27 Marzo 2003
il manifesto

Una partita dopo la guerra

Silvia dai Prà

Qualche mese fa una minuscola fetta del mondo sportivo iracheno ha lanciato una proposta attraverso la stampa internazionale. Era la fine di ottobre, la guerra sembrava ancora evitabile e la nazionale femminile di calcio iracheno propose una partita amichevole con la squadra Usa, nel nome della pace. Il calcio femminile è presente in Iraq fin dagli anni `50 e dopo un primo tentativo negli anni `70, la nazionale è stata ricreata 4 anni fa. L’Iraq è stato uno dei pionieri dell’emancipazione femminile nel mondo arabo. Le donne rappresentano una fetta consistente della popolazione universitaria, sono presenti al parlamento e nei ministeri; l’infibulazione non è praticata, così come non ci sono normative sul vestiario. La situazione è peggiorata dopo l’embargo, con la crisi economica e il riavvicinamento del regime a posizioni più tradizionaliste. L’Iraq resta però uno dei paesi arabi in cui le donne godono di maggiore libertà. “Nessuno pensa che lo sport sia solo per gli uomini – ha detto la calciatrice Nida Yasser, 25 anni – anche se mia madre era un po’ preoccupata quando ho cominciato a giocare a calcio. Adesso lo ha accettato e prega per me”. Sopravvissute alle torture e alle punizioni che hanno spesso colpito gli atleti iracheni per volontà del figlio di Saddam Hussein, Uday, le ragazze del calcio iracheno si allenavano (prima dell’inizio della guerra) liberamente, con tenute da calcio regolamentari, calzoncini neri e magliette con i colori nazionali. Nel 2001 hanno vinto la medaglia di bronzo a un torneo di calcio islamico tenutosi in Iran. Kholud Layez, 35 anni, è il capitano e il difensore centrale della squadra. Ai giornalisti ha dichiarato: “E’ un mio grande desiderio affrontare la squadra americana. Vorremmo mostrare che anche noi sappiamo giocare a calcio. E forse le giocatrici americane hanno una posizione più aperta rispetto a quella del loro governo. Forse a loro interessa sapere che l’Iraq è una nazione civile, e che il suo popolo ama lo sport, esattamente come loro”. Le ha fatto eco Sana Ahmed, portiere della squadra: “Con una partita amichevole la battaglia potrebbe essere civile, un confronto sul terreno di gioco”.Dagli Stati uniti non è arrivata alcuna risposta, se non qualche commento a margine sul dislivello tra le due formazioni che renderebbe la partita impraticabile. Dalla Federazione irachena nessuna proposta ufficiale è stata inoltrata alla Fifa, pronta ad appoggiare ogni iniziativa che possa fare del calcio uno strumento di contatto tra culture diverse, ma incapace di prendere un’iniziativa personale. Il suggerimento delle calciatrici irachene è stato però raccolto dal calcio femminile italiano: “Non sarebbe un’occasione straordinaria? E per arginare il dislivello di gioco, non potremmo rafforzare la nazionale irachena con rappresentanti degli altri paesi? E perché non giocarla qui a Roma? Il giorno di Pasqua? Magari ci viene anche il Papa!”, questa la reazione euforica del sito calciodonne.net, che ha immediatamente cercato di attivarsi. E che ha provato a coinvolgere Mia Hamm, stella del calcio Usa, presidentessa di un’associazione di beneficienza, ma anche figlia e moglie di un militare. Hamm si è detta troopo impegnata. Le calciatrici irachene, dopo questa breve apparizione sui giornali, sono scomparse di nuovo nel nulla. Finita la guerra, quelle sopravvissute ci riproveranno.

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