23 Aprile 2006
il manifesto

Un saggio sui beni comuni e disponibili

Una confutazione documentata della teoria classica liberista: i saperi crescono solo se «coltivati e posseduti» da quanti più soggetti possibile, anche per ragioni diverse

Franco Carlini

Mariella Berra e Angelo Raffaele Meo ci regalano un altro saggio dedicato all’«Informatica solidale», dopo quello da loro pubblicato, sempre per Bollati Boringhieri nel 2002.
Questa volta già il titolo, «Libertà di software, hardware e conoscenza», segnala che non si tratta solo di tecnologie digitali, ma di informazioni e saperi, aperti e condivisi. Come nel volume precedente, la descrizione degli aspetti tecnologici è comunque precisa e abbastanza esauriente, ma non specialistica; questa parte è utile perché è anche attraverso specifiche soluzioni tecniche che si favoriscono o si impediscono le società aperte.
Due aspetti è comunque utile sottolineare. Il primo è un aggiornamento della famosa Tragedia dei Commons. La formulazione originaria risale al 1968 (Garret Hardin) e suonava così: un bene comune, di tutti e di nessuno, quasi inevitabilmente è destinato a deteriorarsi fino a scomparire perché i singoli individui, in assenza di leggi e sanzioni, tenderanno a saccheggiarlo. Così sono andate le cose con i grandi banchi di pesca del Nord Atlantico, così può succedere in un bosco o pascolo comune. Tradizionalmente tali risorse erano preservate dalla comunità locale di appartenenza, sia con leggi che con meccanismi sociali di regolazione, ma quando la comunità più non c’è o non basti, allora l’unica soluzione, dice la teoria classica, è quella proprietaria: recintando i terreni e assegnandoli a lotti, i singoli proprietari, tutelando il proprio interesse, eviteranno che il campo vada in malora. Insomma la proprietà come soluzione efficiente a un problema di scarsità: troppi contadini e poca terra, allora un nobile diventa padrone e gli altri fanno i fittavoli o gli schiavi. Ovviamente quello della terra ai signorotti non era l’unico modello possibile; l’alternativa è «la terra a chi la lavora», ma entrambe partono dal principio di smembrare il bene comune, quando scarso.
Così andarono le cose nell’Inghilterra del settecento con le cosiddette enclosures. Ma nel caso dei saperi, che senza dubbio sono un bene comune, c’è una differenza profonda perché essi non sono una risorsa scarsa, fanno notare i nostri autori. Semmai succede esattamente il contrario di quanto càpita con i beni fisici: se condividere un pascolo tra tanti pastori egoisti può portare al suo esaurimento, viceversa condividere la conoscenza porta ad accrescere quella socialmente disponibile, anche nel caso che gli attori siano altrettanto egoisti, e cioè motivati esclusivamente dal proprio interesse individuale. Non c’è nemmeno bisogno di scomodare l’altruismo perché si verifichi questo effetto positivo. Come è possibile?
Il libro che abbiamo tra le mani ce lo spiega così: singoli soggetti hanno a disposizione un bene comune, come per esempio la rete internet o la moltitudine di programmi a sorgente aperta (open source). Molti di loro decidono di dedicare tempo e risorse ad arricchire quel patrimonio, per esempio migliorando un software già esistente, aggiungendo una voce all’enciclopedia Wikipedia, eccetera. Lo fanno per molti motivi, magari per conquistare prestigio come buoni programmatori, oppure per vendere servizi di consulenza, o ancora per gusto della sfida intellettuale. In ogni caso l’effetto dell’essere in rete o in una comunità è due volte positivo: per i singoli che usufruiscono delle risorse comuni, abbondanti e non estinguibili, e per la comunità nel suo complesso il cui capitale sociale cresce grazie all’apporto dei nuovi partecipanti. E’ questo il classico effetto rete: ogni nuovo ingresso l’arricchisce e rende più conveniente farne parte, così attirando nuovi membri.
Con un’altra differenza importante rispetto ai beni fisici: questi durano nel tempo anche quando non vengono usati (al massimo serve un po’ di manutenzione), mentre i saperi deperiscono, fino persino a estinguersi, se non vengono fatti circolare, usati e arricchiti dall’uso creativo. Del resto gli uffici brevetti sono ricolmi di invenzioni che non hanno mai trovato la strada del mondo reale, e l’80 per cento dei libri pubblicati non sono più disponibili perché gli editori valutano che non ci sia mercato per loro.
Questo bisogno insopprimibile delle idee di muoversi, pena la loro estinzione, ricorda molto da vicino il circuito del dono, come descritto dai suoi studiosi, a cominciare da Marcel Mauss nella prima metà del secolo scorso: donare, ricevere, ricambiare; la reciprocità non si indirizza necessariamente verso il donatore – nel qual caso sarebbe una semplice restituzione, che interrompe il circuito. Invece il dono (e la conoscenza) circola verso altri, a ogni passaggio crescendo di valore.
In definitiva: Open Source e internet sono sia integrabili nel mercato che oggetti di politiche statali (gli autori ne offrono una rassegna aggiornata), ma sono anche ascrivibili a un terzo paradigma, al di là di stato e mercato, quello dei beni relazionali, quelli cioè che traggono valore dall’arricchire le relazioni tra gli umani. Il Teatro del mondo in novanta scene. 194 pagine, oltre 250 cartine e grafici. Uno strumento indispensabile per comprendere il XXI secolo Introduzione di Ignacio Ramonet a 13 euro in edicola e in libreria 10 euro per le scuole-10 euro per gli abbonati vecchi e nuovi a Le Monde diplomatique/il manifesto che ne faranno richiesta NUO VA EDIZ IONE Per informazioni 06.68719330 Per la vendita diretta consultare il sito www.ilmanifesto.it; oppure fare un versamento sul ccp 708016 intestato a il manifesto via Tomacelli 146 – 00186 Roma aggiungendo 2,00 euro di spese di spedizion e per ogni copia.

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