1 Settembre 2004

Sul conflitto

Questo testo nasce da una situazione di conflitto che ho vissuto nel gruppo di discussione donne-uomini di Milano a seguito di un evento che si era verificato alla conclusione del seminario di Asolo (fine maggio 2004) organizzato dall’associazione “Identità e differenza” di Spinea.
Nel ritorno verso Milano due delle donne del nostro gruppo avevano espresso il desiderio di interrompere per qualche mese le riunioni di gruppo anche perché le parole che avevo usato nel mio intervento a d Asolo per descrivere il lavoro fatto nel gruppo stesso non erano in sintonia con il loro vissuto di questa esperienza che stavamo facendo insieme.
Questa decisione ha prodotto in me forti sentimenti di abbandono e di tradimento e questo testo viene da quell’episodio e dalle riflessioni e dalla ri-elaborazione che ho fatto nelle settimane successive.
Umberto Varischio

 

Umberto Varischio

Ho riflettuto molto in questi ultimi giorni, a partire da una discussione tra noi del gruppo di Milano scaturita dalla partecipazione all’incontro di Asolo, sulla questione del conflitto e sulla mia difficoltà ad aprire il conflitto e poi a riuscire a gestirlo senza ricadere nelle mie due classiche forme di risposta: la rottura e il prevalere sull’altra/o.

 

Partire dall’impostazione del pensiero e dalla politica della differenza vuole per forza dire interrogarmi e affrontare la questione del conflitto senza cercare impossibili forme “conciliatorie”, nel presente o in prospettiva, tra uomini e donne(e per quello che mi riguarda tra uomo e uomo perché di differenza anche in questo caso si tratta).


Ho bisogno, mi è necessario, per iniziare a ragionarci, di partire dalla mia esperienza personale, dai miei sentimenti e dalle emozioni che provo in una situazione del genere.

 

Prima voglio raccontare di un’emozione, e della sua ri-elaborazione, che mi è sorta alla visione di un film per altri aspetti molto interessante, cioè “Ti do i miei occhi”. In particolare mi sono molto emozionato nella scena in cui la protagonista spiega al figlio, descrivendo un quadro, il mito di Orfeo e Euridice.
Questo mito nella mia adolescenza mi ha sempre molto colpito, anche attraverso la mediazione della versione cinematografica di “Orfeo negro” e forse anche per il tema principale della colonna sonora, una musica dolce e struggente.
Perché proprio questo? Il mito immagino lo conosciate: Orfeo perde Euridice che muore e con la forza dell’amore, attraverso un viaggio nel regno dei morti, e grazie alla sua bravura di musico, riesce a convincere Plutone e Proserpina a lasciarla tornare nel modo dei vivi a una condizione, non voltarsi a guardarla prima di essere usciti dall’Ade.
Quasi all’uscita Orfeo non sente più i passi di Euridice dietro di lui (altre versioni dicono che non è sicuro che sia una persona viva), si volta e la perde definitivamente.
Cercando di entrare nell’emozione che mi prende varie sono le cose che mi vengono in mente: io ti salverò, riferita alle donne, non preoccuparti ci sono io che penso a tutto. Addirittura l’onnipotenza di salvare dalla morte. Questa è una spiegazione abbastanza facile e in parte rimanda al senso di onnipotenza mio (nostro?) nei confronti delle donne, ma anche alla mia (nostra?) necessità di operare un controllo su di loro.
Altre idee che mi vengono in mente sono il ritorno impossibile al materno che vuole essere recuperato, ma alla fine si perde, oppure la priorità per la ricerca in se data dagli uomini che in nome di questa perdono la cosa più preziosa (la relazione).
Oppure uno spunto che mi ha dato Elisabetta sul fatto che la scoperta del femminismo da parte mia (nostra?) sia un modo per ricongiungersi alla donne, che ho perso nel momento in cui ha riaffermato il suo vivere di vita propria. E la difficoltà di confliggere sia la paura di perderla definitivamente.

