1 Ottobre 2005

Un confronto in libertà

Marco Deriu

È stato anzitutto un confronto in libertà quello che è avvenuto nel giugno scorso a Parma in occasione di un convegno dal titolo “Per amore della differenza. Percorsi di uomini e di donne per un altro rapporto tra i sessi” organizzato dall’Assessorato alle Pari Opportunità della Provincia di Parma e dal Centro Antiviolenza di Parma. Il convegno era stato pensato come occasione di discussione tra alcune donne del femminismo della differenza e alcuni uomini che in questi anni hanno riflettuto, spesso con l’aiuto di gruppi nati in alcune città, sulla differenza anche da una prospettiva maschile.
L’idea stessa del convegno nasceva da una serie di relazioni di scambio: le collaborazioni che ho avuto negli anni scorsi con l’Assessorato provinciale e con il Centro antiviolenza della mia città per alcune iniziative pubbliche; lo scambio con Giacomo Mambriani, un vecchio amico con il quale abbiamo scoperto qualche anno fa di condividere lo stesso interesse verso il femminismo ed in particolare verso il pensiero della differenza. La scoperta di un nuovo terreno di condivisione per un verso ha rilanciato tra noi un confronto e un’amicizia interpersonale e per un altro ha posto le basi per pensare assieme alcune iniziative tra cui la nascita a Parma di un gruppo misto di uomini e donne che si confrontano sulla differenza sessuale e per l’appunto l’idea di un convegno su questi temi. Il convegno, lo dico per inciso, fa parte di un progetto più ampio sulle trasformazioni del maschile e le relazioni tra uomini e donne che ho organizzato e promosso assieme all’Assessorato provinciale e al Centro antiviolenza e che prevede anche un ciclo di seminari di approfondimento, un cineforum e alcune presentazioni di libri.
L’ipotesi di un convegno e di un progetto su questi temi nasceva anche dalla volontà di non continuare semplicemente a frequentare i luoghi, gli incontri, le elaborazioni del femminismo ma di cominciare a porsi la questione di un ruolo propositivo di interlocuzione e confronto con le donne, valorizzando fra l’altro anche quelle reti di uomini che in questi anni si sono interrogate su questi temi.
Il convegno da questo punto di vista non è stata un’occasione formale. Sono intervenute molte persone da diverse città e in generale l’interlocuzione mi sembra che sia stata schietta e molto alta. Quella che vi offro è una mia personale e parziale rilettura.

 

