Marirì Martinengo
L’incontro di Paestum (5-7 ottobre 2012) ha rappresentato per me la conferma della validità della pratica politica che esercitiamo nel gruppo di storia vivente.
Io mi sono interessata alla storia, ormai da molti anni, a partire dal mio desiderio, provenivo però dalla politica non facevo parte dell’accademia e l’essere considerata storica è stato un lento, faticato, conteso guadagno, un risultato di acquisizione abbastanza recente.
Nella mia ricerca non ho mai abbandonato le mie radici politiche che si avviluppano e si sviluppano di pari passo con la passione per le figure e le vicende soprattutto del passato. Per cui appare chiaro come io abbia accolto con gioia la meta di Paestum, scorgendovi un connubio ideale, un’appagante completezza.
La scelta da parte di noi femministe di ritrovarci a Paestum è molto significativa: la polis, splendida testimonianza di una storia millenaria e incrocio anticamente di scambi culturali e di attività politica fra cittadini nelle diverse epoche, ha rinnovato la sua vocazione da quando, è divenuta dal 1976, anno del nostro primo incontro, luogo evocativo di intreccio fra la nostra storia e la nostra politica.
Anche la pratica della storia vivente è un inscindibile intreccio fra storia e politica, fra storia vivente e politica delle donne.
Mi spiego: il nostro obiettivo primario è certamente quello di arrivare a una visione e conseguente successiva trascrizione femminile di una storia a partire da sé, dal profondo di sé, ma nello stesso tempo portiamo avanti la politica delle donne.
La pratica della storia vivente consiste nello scavo, in relazione con le altre, dei nodi irrisolti che giacciono dentro ciascuna, privi di lettura e di interpretazione; durante gli incontri mensili ognuna racconta di sé alle altre, tratta di un problema che la riguarda in prima persona e che, per il solo fatto di sgorgare in modo spontaneo, viene avvertito come urgente; ognuna si esprime liberamente senza timore di giudizi, manifesta pensieri, esperienze emotive, ricordi sovente mai detti, a volte sconosciuti alla stessa che li tira fuori. Lo sforzo suo e delle altre che ascoltano è di contestualizzare il racconto, inserirlo nel tempo, storicizzarlo. Sono convinta che la ricerca storica condotta in questo modo e con questi obiettivi è già politica, ma si tratta di una politica mediata, non sempre giocabile qui e ora: che facessimo politica delle donne, prima della conferma di Paestum, mi appariva chiaro solo in parte. Viceversa la mia tensione verso la storia, verso una lettura e scrittura femminili della storia, mi portava a mettere in secondo piano, quasi in ombra, il procedimento che si veniva realizzando, all’interno del gruppo, cioè la manifestazione della soggettività di ciascuna nella sua singolarità ineguagliabile. La mia partecipazione all’incontro di Paestum ha definitivamente fugato ogni dubbio: ora sono convinta che la politicità della nostra pratica è duplice
Paestum è stata una palestra dove liberamente si sono giocate le soggettività delle numerosissime presenti (vedi a questo proposito Luisa Muraro, Paestum commentata dall’excoordinatrice del gruppo n.9, in Via Dogana, n.103, dicembre 2012, p. 7); lo spettacolo entusiasmante offerto dalla plenaria dell’Hotel Ariston, la mattina del 6 ottobre, mi ha portato a riflettere sulla somiglianza ad uno dei due aspetti della nostra pratica di storia vivente.
Questa pratica punta a fare storia a partire da sé, dalla propria soggettività, che esprimendosi manifesta la propria singolarità, che risulta rafforzata (anche se non è questo il fine primario della pratica). Pratica che consiste in questo: dire di sé in pubblico, tenendo in contatto il sé profondo con quello delle altre; mettere in gioco la propria consapevolezza, la sapienza acquisita dal confronto con le altre, il luogo da cui si proviene e da cui si parla; tutto questo in un luogo altro, di fronte a un pubblico diverso, ciascuna cambiata, per cambiare il mondo.
Nell’invito a Paestum, Primum vivere anche nella crisi: la rivoluzione necessaria la sfida femminista al cuore della politica denuncia e sottolinea il fallimento della rappresentanza e della democrazia quale le conosciamo.
In esso vi si dice “La scelta di Paestum non è casuale nasce dalla necessità di articolare soggettività e racconti nei contesti in cui si vive e agisce ”. E prosegue “viviamo una crisi della rappresentanza “ le sue istituzioni elettive sono depotenziate e deteriorate” sono sotto gli occhi di tutti i limiti della rappresentanza infatti “perché una persona possa orientarsi deve avere un’immagine di sé, di quello che desidera e di quello che le capita”.
“Il femminismo, che conosciamo, ha sempre lavorato perché ciascuna, nello scambio con le altre, si potesse fare un’idea di sé, un’autorappresentazione, che è la condizione minima per la libertà”; Invece la democrazia corrente ha sovrapposto la rappresentanza a gruppi sociali visti come un tutto omogeneo. “La via che noi abbiamo aperto con le nostre pratiche può diventare generale , che la gente si ritrovi e parli di sé nello scambio con le altre fino a trovare la propria singolarità è la condizione oggi necessaria per ripensare la democrazia”.
La pratica della storia vivente ha da sempre dato, come sua caratteristica fondante e intrinseca, libertà alla soggettività di esprimersi, di mostrare la sua originalità inconfondibile in relazione con le altre; essa – vera agente storica – connette passato e presente, fa tesoro dell’esperienza dell’antica autocoscienza , inserendosi a pieno titolo nella tradizione femminista e, insieme, in piena consapevolezza, apre a al pensare e al progettare odierno.