20 Ottobre 2008

Una scuola primaria fatta bene? Che ci fa onore?

“C’è tanto da indagare ancora, da inventare e da innovare in questo mondo, ma oggi finalmente abbiamo capito che niente sarà veramente guadagnato, se non avremo imparato a riconoscere, rispettare e custodire quello che di buono già esiste.
C’è tanto da criticare e da cambiare in Italia, nella vita politica come nel resto. Ma niente della nostra rivolta servirà a niente, se non avremo imparato a riconoscere e a traghettare verso il futuro quelle cose che sono fatte bene e ci fanno onore.”
Luisa Muraro

Daniela Esposito

l tema con il quale superai il concorso magistrale a Milano parlava di pluralità degli interventi educativi nella scuola. Erano gli anni Ottanta e il dibattito psicopedagogico e didattico sul superamento del maestro unico “tuttologo” infervorava il mondo della scuola e dell’accademia. Divenni “maestra unica” ma per pochi anni; aderii tra le prime alla sperimentazione e poi alla riforma del Novanta che introduceva i moduli nella scuola elementare. Vi ho poi insegnato per molti anni. Ho scoperto dai giornali, pur essendo ‘addetta ai lavori ‘, della cancellazione di questa bella scuola che ci fa essere orgogliosamente al secondo posto in Europa. Mi si è stretto il cuore. Non lo affermo retoricamente, né tanto meno con un interesse di parte, poiché sono ormai molti anni che ho lasciato la scuola primaria passando alla secondaria. Sento il dovere civile di raccontare a coloro che lo ignorano il valore intrinseco di questo segmento di scuola, perché non è ovvio che un genitore, un docente della secondaria, o un nostro qualsiasi concittadino, debba conoscerlo.
Vorrei fornire un’informazione chiara e onesta su ciò che si sta spazzando via con la leggerezza di una mano che si libera distrattamente di briciole fastidiose.
Una Ministra no, non dovrebbe ignorare l’oggetto del suo mandato, dovrebbe colmare attraverso buoni ed esperti consiglieri quello enorme divario che la fa totalmente avulsa (una giovane avvocata precocemente datasi alla vita politica locale) da ciò di cui parla. Faccio fatica a chiamarla in causa con le mie argomentazioni perché so che non è in ascolto. Forse non può, forse semplicemente non vuole perché è più facile raccontarsi efficaci bugie che andare
alla radice dei problemi. Di certo non ha neppure finto di ascoltare le altre ragioni, non ha aggirato abilmente le regole della democrazia, le ha definitivamente superate in una presunzione di onnipotenza e di onniscienza che già nella forma si è fatta arbitrio. È la prima volta che una riforma della scuola è varata per decreto, Decreto Legge 1 settembre 2008, n.137, e a sorpresa, senza aver nemmeno provato a discuterla col mondo politico e le parti sociali.
Vorrei affidare la mia difesa dell’attuale scuola di base ad alcune argomentazioni che cercherò di rendere le più possibili chiare e schematiche. Ai miei tempi si parlava delle sfide della società complessa, ma non erano vuote parole. Era la nostra, e sempre più velocemente continua a esserlo, una società in continua trasformazione. Dai tempi ormai lontanissimi in cui l’anziano
era portatore di una cultura verso il giovane, si sono superati molti modelli fino a quello attuale in cui le conoscenze sono in continua evoluzione, per cui inversamente è dal giovane che si muove la conoscenza verso l’adulto. È questo che ha distrutto le gerarchie, non il ’68 (calamita
e causa di ogni male per i nostri ingenui ministri) che con le sue rivoluzioni non faceva altro che interpretare i segni dei tempi.
Oggi un bambino di cinque anni spiega a suo nonno o al suo non più giovane papà come venire a capo di un problema col PC o come usare il cellulare: ciò sicuramente toglie autorità, sicuramente conferisce una maniera diversa di stare al mondo dei più giovani, di relazionarsi con gli adulti. Dunque cosa deve imparare un bambino a scuola? Secondo la Ministra leggere, scrivere e contare, almeno fino a che sono piccoli: non c’è bisogno di molto altro… Che assurda semplificazione che ci riporta indietro di secoli a concezioni nelle quali l’infanzia era uno stato d’inferiorità, un non essere, da tenere sospeso senza diritti, quasi una malattia che solo la crescita avrebbe curato. Se le donne e gli uomini del nostro tempo hanno bisogno di flessibilità e di continue aperture all’innovazione, alle nuove conoscenze; se devono essere