La libertà femminile come occasione per gli uomini

Dopo i saluti introduttivi dell’Assessore Manuela Amoretti e di Cecilia Cortesi del centro Antiviolenza di Parma, Giacomo Mambriani ha aperto la vera e propria discussione sottolineando come una delle più importanti cause della trasformazione dell’identità maschile negli ultimi decenni «è stata l’avvento della libertà femminile, avvenuto con il femminismo a partire da più di trent’anni fa». Questo evento ha interpellato fortemente gli uomini sia nella sfera privata che in quella pubblica. Da una parte c’è stato uno spiazzamento ma dall’altra questo ha provocato anche un’apertura «dobbiamo approfittare della crisi per trovare spazi di libertà». «L’esperienza del gruppo di Verona – ha continuato Giacomo – è stata anche il riconoscimento che entrando in relazione di scambio con altri uomini l’astratta uguaglianza e la competizione con gli altri uomini cui siamo stati abituati si sgretolano e fanno posto alla relazione con la differenza viva di ciascuno, con i suoi conflitti e i suoi preziosi doni».
Stefano Ciccone ha prolungato questo ragionamento sottolineando come la libertà femminile sia un’occasione anche per gli uomini. Nel rapporto tra uomini e donne, ha sottolineato, c’è una tensione fondamentale che riguarda la storia maschile: «dietro una certa richiesta di riconoscimento, di legittimità c’è un problema di rapporto con la storia del maschile. Da una parte c’è sottinteso l’intenzione di dire “io non sono gli uomini che voi avete incontrato delle generazioni differenti, io sono una cosa differente” ma nello stesso tempo questa cosa corrisponde ad una continua tentazione di dire “io non ho nulla a che fare col la storia del mio genere”, cioè al tentativo di tirarsi fuori dalla storia del mio genere che invece è tutta dentro di me e io sono tutto dentro quella storia». Stefano ha ricordato così che a fianco della diffidenza femminile c’è anche una diffidenza maschile verso la propria storia. Perfino verso il proprio desiderio che spesso scopriamo come un territorio anch’esso colonizzato da un immaginario che altri hanno costruito.
Luisa Muraro ha sottolineato l’affermazione di Stefano “per me il fatto che ci sia libertà femminile è un’opportunità” «Ora questa cosa da sola è una rivoluzione. Questo convincimento interiore fatto messaggio, cultura politica, in modo che altre donne e uomini possano intendere è un fatto rivoluzionario perché mi sembra che in generale la libertà femminile agli uomini fa paura». La questione è stata ripresa nel suo intervento anche da Claudio Vedovati. Si tratta secondo lui di interrogare un disagio maschile e di trovare una modalità nuova nelle relazioni che restituisca libertà reciproca agli uomini e alle donne. Il problema ancora è come si declina una libertà maschile, come si riconosce un desiderio maschile, come ci si misurara con la storicità del proprio corpo. «Quali sono le risorse che ha un corpo che non genera? – si è domandato Claudio – La storia del maschile è organizzata attorno alla riduzione del corpo maschile a strumento per controllare il mondo quasi per supplire a questa mancanza di generazione. Abbiamo parlato della scienza, del diritto, dell’economia come protesi del corpo maschile, come strumenti tecnici, presentati come “neutri” per mezzo dei quali controllare il mondo». Anche per questo è difficile indagare il maschile attraverso un’ottica disciplinare, a partire dai soliti discorsi maschili sul mondo cercando di neutralizzare il sapere e di mettere una falsa distanza tra sé e l’oggetto da interrogare. A questo proposito Alberto Leiss interviene notando che se è giusto prendere le distanza dai luoghi dove il sapere maschile si organizza secondo certe logiche tuttavia «un ragionamento sul fatto che la cultura maschile dell’ultimo secolo – almeno quella più interessante – è una cultura della propria crisi è un elemento su cui bisognerebbe discutere».
Intervenendo dal pubblico Lilliana Rampello riprende la questione del nesso libertà-desiderio toccato da Stefano e sull’incontro tra uomini e donne: «Per me il desiderio è un luogo di libertà. Non so dire quanto è colonizzato, ma certo non immagino altri luoghi diversi dal desiderio per la possibile esistenza della mia libertà. Quello che mi interessa del ragionamento che state facendo voi è che l’autonomia di percorso che è stata giustamente sottolineata mi permette di vedere un uomo nei confronti del quale si può riattivare un desiderio. È vero che c’è una crisi degli uomini ma io credo anche che ci sia un calo del desiderio femminile nei confronti di quell’uomo che si presenta con una prevedibilità ai miei occhi ormai molto scontata. C’è anche una crisi del desiderio femminile perché o la differenza vive e nella differenza il desiderio è rilanciato oppure il desiderio cade. Da questo punto di vista il vostro racconto non riguarda solo la crisi degli uomini ma riguarda anche il modo in cui l’altra è chiamata ad un desiderio diverso».
Altri interventi dal pubblico, in particolare quello di Sara Gandini e quello di Vanessa Maher sottolineavano alcuni problemi incontrati nelle relazioni di scambio tra uomini e donne tra cui quello del maternage che implica una disparità non feconda ma mortifera e dell’erotismo usato come forma di potere nelle relazioni tra uomini e donne. Secondo Alberto Leiss il materno e l’erotismo «sono modi di relazionarsi tra uomini e donne che ci sono. Non è che possiamo fare finta che non ci siano né d’altra parte dobbiamo nemmeno rinunciarci del tutto perché non è che l’atteggiamento materno sia di per sé negativo. Anzi, ognuno di noi ha avuto relazioni con la propria mamma che sono state anche estremamente gradevoli. Probabilmente ogni uomo cerca questo tipo di rapporto non vedo perché debba essere anche in qualche modo riconosciuto. L’importante è avere una consapevolezza, una distanza critica. Così come il fatto che ci sia una tensione erotica, un desiderio sessuale tra uomini e donne e poi anche tra uomini e uomini e donne e donne, è un fatto che fa parte della nostra vita. Non credo che ci si possano dare delle regole che espungano queste cose».

