3 Marzo 2015

La pratica della Storia vivente: obiezioni e risposte

Comunità di Storia vivente: Marirì Martinengo, Laura Minguzzi, Luciana Tavernini, Marina Santini, Laura Modini, Giovanna Palmeto

 

La pubblicazione de La pratica della storia vivente (DWF, n.3/2012) ha suscitato interesse e abbiamo ricevuto numerosi inviti a parlarne pubblicamente. Nei dibattiti che sono seguiti ci sono state fatte alcune obiezioni a cui intendiamo rispondere.

È comprensibile che ci vengano rivolte delle obiezioni perché siamo consapevoli che abbiamo toccato un punto molto sensibile. La storia non è solo la più politica delle materie, ma riconosciamo che rappresenta anche l’identità di un popolo, il patrimonio comune di un paese, è una religione laica, una struttura strutturante. Sappiamo cosa rappresenta la storia nella vita di ognuna e di ognuno e nella nostra cultura.

Come dice Luisa Muraro: «Nella cultura europea e nelle culture da essa influenzate, la storia (e di conseguenza la storiografia, ossia lo scrivere di storia) è molto importante. Questa importanza è già nella lingua, pensiamo al sistema dei tempi verbali nelle lingue indoeuropee con tutte le sfumature e accavallamenti dei riferimenti al passato, dal presente al passato prossimo, all’imperfetto, al passato remoto e, dulcis in fundo, al trapassato prossimo e remoto. Oltre alle lingue, pensiamo a due grandi tradizioni della cultura europea, la religione cristiana e la filosofia. La religione cristiana è una specie di narrazione storica, dall’inizio a un culmine a una fine futura; si tratta, come noto, di un’eredità della Storia sacra del popolo ebraico, cioè di una cultura del Mediterraneo oltre che europea. La filosofia in Italia viene insegnata come storia della filosofia. Non solo: il più importante sistema filosofico moderno è una filosofia della storia, mi riferisco a Hegel» (8 marzo 2013, Ci sono novità nella ricerca storica http://www.libreriadelledonne.it/ci-sono-novita-nella-ricerca-storica). E così si insegnano arte e letteratura come storia dell’arte e della letteratura.

Inoltre ci rendiamo conto che finora non siamo riuscite a rendere del tutto chiara la nostra pratica e il fatto di ricevere obiezioni è per noi un’occasione per un ulteriore ripensamento e chiarimento.

Ma veniamo alle obiezioni e alle nostre risposte.

 

1) Ci dicono che nella nostra pratica c’è un rischio di localismo, un’incapacità di visione d’insieme e una chiusura nei confronti di orizzonti più ampi.

Si sente un eccesso di storia personale che sembra imperversare in questi anni, complice in parte la rete; questo eccesso rischia di far perdere la significatività della storia singolare inserita nella grande storia.

È il rischio che corre sempre chi si prefigge di scendere in profondità. Lo scopo della nostra pratica, come sottolineeremo ancora, è quello di portare in superficie il sommerso, convinte che questa operazione muta chi scrive storia e consente a lei o a lui di vederne aspetti nascosti. Offrire nuove chiavi di lettura per l’esperienza umana femminile, per le relazioni tra e dei sessi, è un allargamento di orizzonte per tutta la storia; orienta anche nell’insegnamento perché, nelle scelte degli argomenti, nella loro impostazione e nell’interpretazione, setacciamo a partire dalle nostre esperienze, da quello che abbiamo scoperto con la pratica della storia vivente.

 

2) Qualcuna/o teme la confusione fra storia e memoria.

