiare canale; ma non finire a tutti i costi: se la cosa va storta mollarla, sempre dicendolo. Il secondo: scegliere ciò che produce di più l’effetto del “pioggia pioggia”, cioè quella specie di estraneamento dovuto a godimento. Anche dentro di me.
A me è più difficile tenere fede al primo, perché se nel frattempo si sono aperti scorci di altre progettualità molto entusiasmanti, ho voglia di andare lì, e perché ciò che mi capita stando a fianco ai bambini è di accendermi di centinaia di idee in simultanea. Il secondo è complesso di per sè: significa continuare ad abbandonare schemi fissi di attività, significa stare nell’evoluzione di ciò che capita con loro. E perché farlo? Perché credo che il mio mestiere non possa prescindere da quello stare nel mercato con le bambine e i bambini che loro stessi mi propongono in quasi ogni occasione. Perché è solo così che sento la vitalità del nostro stare insieme.
Non c’è abbastanza tempo può significare però anche una contingenza effettiva. Ancora parole di Simone Weil: il tempo irriducibile necessario a una cosa e il tempo accordato dalle circostanze. Due cronologie che molto spesso sono lontane dal concordare. Noi diciamo che con la riforma il tempo accordato dalle circostanze è talmente reso critico che viene minata alla base sempre più la possibilità della concordanza. Questa problematica della concordanza non nasce ora; sebbene io insegni in una scuola a tempo pieno da vent’anni, negli anni la richiesta di riempire questo tempo scolastico si è sempre più intensificata, e io come molte altre ho finito per sentirmi con l’acqua alla gola.
La nuova riforma amplifica il divario tra necessità e circostanze. La situazione si è fatta più grave ora, ma io mi sento più forte, (noi siamo più forti) per rigiocare i nostri sensi in questa partita sociale sulla forma da dare alla scuola di base, e non solo. La forza la prendo dall’esperienza di questi ultimi anni in classe e dal sentirmi io una maestra politica, che insieme ad altre e altri lavora avendo cognizione del significato esistenziale del nostro mestiere.
Dall’esperienza ricavo questo: si può fare la maestra senza programmare, e anzi nella scelta di non programmare, di non utilizzare più nemmeno questo termine, si gioca il mio modo di essere contemporanea, cioè di mettere innanzi tutto il mio desiderio di esserci, di essere presente con le bambine ei bambini con il desiderio di dare una buona forma alla nostra vita. Non sono per lo spontaneismo selvaggio; abbandonata la programmazione, mi sono dedicata alla ricerca e al pensare insieme ad altre maestre amiche, tenendo conto anche di ciò che ricavo dal dialogo a con le mamme e i papà della mia classe, che quando mi dicono cosa raccontano o non raccontano i loro figli di ciò che facciamo a scuola, o mi descrivono che cosa succede con i compiti a csa, mi aiutano a vedere meglio la strada su cui continuare.
Ecco io chiudo con questo spostamento: più libera, radicale e presente e dialogante. Voglio lottare per questo.

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