 

Il confronto uomo-donna tra politica e interrogativi esistenziali

 

Ma su cosa si costruiscono le “relazioni di differenza” tra uomini e donne? A quale livello deve avvenire lo scambio? A questo proposito Stefano Ciccone ha espresso una difficoltà e un desiderio: «questa relazione tra donne e uomini deve rendere possibile un percorso di interrogazione di senso sulle nostre prospettive esistenziali, sulle nostre domande più profonde fino in fondo. Una cosa di cui sono spesso deluso nell’incontro con gruppi di donne o organizzazioni politiche di donne è una richiesta di interlocuzione che mi viene presentata in questa forma: “noi abbiamo costruito i nostri luoghi di interrogazione, di costruzione sull’identità, voi fate il vostro lavoro, quello che mi interessa discutere con voi è un confronto sui terreni della politica o sul terreno dei comportamenti sessuali degli uomini, la violenza sessuale o cose di questo genere. Questa è un’interlocuzione povera, misera, debole. A me interessa questo scambio se è capace fino in fondo di mettere in gioco quella che chiamo una domanda di senso tra noi».
Ma questa frattura tra la politica e le dimensioni più esistenziali e di senso sono un problema che riguarda il tipo di richiesta di interlocuzione o che riguarda la storia maschile? Secondo Claudio Vedovati «sta invece al maschile costruire dentro di sé una relazione diversa tra questi due universi. Finché il maschile non è in grado di recuperare una modalità di stare al mondo in cui questa scissione della quale si è continuamente nutrito non viene ridiscussa, trovo che non sarà forse possibile neanche per le donne misurarsi con il maschile diversamente. Sono gli uomini che devono offrire un terreno diverso». Secondo Claudio nella ricerca di relazione che le femministe hanno tentato c’è stata una sofferenza e una fatica legata all’avere a che fare con un certo tipo di uomini: «secondo me quella sofferenza e quella fatica dobbiamo caricarla su di noi, perché è la sofferenza e la fatica che noi uomini facciamo nel nostro stare al mondo». Insomma si tratta, secondo Claudio, di interrogare questa mancanza di aderenza del maschile a sé: «Questa mancanza di presenza è la modalità con cui storicamente il maschile si è sottratto alla relazione. Il maschile si sottrae alla relazione con l’altro genere se si sottrae alla relazione con se stesso. Se non affrontiamo questi nodi, la relazione con il femminismo, con le donne genera equivoci».
Alberto Leiss da parte sua evidenzia una certa difficoltà a distinguere tra il lavoro politico e l’attribuzione di senso «io credo che la politica sia esattamente agire in relazione con altri secondo una certa visione del mondo. Quando non abbiamo una visione del mondo comune c’è una crisi della politica». Ma su questo punto anche Stefano è d’accordo: «Per noi questa ricerca sul maschile è nata dentro la politica, ma dentro una politica non separata dalla vita, che era strettamente intrecciata con questa domanda di senso. Però vorrei trovare un luogo di interlocuzione con le donne che mi permetta di riflettere anche su quelle dimensioni legate alla vita intima e quotidiana, sull’amore, il piacere, la sessualità. Su questo credo sia possibile costruire un discorso pubblico».
Per Luisa Muraro lo stimolo di Stefano va inteso come proposta di rinforzare il significante della differenza, mentre Vita Cosentino che interviene dal pubblico sottolinea l’importanza che le relazioni degli uomini intervenuti non siano partite dalla questione della “crisi del maschile”, ma da «un lavoro simbolico più interessante», che si presenta come proposta di interlocuzione molto alta che invita a mettere in gioco la comune umanità e a interrogare il senso dello stare al mondo.