Ci pare necessario distinguere tra rammentare e ricordare e, per farlo, ci possono aiutare le riflessioni di María Zambrano (Note di un metodo, a cura di Stefania Tarantino, Filema, Napoli, 2003, pp. 87-97). Quando si rammenta, la memoria va rapidamente da una situazione del passato all’altra senza far emergere “l’immagine guida”, tutto diventa fuggevole e confuso. Ricordare invece significa andare a «quegli eventi vissuti dal soggetto, che trovano certamente la loro dimora nella storia, eventi sommersi nel passato dopo essere precipitati sul suo fondo» (p. 94). Per riscattarli da questo fondo che è un “centro errante” occorre compiere dei giri, come in un labirinto. È un lavoro doloroso, il velo del tempo «può essere squarciato soltanto da qualcosa che ferisce il soggetto in cui questo avviene» (p. 91). Ma l’immagine ottenuta per condensazione, pur non essendo interamente trasparente, illumina; infatti il contenuto riscattato è «portatore effettivamente di qualcosa di prezioso, di qualcosa che brilla per la sua simbolicità, per il suo senso» (p. 93), qualcosa che introduce nella storia elementi che ne cambiano la visione. Per esempio, una di noi, vedendo in modo diverso la vicenda estrema di sua madre, ha portato alla luce forme di resistenza preveggente all’industrializzazione nel secondo dopoguerra in Italia, che ci permettono di rileggere non solo quel periodo ma anche altre situazioni (Laura Minguzzi, «La storia respinta, storia come vita significante», DWF, n. 3/2012, pp. 23-29). È un lavorio lento e difficile che necessita certamente uno scavo solitario che viene sostenuto dall’attento ascolto di tutta la nostra comunità.

 

3) Un altro fraintendimento riguarda il “sentire” che non è sentimento.

Ci mettiamo in ascolto delle “viscere”, come le chiama María Zambrano, del mondo interiore, di ciò che altri e altre hanno depositato nelle nostre vite. Non facciamo la storia dei sentimenti, ma siamo in ascolto del sentire: quel sentire profondo che non appare nella narrazione storica costituisce per noi il fondamento. La nostra pratica rende visibile l’invisibile. Ci sono esperienze che non hanno parole. Ad esempio partendo dal nodo di una di noi che non sapeva districarsi tra il desiderio femminile di essere preferite e preferire e un’esigenza di uguaglianza, abbiamo individuato con la pratica della storia vivente una preferenza non escludente: entra così in gioco un altro modo di leggere l’esperienza. Sono gli anni della scuola egualitaria, che riteneva la preferenza un modo per discriminare, e non ne vedeva la potenzialità di crescita non solo individuale. Questa scoperta non cambia solo la visione del passato ma trasforma il nostro modo di comportarci nel presente (Marina Santini, «Il volto ambiguo della preferenza», DWF, n. 3/2012, pp. 30-34).

 

4) Un’altra obiezione riguarda lo stile da noi adottato che non tiene separati i generi, ritenuti invece necessari per sottolineare il rigore della ricerca.

Molte autrici già attraversano i generi: i saggi di Graziella Bernabò su Antonia Pozzi e su Elsa Morante sono letteratura, storia, biografia, critica letteraria o tutto un armonioso insieme? (Graziella Bernabò, Per troppa vita che ho nel sangue. Antonia Pozzi e la sua poesia, Viennepierre, Milano 2004, Ancora, Milano 2012; Graziella Bernabò, La fiaba estrema. Elsa Morante tra vita e scrittura, Carocci, Roma 2012)

Sono ormai anni che la storia non è più quella che rendeva insofferente Jane Austen: si è aperta anche ad altro e in questo altro ci sono le classi popolari, sono entrate le donne e poi i costumi, i sentimenti… e dunque si fa la storia materiale, la storia delle donne, la storia dei sentimenti. Tutto frammentato e separato. Noi tentiamo di tenere insieme: la storica/lo storico non è più il soggetto che indaga un oggetto, è corpo pensante ma non silente, è corpo sentente. Perché, come dice Zambrano «il sentire ci costituisce più di ogni altra facoltà psichica […] le altre le possediamo, mentre il sentire lo siamo». Il sentire è «la fonte ultima di legittimità di quanto l’uomo dice, fa, pensa». E «la sua storia (del sentimento) sarà la storia più veritiera». Il nostro porci in ascolto del sentire, quindi, ci radica nella “verità viva”. (María Zambrano, «Per una storia della pietà», Aut-Aut, n. 279/1997, pp.64-65)

 

5) Siamo accusate di lavorare senza l’avallo della comunità scientifica, senza la sua misura.