continuamente disposti ad apprendere per tutta la vita, ciò significa che la scuola, e soprattutto nelle sue fondamenta, oltre che fornire specifiche abilità strumentali, deve porre solidamente le basi di una disposizione continua a imparare a imparare, di un’apertura al mondo, alle conoscenze, all’acquisizione di competenze e abilità nuove, potenzialmente illimitate. Non è forse per questo motivo che la scuola primaria ha retto il confronto con il cambiamento? Perché la sfida dell’educazione e della formazione dai sei ai dieci anni è stata affidata a una pluralità di figure che hanno potuto conseguire un minimo di specializzazione e condurre i bambini nelle molte e complicate strade dell’educazione e della conoscenza. Non si tratta solo di contenuti che naturalmente bisogna prima conoscere per poterli insegnare (si pensi alle lingue straniere, all’informatica, alle educazioni motoria, musicale, alle immagini, alla religione…), si tratta anche di approcci plurimi nelle relazioni, di attitudine al confronto, alla
cooperazione, di stili educativi diversi che, piuttosto che disorientare il bambino, lo rassicurano. Infatti nella scuola trova un mondo compatibile con quello dal quale proviene e al quale ritorna ogni giorno. A che giova, infatti, restaurare la relazione alunno-maestro unico, come naturale esito della relazione primaria con la madre, con la famiglia, se le famiglie da cui questi bambini provengono sono spesso famiglie multiple, disgregate, nelle quali si alternano una varietà di figure, di contesti, di stimolazioni? A che serve ridurre il tempo-scuola per restituire spazi e tempi di cure e di giochi distesi a bambini stressati e pluristimolati, se poi aumenterà la solitudine della maggioranza di questi bambini che, nel rientrare a casa, troveranno nel migliore dei casi una baby sitter, molti la televisione, molti altri ancora la strada. A quale modello di famiglia si guarda, all’illusorio “Mulino Bianco televisivo” o alla dura realtà di madri e padri che insieme devono lavorare da mattino a sera per tirare avanti. Si è parlato di non meglio precisati interventi pomeridiani in favore delle famiglie che li richiedano, interventi quindi fuori dalla programmazione educativa e formativa di un progetto di scuola per tutti, da dedurre come soluzioni di “parcheggio”, di mera vigilanza e assistenza. Infatti, se fossero altrimenti, perché eliminare docenti, perché ridurre tempo pieno e abolire i moduli?
È la pluralità di docenti che può aprire spazi di contemporaneità in cui superare la rigidità della lezione frontale, fornire opportunità per l’attenzione individualizzata alle situazioni di svantaggio e di disagio. Oltre ogni statistica, da addomesticare a sostegno della propria idea di scuola, il dato incontrovertibile che accomuna tutte le rilevazioni, unanimemente riconosciuto,
individua, nel rigetto della selezione precoce e nell’attenzione a ogni singolo alunno in difficoltà, gli elementi che concorrono al successo dei sistemi formativi nei rispettivi Paesi. La scuola primaria è il segmento di scuola in cui queste pratiche hanno possibilità di essere
messe in atto e in cui avrebbero dovuto essere potenziate.
Ciò che maggiormente turba e sconforta è che la ragione di questo scempio non risieda nella differenza di progetto educativo di questa o di quella parte politica, quanto piuttosto nel fatto che A QUALSIVOGLIA PROGETTO EDUCATIVO SIA STATO PREMESSO L’IMPERATIVO CATEGORICO DI TAGLIARE LA SPESA, FARE CASSA. Se è l’esigenza di trovare denaro (e neppure per gli stipendi dei docenti, anche questa è una risibile favola…) la bussola che orienta l’intrepido cammino riformista del Governo, possono venire a raccontarci quello che vogliono, ma neppure per un istante possono cancellare il sordo dolore di sentirsi svalutati e presi in giro, la mestizia e la frustrazione con la quale in questi giorni tantissime buone maestre varcheranno le aule scolastiche.
Consiglio la visione del film “L’amore che non scordo – storie di comuni maestre”, di Vita
Cosentino, Maria Cristina Mecenero, Daniela Ughetta, Manuela Vigorita. Il film realizzato a  Milano lo scorso anno, evidenzia l’invisibilità sociale di pratiche di altissimo profilo psicopedagocico e didattico, realizzate nella scuola primaria.

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