 

Politica, potere e soggettività

 

Nel suo intervento Letizia Paolozzi ha offerto invece il racconto di una piccola esperienza. La storia di “Emily”, una lista di 45 candidate che si sono presentate alle provinciali di Napoli dell’anno scorso facendo un apparentamento con il candidato presidente del Centro Sinistra. «Donne della Margherita e donne dei Ds hanno lavorato insieme. È stato certamente significativo visto quello che facevano nel frattempo gli uomini degli stessi partiti. Certo hanno dovuto in parte autocensurarsi, mettendo da parte le questioni su cui c’era un disaccordo e impegnandosi su alcuni temi comuni e importanti. È stato un tentativo di uscire da relazioni strumentali». Eppure questa ha scatenato un conflitto fortissimo, in particolare tra il partito dei Ds e la Margherita. «Lo scontro sulla Lista Emily, non è stato solo uno scontro di maschi contro le donne perché c’è stato uno scontro fortissimo anche tra le donne. Le compagne dei Ds non hanno assolutamente accettato questa lista. C’è stato un conflitto lacerante». Quanto agli uomini, da una parte coloro che facevano parte dei partiti li hanno osteggiati perché portavano via dei voti ai partiti del centrosinistra mentre gli uomini che erano in relazione con quelle donne si sono mossi in tutt’altra maniera: le hanno appoggiate e sostenute fortissimamente, le hanno votate. La lista ha preso oltre il due per cento e dunque una donna è andata nel Consiglio Provinciale. «Quello che c’è di fondo e che io leggo come il “gesto” di questa lista – ha notato Letizia Paolozzi – è che le donne disubbidiscono, non stanno più al loro posto. Quanto gli uomini anche quelli che hanno parlato a questo convegno – ha domandato provocatoriamente Letizia Paolozzi – disubbidiscono?»
Intervenendo a mia volta nel dibattito ho cercato di interrogare le origini del rapporto degli uomini con il potere. Nella tradizione maschile l’associazione tra politica e potere per gli uomini è considerata come qualcosa di naturale che non viene messa in discussione nemmeno per ipotesi. La domanda dunque è da cosa nasce questa dipendenza degli uomini dal potere, dalle cariche, dai ruoli pubblici. Per quello che ho potuto osservare e capire credo che questo amore, questa ossessione degli uomini per il potere nasca da una paura irrisolta verso esperienze quali la fragilità, la vulnerabilità, la morte. Ho l’impressione che la ricerca che gli uomini fanno del potere sia un esorcismo contro la morte e la fragilità della vita, contro la propria esposizione alla sofferenza. Il potere da questo punto di vista corrisponde al tentativo di controllare la propria vita, la vita degli altri, le relazioni e le decisioni di tutti per conquistare un senso di padronanza e sicurezza nei confronti di un mondo esterno che si avverte minaccioso. Viceversa, contrastare questa passione maschile per il controllo e per il potere significa partire dal riconoscimento della fragilità, della dipendenza dagli altri, dell’importanza delle relazioni. La fragilità è consustanziale al nostro essere viventi, alla nostra umanità e alla nostra relazione con gli altri. Gli uomini devono avere il coraggio di riconoscere e anzi mettere in gioco anche le proprie fragilità per rendere praticabile veramente una politica non basata sul potere.
Anche Lia Cigarini, riprendendo alcune affermazioni di Mambriani, è intervenuta sul tema del potere: «Credo che la cosa che realisticamente si può combattere è l’oggettivazione del potere, quando diventa qualcosa di astratto e di oggettivo, staccato dalla soggettività. Credo invece che se – come diceva Deriu – si parla della soggettività maschile o femminile implicata nel potere, attraverso la differenziazione e il riconoscimento del pluralismo dei soggetti implicati, si può iniziare un decentramento dal potere. Io credo che non si debba andare contro il potere ma decentrarsi rispetto al potere». Lo stesso concetto di autorità – ha notato ancora Cigarini – «non è nato perché siamo andate contro il potere, ma perché ci siamo districate nel potere, facendo venir fuori le soggettività, il rapporto con un’altra donna e di lì l’autorità femminile. È questo spostamento verso l’autorità che ha significato la novità della differenza femminile. Dunque più che una politica non basata sul potere, direi una politica che agisce districandosi di volta in volta, di contesto in contesto, dal potere».