Noi abbiamo negli scritti di María Zambrano e di María-Milagros Rivera Garretas, con la quale abbiamo una relazione viva di scambio, la nostra misura. Riportiamo a questo proposito una parte della risposta di María-Milagros a Marirì che l’aveva interpellata riguardo alle obiezioni: «Il partire da sé seleziona man mano quello che vale, passandolo al setaccio della mia esperienza, di ciò che mi serve per conoscere la storia che si annida in me. Sono riuscita a farlo negli ultimi anni, spiegando in una classe il feudalesimo. Quando scoprii il movimento delle Fideles Amoris ci lavorai su per distinguere nel feudalesimo due fedeltà, una è quella feudale, l’altra la fedeltà ai segni di Amore. Così, senza distruggere la storia maschile, questa venne ricollocandosi in un luogo non totalitario né muto. E potei spiegarla in classe senza annoiarmi né sentirmi estranea.» (traduzione di Clara Jourdan). È soprattutto la pratica dell’ascolto di sé e delle altre, in un continuo lavorio di scavo, che riesce a portare alla luce nodi problematici della nostra vita che ci hanno condizionato pesantemente. Un lavorio dall’andamento a spirale che richiede tempi lunghi finché non sentiamo che nel racconto c’è altro e questo, prima detto in parole, diviene scrittura e riscrittura che mostra il simbolico femminile nella storia.

 

6) Sembra mancare un inquadramento generale e la partizione temporale, che farebbe precipitare la nostra pratica in una forma di autocoscienza, dove l’indagine su di sé e l’ascolto delle altre sono viste come un ripiegamento, con caratteristiche consolatorie, con il rischio di essere chiuse e autoreferenziali e di perdere la distanza per una valutazione obiettiva.

La storia ha bisogno di essere trasformata. L’inquadramento generale e la ripartizione temporale non sono indifferenti ai soggetti. Noi teniamo in gran conto il contesto e il tempo in cui gli eventi fatti emergere si sono svolti proprio per poter distinguere ciò che è essenziale. La pratica della storia vivente tende a far emergere e rafforzare una soggettività che si forma nella relazione; soggettività relazionale che è alla base della capacità di agire e rende una società civile.

Con questa pratica la storica/lo storico, portando allo scoperto la sua interiorità, il suo sentire, si trasforma e pone questo all’origine del fare storia. Spiegherà e scriverà una storia modificata che non abbia più, per esempio, come orizzonte la guerra o la sua assenza, lo schema vincitori/vinti, ma apra a un ordine nuovo di rapporti dove non siano estranei l’amore e la relazione; redenzione e riscatto, non solo odio e vendetta.

È un nuovo inizio della storia, non una riproposizione della storia delle donne.

Nelle società patriarcali l’esperienza femminile è tenuta sotterrata. È emersa nella letteratura, ma non ha avuto finora parole per dirsi nella storia. I desideri femminili affiorano nei sogni e non hanno rappresentazione, mentre l’esperienza e i desideri maschili hanno una loro visibilità e sembrano essere l’unica interpretazione per l’umanità. Noi, attraverso il racconto del groviglio di Luciana, abbiamo indagato, ad esempio, il desiderio di parola pubblica femminile aderente al proprio sentire e ne abbiamo visto l’origine e ciò che la ostacola (Luciana Tavernini, «Gli oscuri grumi del disordine simbolico», DWF, n. 3/2012, pp. 35-43).

Il nostro è un lavorio in fieri. Dentro di noi si intrecciano i fili del passato e del presente. Una condensazione di tempo storico che fa di noi un documento vivente. Questa pratica scardina le ripartizioni dei vari saperi e dei generi che hanno cercato di oggettivare la ricerca in una lotta affannosa per l’oggettività, che anche gli uomini sanno di non poter raggiungere.

Non escludiamo altri modi di fare storia, ma con la nostra pratica la soggettività femminile, entrando nella storia, ne fa emergere aspetti vitali.

 

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