Maria Rosaria Marella
Condivido i contenuti e i toni dell’intervento di Azzariti, Burgio, Lucarelli e Mastropaolo pubblicato sul manifesto del 5 gennaio, a partire dal fatto che hanno scelto di rivolgersi soprattutto a chi, il corpo docente, è stato largamente assente dalle mobilitazioni dei mesi scorsi, ma nell’università pubblica ha responsabilità didattiche, scientifiche e di gestione e dunque può, come gli autori auspicano, mettere in scacco la legge Gelmini, ad esempio facendo ricorso alla giustizia amministrativa in difesa della libertà di ricerca e insegnamento e presidiando i processi di elaborazione degli statuti d’ateneo.
Al di là delle vie istituzionali che l’articolo ha il merito di segnalare e promuovere, credo che a chi lavora nell’università spetti ora il compito di operare interstizialmente fra le pieghe della legge e oltre la legge stessa e sperimentare pratiche quotidiane di sabotaggio dell’ideologia che la ispira. Penso infatti che gli ultimi quattordici mesi di discussioni e mobilitazione non siano trascorsi invano e sebbene non siano valsi a fermare l’iter di approvazione del Ddl, abbiano comunque portato a riflettere tutti gli attori dell’università sulle mancanze del sistema in cui operiamo e sul modello di università che vorremmo. Naturalmente non dobbiamo illuderci che i professori universitari, in particolare gli ordinari, che tanto hanno latitato in questa vicenda, siano oggi pronti a contrastare il peggio che ci pioverà addosso con l’attuazione della legge. Avendo vissuto questa fase soprattutto a contatto con i soggetti in mobilitazione, ho poi scoperto con sgomento non solo che molti colleghi erano d’accordo con lo spirito della riforma – il che è legittimo, ovviamente – ma che tante altre, che pure per cultura e formazione sono per la difesa dell’università pubblica, ignoravano persino il contenuto del Ddl. Possiamo sperare che il tedio e l’indignazione che ciascuno proverà nel subire centinaia di astruse norme attuative risvegli sia pur tardivamente le coscienze. A chi non ha preso parola e a chi ha lavorato perché l’orrore del Ddl Gelmini divenisse l’occasione per aprire un grande dibattito pubblico sull’università e la ricerca in Italia, dobbiamo ora chiedere un impegno quotidiano per svuotare quanto possibile la riforma “dal di dentro”, farne un’opportunità per affermare il carattere di bene comune dell’università pubblica.
Didattica. Con la presentazione del Ddl Gelmini si è ricominciato, soprattutto da parte degli studenti, a discutere del 3+2 e dei guasti che il sistema dei crediti ha prodotto sul piano del metodo, dell’organizzazione della didattica e dell’apprendimento. Chi vive nell’università sa bene che quanto ha avuto origine dal cd. processo di Bologna, proprio lo scorso anno duramente contestato dagli studenti di tutt’Europa in occasione del suo decennale, si è tradotto in una tremenda standardizzazione dei contenuti dell’insegnamento e in un devastante impoverimento del rapporto studenti-docenti in termini di produzione di sapere critico. Ora la c.d. riforma non interviene direttamente sulla didattica ma, ripeto, può essere colta come l’occasione per abbandonare la rassegnazione con cui abbiamo sinora subito come mali necessari la parcellizzazione dei saperi e la riduzione dell’insegnamento a somministrazione di nozioni professionalizzanti, scandito secondo tempi da catena di montaggio. Mali che una normativa secondaria in corso di approvazione si accinge a aggravare, imponendo la riduzione dell’offerta formativa per i corsi di laurea che secondo il ministero hanno vocazione professionalizzante (giurisprudenza, ad esempio) e con ciò accentuando la standardizzazione dei saperi. È tempo invece di riprendere la sperimentazione della didattica ed è qualcosa che possiamo fare individualmente, ma soprattutto nei corsi di laurea. In primo luogo il sistema dei crediti dev’essere in qualche misura neutralizzato, compatibilmente con le tabelle ministeriali, uniformando il più possibile il numero dei crediti assegnati agli insegnamenti, così da sconfiggere l’insulsa gerarchia fra saperi imposta col 3+2. In secondo luogo, ciascun insegnamento può riorganizzarsi al proprio interno in modo da ridurre lo spazio per la didattica c.d. frontale e privilegiare quella seminariale per favorire lo scambio con gli studenti e la produzione di sapere dal basso. Infine la didattica può essere rivitalizzata nel metodo e nell’organizzazione ricorrendo il più possibile ai crediti liberi, già sfruttati strategicamente dagli studenti per le attività di autoformazione. Grazie a questo centinaia di esperienze di autoformazione sono fiorite in tutti gli atenei italiani, nel segno della contaminazione, dell’interdisciplinarietà e della condivisione con le realtà presenti sul territorio. Ottime pratiche per un’università bene comune.
Ricerca. La legge Gelmini – si è detto a ragione – vuol privatizzare la ricerca prodotta dall’università pubblica, sostanzialmente regalandone i frutti ai privati che siederanno nei consigli d’amministrazione degli atenei. È possibile che molto di questo progetto, riproduzione del tutto fuorviante del modello statunitense, resti sulla carta e che, almeno nelle discipline umanistiche, si conserverà l’esistente. Del resto la ricerca di base in genere è già stata di fatto privata di fondi mentre quella scientifica, almeno in alcuni settori, è già da tempo orientata dal mercato. A tutto questo è possibile e doveroso contrapporre la pratica del comune, condividendo i risultati delle ricerche che svolgiamo individualmente e come dipartimenti, attraverso la creazione di repositories liberamente accessibili secondo lo schema dell’open access o ricorrendo a licenze creative commons.
Valutazione. Resta il nodo della valutazione, il tratto della riforma forse più ideologico ma paradossalmente più condiviso fra gli accademici. Anche chi in passato ha gestito i concorsi in modo non impeccabile, essendosi autoassolto aderisce ora alla retorica del merito e s’impegna nell’elaborazione di criteri “obiettivi” di valutazione. In questi mesi a chi mi parlava di merito ho consigliato la lettura del bell’articolo di Marco Bascetta “Un merito senza talento” (il manifesto, 2 dicembre 2009) condividendone in tutto l’analisi: la valutazione del merito è intrinsecamente gerarchica, crea standardizzazione e ammazza il talento, nega il carattere collettivo della produzione del sapere. A questo si aggiunga l’arbitrarietà dei criteri di valutazione, alquanto palese nelle materie umanistiche e le storture create da una competizione fra ricercatori e fra strutture del tutto artificiosa. Per chi pensa che l’università e il sapere sono beni comuni resistere alla retorica del merito e della valutazione della ricerca è indispensabile. Necessario allora non contribuire a legittimare questa logica e ove possibile neutralizzare gli strumenti di valutazione.
* Ordinaria di diritto privato, università di Perugia