Alberto Leiss raccomanda a questo proposito una riflessione sul contesto oltremodo critico in cui ci troviamo ad agire. Anzitutto «la rivoluzione femminile e il deficit di senso e di credito che mostra il simbolico patriarcale apre una questione enorme e rilevantissima. Poi questo avviene in un momento in cui ci sono altri cambiamenti notevolissimi: c’è una rivoluzione scientifica che fa continuamente passi in avanti, poi c’è una rivoluzione dell’informazione e tutto questo ci parla di un mondo completamente globalizzato. In questo momento io sento una esigenza maggiore di provare a far qualcosa perché le cose non precipitino molto negativamente. Il fatto per esempio che oggi siano state poste di nuovo delle questione sul riprodurre, sul potere del riprodurre, è una cosa che secondo me ci parla molto di una paura maschile sul fatto che si vuole riprendere quella libertà che è stata conquistata in questi decenni dalla parte femminile. C’è quindi un elemento di revanche che riguarda i rapporti tra i sessi. Ora io non disdegnerei il fatto che l’esperienza delle relazioni di differenza tra uomini e donne possa produrre un pensiero e anche una pratica politica più incisiva. Però a volte mi chiedo se alcune cose dette anche dal femminismo della differenza non abbiamo ingenerato anche qualche equivoco, per esempio la divisione tra politica “prima” e politica “seconda”. Io credo che ci sia un problema di come ci si relazione alla politica che esiste».
A questo proposito Luisa Muraro cerca di togliere di mezzo alcune ambiguità o possibili vie di fuga dichiarandosi favorevole a una politica non basata sul potere «purché non sia il pretesto per abdicare all’agire sul potere. Una politica non basata sul potere non vuol dire una politica separata dalla politica del potere, vuol dire lottare perché ci sia un agire politico non regolato dalla legge del più forte, dai fronti, dalle contrapposizioni, da chi vince e chi perde. Vuol dire che una soggettività maschile e femminile liberata da certi stereotipi e paure, possa diventare manifesta. La separazione decisa negli anni ’70 da parte del movimento delle donne è stata qualcosa che aveva una significatività per la differenza sessuale, non è stato “teniamoci la nostra differenza”. È stato uscire da una condizione in cui se una donna diceva “io” non sapeva se stava parlando lei o se stava cercando di collimare con un’immagine di lei che qualcuno le aveva fabbricato e messo davanti. La separazione non è stata un tra donne. Poi è diventata un tra donne, è diventato separatismo, ce ne siamo accorte, abbiamo capito che la cosa non andava più e abbiamo iniziato a combatterlo.
Nel dibattito si è discusso anche se per costruire questo scambio tra uomini e donne si dovessero far incontrare i gruppi maschili con le esperienze femministe. Lia Cigarini a questo proposito ha espresso delle perplessità, sottolineando che quando lei ha cominciato a parlare e a praticare “relazioni di differenza” si riferiva sempre a relazioni duali uomo-donna a relazioni significative con singole persone, quegli uomini con cui ha una relazione di scambio: «Io non mi presento come gruppo di donne e con difficoltà mi confronterei con un gruppo di uomini». Da questo punto di vista Lia Cigarini ha parlato della relazione di differenza come “significante universale” e della possibilità che la pratica di differenza possa essere messa al centro della politica. La politica, ha chiarito è una sola, anche se le donne ne hanno allargato l’immagine e la percezione. «Questa concezione della relazione non può secondo me stare nella separatezza. Né può la differenza femminile ricadere su se stessa o la differenza maschile ricadere su se stessa. Io penso proprio che la soggettività messa in gioco dal partire da sé e la pratica di relazione potenzialmente aperta, impedisca la ricaduta della differenza su di sé: il tra donne e il tra uomini». Può essere che il desiderio femminile si sia “acquietato”, ha anche affermato ancora Cigarini,che si sia ritagliato degli spazi chiusi, rassicuranti, che contraddicono la pratica di relazione. Ma da questo punto di vista l’invito rivolto anche agli uomini è quello di evitare questo rischio, di «evitare che ci sia una ricaduta della differenza maschile su se stessa, perché le potenzialità di questa politica sono tante».
Ad ogni modo, secondo Letizia Paolozzi non bisogna temporeggiare: «possiamo discutere subito senza aspettare che gli uomini vengano sul nostro terreno perché poi le discussioni avvengono anche con uomini che non ragionano sulla differenza. Dobbiamo parlarci, continuare a farlo. Abbiamo temi e problemi che ci stanno tra i piedi di continuo e dobbiamo “connettere” mettere in relazione, attraverso convegni come questi, attraverso siti, attraverso le riviste, attraverso le storie raccontate».

