21 Agosto 2006
CORRIERE DELLA SERA

Torniamo ai vecchi campi

Cecilia Zecchinelli

Fisica quantistica, economista, ecofemminista, ecologa sociale, guru del movimento no global, fondatrice dell’ attivissima Research Foundation for Science, Technology and Ecology e di altre organizzazioni. Vandana Shiva, nata nella regione himalayana 54 anni fa, studi nelle università inglesi e americane, è la figura più nota dell’ «altra India», anche se nel suo lunghissimo curriculum non mancano consulenze per il governo di New Delhi e riconoscimenti istituzionali. Da 25 anni si batte per la difesa della natura e dell’ agricoltura del suo Paese, ovviamente per mettere fine all’ ondata di suicidi dei contadini. L’ abbiamo incontrata nel primo «caffè slow food» dell’ India che tra le altre mille cose è riuscita a fondare, l’ anno scorso, in una casa della capitale. Parliamo dei suicidi: il governo li imputa a disastri naturali. È così? «Assolutamente no: per 5 mila anni la terra è stata il datore di lavoro più generoso dell’ India, mentre oggi i contadini sono “a rischio di estinzione”. I suicidi sono tutti dovuti ai debiti, causati dall’ imposizione dei semi delle multinazioali americane. Non a caso esiste una “fascia dei suicidi” che corrisponde alla maggior presenza della Monsanto e della Cargill. È soprattutto lì che i contadini s’ indebitano per comprare ogni anno i semi di cotone modificati geneticamente e poi non riescono nemmeno a recuperare quei soldi al momento del raccolto, perché i prezzi internazionali crollano. È tutto documentato: nel rapporto Seeds of suicides che abbiamo appena aggiornato c’ è tutto». Con il governo di sinistra di Singh le cose non sono migliorate? «No, anzi. I rapporti con gli Stati Uniti oggi sono ancora più stretti, e insieme all’ anti-terrorismo l’ agricoltura è il cardine delle relazioni bilaterali. Un esempio: siamo diventati importatori di grano dagli Usa, mentre non ne avremmo bisogno. Washington vuole dominare il nostro mercato, mentre continua a sovvenzionare le sue esportazioni agricole». Cosa si può fare? «Tante cose. Ad esempio abbiamo creato una banca per i semi. Chiediamo ai contadini, e ormai 300 mila sono legati a noi, di conservare parte del raccolto per poi riseminarla, come si faceva una volta. Così si resiste all’ invasione delle multinazionali, si riducono le spese, si usano meno pesticidi, si salvano varietà importanti. Dopo lo tsunami, nello stato dell’ Orissa abbiamo seminato un riso tradizionale in grado di resistere alla salsedine. Una varietà che sarebbe scomparsa senza la nostra banca». E a livello internazionale? «Il nostro modello è proprio l’ Italia: voi proteggete la diversità culturale dei prodotti agricoli tradizionali, difendete le piccole aziende. Per questo caffè slow food abbiamo creato un’ alleanza con Carlo Petrini. Ora vorrei che l’ India lanciasse un’ iniziativa ufficiale comune con l’ Italia».

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