Bia Sarasini
Sorridente e carina la ragazza fa capolino sulla sinistra della foto, guarda l’obiettivo e alza i pollici, in segno di vittoria. Come una qualunque coetanea in giro per il mondo. Vestita casual ma alla moda, cioè maglietta e pantaloni nei colori militari/mimetici così diffusi in questo tempo di guerra. Solo che lei è proprio un soldato, lo si capisce perchè al centro della fotoricordo non c’è un monumento, ma il corpo nudo e scuro di un uomo incapucciato, che alza la mani sulla testa. Un prigioniero irakeno, uno di quelli torturati nella prigione di Abu Ghraib. Questa ragazza graziosa e dall’aspetto da “ragazza della porta accanto” vuole ricordare come ha “vinto” (umiliato, ridotto a cosa) questo nemico. A capo della prigione era, come si sa, una donna, la generale di brigata Janis Karpinsky. Sospesa dall’incarico, ha dichiarato di essere rimasta sconvolta, quando ha visto le foto, e di ignorare tutto di quanto avveniva nella prigione: “Ho pensato che quelle erano persone cattive”. Sul Manifesto di oggi Ida Dominijanni scrive: “Il caso Karpinsky vanifica qualunque visione essenzialista della differenza fra i sessi, esattamente come vanifica qualsiasi fede feticista nella democrazia”.
Sottoscrivo. Ma intuisco qualcosa di peggio: mi ci spinge quella ragazza così incosciente, nel suo sorriso. Che nella mia testa non so proprio tenere insieme con il corpo umiliato del prigioniero, e mi provoca una deflagrazione, un vuoto di senso. Ancora più delle kamikaze, di cui almeno riesco a percepire la determinazione della vittima alla vendetta. E’ un punto di non ritorno. Fare la guerra, il perseguire fino alle estreme conseguenze gli obiettivi di emancipazione e parità, per cui partecipare alle azioni in prima persona diventa una meta da raggiungere , è un’esperienza pericolosa. Non si tratta solo di donne “cattive”. Mi chiedo cosa succede quando donne scelgono sempre più numerose di sperimentare il lato maschile dell’identità, di assumere la forza in prima persona. E’ un mutamento devastante. Per l’assetto del mondo, temo.
P.S.
Il Washington Post pubblica in prima pagina una nuova foto delle torture ai prigionieri irakeni. Inguardabile. La giovane donna, la stessa che abbiamo già visto in altre foto, tiene al guinzaglio un prigioniero nudo, buttato per terra. Ora sappiamo tutto di lei. Si chiama Lynndie England, ha 21 anni, viene dal West Virginia, è divorziata. Un’altra che, come la “buona” Jessica Lynch, era partita per l’Irak con l’obiettivo di pagarsi il college. E’ agli arresti come il suo boy-friend Charles Garner, con cui compare abbracciata in una delle foto davanti ai prigionieri-trofeo. Sappiamo che ha una madre, che la difende. E un padre che ha avuto lo shock di riconoscerla nelle foto. Sono molti i commenti alle immagini e alle torture. E dure le conseguenze politiche. Nell’editoriale di oggi il New York Times chiede le dimissioni del segretario alla difesa Rumsfield; è a rischio la popolarità del presidente Bush. Ma se tutti, nelle cronache e nei commenti, registrano la presenza di questa ragazza minuta e sorridente, solo Donna Britt, sul Washington Post, affronta il tema della donna torturatrice e crudele. L’analisi è dura, parla della fine dell’equivoco, sulla pretesa azione civilizzatrice delle donne nell’esercito, dei tanti uomini pacifisti, e conclude: “Forse la festa della mamma non rimarrà a lungo una prerogativa delle donne”