 

Pubblico-privato e trasformazioni della politica

 

Un altro tema importante approfondito nel dibattito ha riguardato la scissione tipicamente maschile tra privato e politico e le attuali trasformazioni ed intrecci. Il punto di partenza della mia riflessione era il fatto che fosse necessario porsi la questione non dell’assenza delle donne dalla politica, quanto quella dei rapporti degli uomini con la politica. È necessario interrogare la forma, i codici simbolici, le pratiche e le regole con cui gli uomini hanno immaginato la politica e lo spazio pubblico. Da questo punto di vista ho cercato di sottolineare gli effetti storici del dualismo pubblico-privato e la separazione della sfera della politica dalla sfera dalla sfera delle relazioni quotidiane e primarie, dai legami di dipendenza, di cura, di amore. Questo dualismo maschera a mio avviso altre opposizioni tipicamente maschili, quella tra sé e mondo e quella tra ricerca esistenziale nella propria vita, nella propria esperienza, nelle proprie relazioni e il proprio impegno politico. Il risultato è che gli uomini non riescono a portare le proprie esperienze umane più profonde nella propria pratica politica. D’altra parte ogni volta che si tenta di ragionare su un’altra forma di politica che non si muova nell’orizzonte del potere, della politica di potenza, della violenza, della necessità, della normalità della guerra, si rischia di venir accusati di mancanza di realismo e si viene guardati con paternalismo da chi si sente un politico navigato e sa come va il mondo. Dietro questo giudizio c’è evidentemente un assunto, un pre-giudizio antropologico – esplicito per esempio nella tradizione del cosiddetto “realismo politico – su cosa interessa gli esseri umani, su cosa muove la politica, su quali passioni spingono l’agire politico. Le passioni che vengono richiamate che talvolta vengono nominate e talvolta sono considerate implicite sono la paura, l’insicurezza, la competizione, l’antagonismo, il prestigio, la forza, il potere, l’interesse, l’utile, il successo, la sconfitta. E tutte queste passioni trovano poi un’articolazione sistematica in rappresentazioni, filosofie, teorie della scelta o dell’azione, in analisi geopolitiche o geoeconomiche che danno per scontato queste premesse antropologiche di fondo. Tutto questo ha a che fare con il dualismo pubblico privato, perché le passioni che vengono considerate rilevanti per la politica sono semplicemente quelle che gli uomini, i maschi hanno portato nella sfera pubblica sulla base del distacco dalla sfera delle relazioni primarie e quotidiane, dalle questioni della cura, della riproduzione, dalle relazioni di differenza, dalle esperienze di sofferenza, di malattia, di amicizia, di amore.
Intervenendo su questi temi e sullo scambio tra Claudio e Stefano sulla scissione tra politica e dimensioni personali Luisa Muraro riconosce che la dicotomia privato-pubblica risponde a un’economia simbolica maschile ma che il problema non si pone più in quei termini. Quel disfare le barriere tra pubblico e privato è già in corso: «il fatto che la vita soggettiva, le esperienze, le traversie si mescolino con il politico, è qualcosa che è già successo. Basta richiamare l’esempio di Bush e di Papa Wojtyla. Questa cosa è già fatta o meglio è già cominciata. L’ometto politico tutto riservato che si tiene a casa tutte le sue cose e si presenta con la faccia impassibile ogni volte uguale a se stessa per dire le cose stabilite da qualche parte, non piace più. Piace l’uomo che dice “sono omosessuale”, piace l’uomo che si fa fotografare in mutande, piace l’uomo politico che piange, che racconta