 

E poi, seguendo il filo del mito non mi è chiaro (non solo a me certamente!) perché Orfeo si volta; anche qui mi accorgo che ho necessità di scavare. E da questo scavo escono altre idee che mi suonano meglio: il voltarsi perché non si sente più il passo di Euridice. Questo, oltre alla paura di perdere si lega anche alla necessità di tenerla sotto controllo, di non lasciarsela sfuggire quando l’obiettivo è più vicino, ma anche di riportare a legame lo sfuggente che la donna rappresenta. Anche l’interpretazione di un voltarsi dovuto alla non sicurezza che Euridice sia viva mi riporta alle considerazioni fatte prima.

 

Riparto da me. Aprire un conflitto per me significa mettersi in contrasto e in scontro con l’altro/a. Contrasto che vivo come potenzialmente distruttivo o per me o per l’altro/a. Nell’apertura del conflitto vedo il pericolo, ho fisicamente paura, di diventare troppo aggressivo nei confronti di chi mi sta di fronte, di perdere il controllo su me stesso e sulla situazione, e soprattutto di perdere la sua approvazione; di diventare per lei/lui una persona da cui allontanarsi.
E in particolare questa paura è più grande nei confronti delle donne con cui riesco ad avere rapporti e relazioni più profonde (e parlo delle relazioni che non sono unicamente il rapporto di coppia o amoroso con la mia ex-moglie e con la compagna attuale).

 

Certo un elemento di questa mia risposta innanzitutto emozionale viene da questioni caratteriali molto personali, dalla mia storia e dalla mia paura di venire abbandonato.

 

Però voglio capire se questa paura di perdere l’approvazione degli altri e delle altre condizioni in qualche maniera anche la mia capacità poi di gestire il conflitto.

 

Ho l’impressione che una parte del problema venga da una storia che ritengo abbastanza comune degli uomini.
Dalla difficoltà per me (o per noi?) di mostrarmi dipendente dalle donne: nella mia storia, nel mio vissuto profondo, ma anche nella cultura corrente l’essere dipendenti significa essere debole. Infatti frequenti sono i richiami a non mollare, a stringere i denti, a non cedere nelle situazioni di forte difficoltà, ad andare avanti comunque e da soli.
Il nascondere i miei sentimenti più profondi, in particolare quelli di affetto, le emozioni e in particolare quelle positive, la paura di dimostrare la mia debolezza, la possibilità di essere ferito, la mia dipendenza, normalmente mi portano ad non aprire il conflitto.
Oppure, le volte che riesco ad aprirlo questi stessi sentimenti mi agitano e mi portano spesso a sfuggirlo, a mediarlo al ribasso (per me almeno), a non porlo in primo piano. A non dire veramente “quello che penso”, che cosa sento, cosa desidero. Meno spesso a mostrare le mia aggressività, la mia volontà di prevalere.

 

Oppure, soprattutto con gli uomini, a scatenare dei conflitti pretestuosi, a entrare in competizione senza motivo apparente, con la volontà fine a se stessa di prevalere, per mostrami migliore di quello che sono, più in gamba.

 

Qualcosa sento si sta trasformando in me, dal punto di vista forse più interessante per un’esperienza comune: lo stare in relazione anche politica con altri uomini e donne, in qualche maniera mi ha reso più disponibile a restare e interrogarmi in una situazione di conflitto anche forte. Certo in una situazione che non è solo bella e positiva, ma che contiene elementi di tristezza, di forte difficoltà a comprendere quello che sono i miei desideri in merito e quelli delle altre e degli altri. E soprattutto senza alcuna certezza di riuscire a starci a lungo e di non riproporre gli stessi miei comportamenti di sempre.
In aggiunta questo atteggiamento del cercare l’approvazione crea dei nodi molto difficilmente risolvibili nelle relazioni, fa fare pochi, e comunque faticosi, passi in avanti anche dal punto di vista della riflessione.

 

E poi stare in relazione è un legame che può essere nello stesso tempo molto forte e appassionante, ma anche molto doloroso per l’investimento che ci metto e quando le cose non vanno bene o almeno come vorrei io.
Non vi nascondo che non mi è facile lo stare in questa situazione in cui mi sento “sospeso” e senza regole sicure di comportamento. In questo senso i sistemi “istituzionali” di mediazione per me sono molto più rassicuranti e mi permettono di avere dei “paletti” di come le cose possono andare e comunque dal punto di vista emotivo sono molto meno coinvolgenti.
E contemporaneamente mi pongono molti meno problemi di agire un vero conflitto ma solo quello accettabile all’interno di quelle regole.

