17 Marzo 2007
il manifesto

Touraine: «La scuola? Deve tornare a puntare sull’individuo»

Il sociologo francese, a Roma per un convegno alla Terza Università, affronta il problema del bullismo nelle aule. «La violenza non viene dall’esterno – afferma -, bisogna avere il coraggio di dire che fa parte del sistema scolastico, oggi profondamente in crisi»
Cinzia Gubbini

Il sociologo francese Alain Touraine si trova a Roma per il trentaseiesimo convegno nazionale «Scommettere sulla scuola per una scuola di tutti e di qualità», del Centro di iniziativa democratica degli insegnanti (Cidi). Una tre giorni alla Terza università che si concluderà domani. Touraine che ha sempre individuato nella scuola repubblicana, pubblica e laica, un potente strumento di integrazione oggi non nasconde la profonda crisi del sistema scolastico, e parla esplicitamente di un contesto di «forte disintegrazione e regresso». Ma mette sul tavolo anche proposte concrete: educazione individualizzata, valutazione delle scuole, formazione degli insegnanti e la sperimentazione di vere e proprie «discriminazioni positive».
Professore, il fenomeno del «bullismo» ha occupato anche il dibattito francese. Lei cosa ne pensa?
Bisogna essere onesti, in qualsiasi comunità ci sono dei problemi e delle riflessioni da fare. In Francia, nelle nostre banlieues, dove si vivono situazioni di segregazione e discriminazione, ci sono studenti che si dedicano a traffici illegali, che hanno comportamenti molto violenti. Io credo che la scuola debba farsi carico di questi problemi, anche se a volte le cause sono esterne. Non ha senso pensare che tutto possa essere risolto con l’intervento della polizia, per intenderci. Contemporaneamente non si deve far finta che non esista un aumento della violenza: è un atteggiamento che non ha nulla di progressita, è soltanto un atteggiamento laissez faire che ha effetti negativi sui più deboli.
Il nostro ministro dell’Istruzione pensa di sanzionare chi ha comportamenti violenti. E’ d’accordo?
Io credo che non si debba punire o escludere. Piuttosto, se uno studente non lavora, non frequenta, insomma si pone su un piano di rottura, la scuola dovrebbe rapportarsi in un altro modo, studiando nuovi metodi didattici, creando corsi e progetti che possano rispondere alle esigenze della persona. Insomma, io credo che la scuola dovrebbe sentirsi interamente responsabile. Cominciare ad ammettere che le cause della violenza non vengono tutte da fuori – come si è a lungo sostenuto – ma hanno radici anche nella scuola. Nei rapporti tra compagni e, anche se meno di frequente, nella relazione tra insegnante e studente. Una relazione che attualmente è negativa.
Perché?
La scuola è stata concepita come uno strumento di integrazione sociale e di formazione del cittadino, soprattutto in Francia, ma in realtà in tutti i paesi europei. Per molto tempo è stato un modello positivo: non si può negare che, rispetto a prima della seconda guerra mondiale, tutti hanno potuto accedere a un qualche livello di istruzione. Ma la verità è che è servito a ben poco. Per cui, oggi, i ragazzi che provengono dagli strati sociali più bassi si sentono, di fatto, prigionieri della scuola. Sia chiaro, ci sono sempre stati studi che hanno denunciato la trasmissione delle differenze sociali anche all’interno del sistema scolastico. Ma se questo era vero in passato, oggi lo è molto di più.. E’ come se la scuola si fosse chiusa in un atteggiamento orgoglioso, che rifiuta tutto ciò che viene da fuori. Per esempio nei confronti dei ragazzi di origine straniera. Potrei citare episodi molto concreti: l’insegnante che dice «non capisco bene quello che stai dicendo», «sei lento», «dai fastidio ai tuoi compagni, perché non esci dalla classe?». Allora la grande scoperta della sociologia dell’educazione è che la relazione tra insegnante e alunno cambia tutto.
Ha ancora senso oggi parlare di classi sociali?
L’origine sociale è sempre importante, ma ovviamente aumenta quella dell’origine etnica. Che, banalmente, ha un’influenza maggiore sul sistema di comunicazione. Fosse anche solo per la competenza linguistica. E allora l’unico modo per superare queste differenze è puntare sull’individualizzazione: occorre guardare il ragazzo, e la ragazza, nella sua realtà. Diciamo così: il sistema scolastico è tanto più democratico quanto più riesce a farsi carico della maggior parte degli aspetti dello studente. E’ questo l’unico modo per superare le differenze culturali. Ma c’è bisogno che gli insegnanti siano informati sul contesto culturale dal quale provengono i loro alunni. E avere ben chiaro che siamo in un contesto di regressione, non di progresso.
E’ solo una questione di metodo?
Ci sono certamente anche interventi nuovi, sperimentazioni da mettere in campo. Negli Stati uniti si parla molto di «discriminazioni positive». Ora, diversi tentativi sono stati un vero e proprio fallimento. Il discorso è complesso, ma in Francia ci sono sperimentazioni interessanti. Ad esempio quello dell’università di Scienze politiche di Parigi, una scuola pubblica ma di livello sociale piuttosto elevato e relativamente cara. Da tre anni inserisce, gratuitamente, studenti provienienti da licei malfamati – e quelli malfamati sono semplicemente quelli dove ci sono molti arabi – ottenendo così un doppio risultato: permettere a studenti capaci di accedere a una scuola di qualità e contemporaneamente dare nuovo lustro a quei licei discriminati per la loro composizione sociale. E’ soltanto un tentativo, ma sembra che vada piuttosto bene.
Cosa ne pensa della proposta di pagare di più gli insegnanti più impegnati?
Non mi sembra la forma migliore ma ci sono cose che possono essere fatte senza grande sforzo. La prima è che bisognerebbe concepire in modo diverso il tempo di lavoro, in modo da permettere la costruzione di percorsi individualizzati. In secondo luogo, ed è una cosa molto buona, in Francia si stanno valutando le scuole, crecando di individuare chi riesce a ottenere un valore aggiunto. In terzo luogo sarebbe giusto garantire avanzamenti di carriera agli insegnanti che gestiscono bene situazioni difficili. Io ho fatto parte di un’istituzione caricaturale: all’inizio, quando ero all’Ecole des hautes etudes i professori delle università ci trattavano come dei giovani inferiori e ci avrebbero lasciato a livello più basso per tutta la nostra vita. C’è stato un anno in cui i peggiori professori di Francia, cioè quelli che erano a livello più basso, eravamo io e il mio amico Le Goff (il medievalista, ndr), solamente perché l’unico criterio era l’anzianità. E’ assurdo. I metodi per scegliere possono essere molti. Ma bisogna finirla con questo egualitarismo stupido.

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