2 Settembre 2004

Sulla politica

Luciano Sartirana

Politica…
Un termine che mi suona male, da tempo. Un po’, durante varie militanze, ho avuto esperienze umanamente poco belle. Ma non è solo questo.

Sono dell’idea che la politica militante, da attivista, sia oggi una forte limitazione nel capire le cose e il mondo. Mi pare che “il politico” sia un gruppo sociale in mezzo a tanti altri: con il suo linguaggio, i suoi riti, i suoi punti di riferimento… e con in più la pretesa di impersonare il vivere e il progetto comune. In altre parole: io sono un attivista politico, quindi: a) capisco meglio le cose; b) sono al centro di esse; c) frequento il binomio potere-opposizione, cioè ciò che conta; d) sono eticamente motivato dall’impegno e dal bene comune; e) chi non è attivista non ha e non è tutto questo; f) sono attivista perché faccio riunioni, mi relaziono a gruppi e partiti e associazioni, faccio manifestazioni, sono aggiornato su libri e quotidiani, scrivo pezzi e dico la mia, mi presento alle elezioni, sono ai banchetti, diffondo giornali e iniziative…

Nonostante, per lunghi periodi, questo sia effettivamente “fare politica”, credo che le cose siano cambiate. Le scelte politiche di larghe masse sono molto meno mediate da questo tipo di razionalità (maschile? cartesiana? illuminista?) e molto di più da simbolici non prettamente politici o del tutto apolitici: televisione, cinema, musica, calcio, comunicazione a slogan e luoghi comuni, paure dell’altro, conformismi, profilo di genere in termini giovanilistici, sentito dire. La politica di prima è lasciata agli altri, gli attivisti, che sempre meno capiscono tutti gli altri. Ovviamente la complessità e le mediazioni sono enormi, le cose non stanno così in bianco e nero… ma ce le vedo, eccome.

Anche in me stesso. Nonostante l’odierna e indubbia perdita di razionalità generale sia un danno, può aprire spazi positivi per chi – come nella cosiddetta politica prima (quella che si muove nell’ambito delle relazioni, dell’immaginario, del linguaggio e dell’agire di genere, della differenza e delle differenze) – intende puntare a un mutamento di simbolico. Perché credo sia qui si giochino molte aree di futuro.
Ciò che dicevo prima rischia però di minare anche la politica delle donne e della differenza. Succede quando le donne e gli uomini della differenza parlano solo a una loro cerchia, diventando autoreferenziali chiudendosi in un unico, piacevole quanto limitato, gioco linguistico.
La faccenda non è pensare in termini politici tutto il giorno, ma accorgersi di una cosa semplicissima: chi ha un forte passato politico ed etico ne è intensamente impregnato, è una dimensione ineludibile e imprescindibile, è lei stessa e lui stesso, non dovrebbe avere paura di “smettere con la politica”, perché fa parte di sé. Per cui, può anche esimersi dal “fare politica” (riunioni, etc.), ma ogni suo atto e pensiero ne sono la prosecuzione, tranquilla e consapevole.
In questo modo credo sia possibile anche smettere di essere – in quanto attivista – un corpo separato dalla “gente comune”, e forse può anche essere più in relazione con “questa“ gente comune.

Penso questo anche per esperienza. Ho sempre avuto, fin da piccolissimo, problemi a comunicare e relazionarmi con gli altri: perché parlavo poco o niente, perché parlavo con la bocca chiusa e nessuno mi capiva, perché ero spesso perso nei miei pensieri e nelle mie nuvole, perché ho lasciato l’asilo dopo un mese, perché ho sempre preferito giocare da solo, perché parlavo con altri solo su cose “serie” e mai di me.
A un certo punto mi sono accorto della mia solitudine, e che mi mancavano “codici” importanti della normale comunicazione fra le persone. La faccio breve: sulle cose giuste da dire è necessario trovare il modo giusto, e la comunicazione “politica” rischia di non esserlo. Per farlo trovo sia bene riconoscere quanta politica abbiamo ormai dentro, e constatare che non la lasceremmo mai anche se comunichiamo e viviamo in termini apparentemente non politici.

Con la politica seconda (quella dei partiti e dei movimenti strutturati, dei media e nelle istituzioni) ho un rapporto di amore-odio.
Amore, perché anni di politica convinta (DP, sindacato) non si cancellano, e mi sento piccola parte di percorsi e valori democratici di importanza storica. Amore, perché – nonostante l’apparenza – io ammiro comunque molto chi lavora nelle istituzioni, si fa il mazzo in mediazioni infinite su leggi e regolamenti, alleanze e contratti… fare casino tre giorni – manifestazioni, scioperi, occupazioni, etc. – può avere un grande senso simbolico, ma lavorare oscuramente nelle istituzioni, gruppi, sindacati vuol dire mantenere vivo un tessuto sotterraneo di progetti, e non mi pare poco.
Odio, perché la sfera politica (e quelli che “fanno politica”, seconda o prima) sembra inglobare tutto quanto, arrogantemente, con la pretesa che tutto il resto (arte, vita quotidiana, linguaggio) svolga solo un ruolo ancillare. Odio, perché la politica nelle istituzioni non sarei mai capace di farla (o non ne sono più capace); quella dei movimenti (alla quale, sui contenuti, mi sento spesso vicino) prende troppo tempo, è un’idrovora delle singole vite.
Resta la politica prima, quella sul simbolico della differenza, dei generi, della consapevolezza. Io credo che ogni nostro atto sia politico, nel senso che ha influsso su chi e su cosa ci stia attorno. Non vedo il bisogno di richiamare di continuo la necessità che una discussione, un articolo, una presa di posizione sia politica: lo è già.

Per quanto mi riguardi, vedo il mio campo privilegiato di azione e pensiero nella cultura, nell’arte, nello spettacolo, nella formazione. Anche perché credo che sia qui – anche qui – che molto simbolico odierno si crei. Sono ambiti dove lavoro, vi deve anche entrare denaro, perché ho sempre faticato ad accettare una vita divisa in due, con il lavoro per vivere da una parte e gli interessi e l’impegno dall’altra. Forse mi sono anche accorto di avere 48 anni, non ho più davanti tutto il tempo di una vita, voglio sbrigarmi a fare qualcosa di significativo. Il tempo “per la politica” è rubato a cose per me più importanti. Non genericamente, ma in rapporto alla vita che scivola via ogni giorno.

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