che lui era alcolista e poi ha incontrato Gesù o chi per esso e che si è pentito. Certo è tutto teatro ma è un teatro vero. La faccenda è già in corso. Se vogliamo dire qualcosa dobbiamo non perdere la battuta. La possibilità è già lì. Pubblico e privato sono oscenamente mescolati». Qualcuno dal pubblico manifesta sconcerto su come Bush usa il privato per giustificarsi e si domanda come possiamo evitare questa strumentalizzazione del privato nelle dimensioni politiche. Ma Luisa insiste che dobbiamo bandire le paure. «Ora si usa il privato per scopi come si dice détourné. Vediamo cose vere usate per vendere saponette, telefonini o qualsiasi altra cosa. Il problema di far comunicare pubblico e privato esiste. Ma non perché ci sia una barriera tra i due che invece è stata abbattuta in tanti, ma perché questa cosa avvenga ad alto livello, a livello di verità soggettiva».
Subito l’intervento provocatorio di Luisa mi ha lasciato un po’ perplesso. Se l’uso del privato in nel mercato e nello spettacolo è palese, non riuscivo tuttavia a trovare nel mondo politico italiano ancora un’evidenza di questa tendenza, da anni così presente invece nel contesto americano. Ma mentre spiegava mi sono ritrovato nella sua idea che l’obiettivo oggi non è tanto quello di rompere una barriera tra pubblico e privato già in via di disfacimento per conto suo, quanto di impegnarsi affinché la connessione tra queste dimensioni della vita avvenga ad un livello alto. Così ho concluso trovando un esempio italiano – quello di Umberto Bossi e della sua esperienza di malattia – e tornando contemporaneamente sul tema a me caro del rapporto tra ricerca del potere e negazione della fragilità. Mi aveva colpito il momento in cui il leader storico della Lega è riapparso in tv dopo una dura esperienza di malattia che l’aveva drasticamente debilitato. Sullo schermo della tv è apparsa una persona evidentemente segnata nel corpo, nel modo di parlare, con a fianco la moglie che lo aiutava a sorreggersi. La mia attenzione era catturata perché pensavo potesse essere una cosa grandissima. Mi chiedevo: ma questi politici, questi uomini di potere, questi alfieri della virilità saranno stati cambiati da questa esperienza? Pensavo alla possibilità di mettersi di fronte alla fragilità del corpo, di fronte alla prospettiva della morte, alla dipendenza da altri esseri umani, al bisogno di cura, alla sensazione che non siamo scontati, che le persone vicino a noi non sono scontate, che non ci bastiamo, che necessitiamo delle nostre relazioni. E invece in Tv ho visto una persona che è intervenuta in pubblico dicendo: “la malattia non mi ha impedito di continuare la mia battaglia… io sguaino di nuovo la spada…” richiamando di nuovo la retorica dell’uomo virile. È come se per gli uomini queste esperienze individuali possano essere raccontate solo come ostacoli esterni, come prove da superare per dimostrare la propria virilità e non come esperienze personali che aprono a un’altra percezione di sé, delle proprie relazioni, del rapporto con la vita, ad un’altra idea di politica. Un’altra occasione perduta.
Cosa portare a casa dunque? Pensavo alla possibilità di un linguaggio con cui nominare emozioni e saperi che riguardano questo tipo di esperienze a un livello più alto. Alla capacità di raccontarsi in senso più ampio, assieme ad altri, per rilanciare la costruzione di significati e di senso. Ma Luisa – richiamando quegli uomini che in Spagna hanno scelto di manifestare mettendosi a stirare camice e gonne per strada – ci ha invitato a non trascurare anche il linguaggio dei gesti.

 

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