 

Cercando di non restare solo all’interno dell’esperienza a solo personale mi piacerebbe capire questa difficoltà che c’è, negli uomini ad aprire i conflitti, certo se lo si sente come problema. E quali sono le strategie per mediare, quali mediazioni vengono fatte e in che modo vengono fatte.
Senza sfuggire a una domanda che, come ho detto mi viene dall’esterno: non voglio (vogliamo) solo operare un fantasmatica ricongiunzione, ricucire lo strappo che mi ferisce?

 

Un interessante punto di partenza potrebbe essere ragionare a partire da un articolo di A.M. Iacono sul Manifesto del 03/06/04 di cui cito alcune parti:
[…]E, ancora: la conquista dell’identità e dell’autonomia individuale deve per forza essere modellata su storie che riguardano i maschi della nostra tribù occidentale? Altra domanda: questa identità e questa autonomia devono necessariamente essere il risultato della distruzione di un rapporto?
Sono domande che implicano l’idea che il conflitto, determinandosi principalmente come un confronto drammatico tra l’autorità e l’autonomia, debba necessariamente risolversi nella distruzione della relazione tra i protagonisti in gioco. Come è noto, esistono altre possibilità di immaginare la formazione dell’identità e dell’autonomia individuale. Si tratta di immaginare quella che potrebbe essere definita come l’autonomia nella relazione, cioè come la formazione di un’autonomia che, per affermarsi – e dunque per liberarsi dal vincolo di un’autorità che la condiziona e la frena – non ha bisogno di eliminare l’altro e, di conseguenza, non necessita di distruggere la relazione che li lega, ma, al contrario, si realizza all’interno di quel rapporto trasformandolo.
[…]
Forse dovremmo cominciare con il pensare all’idea di un’autonomia la cui formazione non debba necessariamente passare dal desiderio di morte e di distruzione della relazione con l’altro: un’autonomia che non sia una lotta tra maschi bianchi adulti e violenti il cui premio esclusivo è il possesso della donna, anzi della madre. Forse dovremmo pensare a un’autonomia nella relazione, a una storia – e la storia è per sua essenza mutamento – dove diventa centrale l’autolimitazione reciproca dell’onnipotenza: una storia dove il raggiungimento dell’eguaglianza avvenga sulla base del riconoscimento delle differenze, del riconoscimento dell’altro non in quanto espressione del proprio doppio, ma in quanto altro da sé, appunto.

 

Il problema, come al solito è riportare questi ragionamenti nel concreto delle relazioni che abbiamo, almeno quelle che riguardano le relazioni in sé. Farlo diventare pratica, certo in mezzo alle contraddizioni di tutti i giorni. Più facile a dirsi che a viverla.

 

Per me, in quanto uomo, l’obbiettivo dell’indipendenza e dell’autonomia individuale è diventata una gabbia, un dover essere che fin da bambino mi è stata inculcata dall’esterno, dalla cultura, con l’imposizione di modelli ideali che mi dicevano (e mi dicono tuttora), che se non sono indipendente, autonomo, non sono un vero uomo, uno “che non deve chiedere mai”, come recita la pubblicità.
Oltretutto nella mia esperienza passata questa ricerca dell’indipendenza, fatta fondamentalmente di atti di volontà (devo essere così, è giusto che sia così) ha significato perdere relazioni e rapporti, un inaridimento e non un arricchimento della mio mondo interno ed esterno.

 

E comunque, questa presa di coscienza della mia dipendenza dalle donne, non desidero diventi immediatamente, come in passato, un problema da risolvere con scorciatoie teoriche e pratiche, ma un vissuto che messo in relazione con altri e altre smuova, “da se” il mio stare nel mondo.

 

Altra questione è come far diventare questa mia affermazione di dipendenza non solo una riconoscenza pubblica dell’importanza che nella mia vita hanno avuto e hanno le donne, ma un altro atto politico di restituzione, un salto, una discontinuità che apre, come alcune donne chiedono a ciascuno di noi.

 

Insomma, non penso di riuscire ad andare molto più avanti da solo da questo punto di vista. Come diceva Vanni nel suo intervento ad Asolo ho bisogno della relazione con altri uomini, ma anche quella con le donne, per cercare di progredire su questa e su altre strade.

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