4 Ottobre 2004
l'Unità

Uomini e donne, ora che tutto è cambiato

Tiziana Morino
risposta di Luigi Cancrini

Caro prof. Cancrini,
negli ultimi anni, mi sono occupata molto di formazione diretta alle donne, con particolare riferimento alla differenza di genere, allo sviluppo dell’identità ed al sostegno all’autovalorizzazione.
Ebbene, credo di avere indagato abbastanza a fondo i confini tra assertività ed egoismo e quanto l’identità di ruolo e quella di genere storicamente determinata condizionino (perlopiù in maniera inconscia) le donne, facendole costantemente sentire in colpa se scelgono se stesse piuttosto che il ruolo che è stato loro socialmente assegnato, ricacciandole inesorabilmente nei tentacoli di doppi legami e di ricatti morali, spesso fonte di patologie, o comunque di vite a metà, di sogni infranti, di tristezze croniche, di sfiducia in se stesse e di grande senso di inadeguatezza.
Ed allora, dal momento che le donne sono spesso al centro delle relazioni (soprattutto familiari) e dal momento che le relazioni sono dei sistemi, il sistema non può essere in equilibrio (sano) se uno/a dei/delle componenti è danneggiato/ a. E se io (donna) continuo ad agire secondo la domanda “è giusto/è sbagliato” (senso di colpa) e non “è bene/è male per me”, “che cosa desidero/che cosa non voglio” (assertività), continuerò a portare elementi di patologia nella relazione.
Mi fermo qui, perché il tema è vastissimo e delicato.
Tiziana Morino

 

Il tema da te sollevato è un tema complesso. La risposta che proverò a darti dunque, è solo un tentativo di fornire elementi di riflessione da un punto di vista che è il mio, quello di chi occupa delle famiglie che stanno male e che chiedono aiuto: quello in cui con più forza e in modo più duro e chiaro, a volte apparentemente disperato, ci si confronta, abitualmente, proprio con questo tipo di problemi.
Il punto da cui penso che dovremmo partire, cara Tiziana, è quello che riguarda la famiglia intesa come sistema umano definito dalla necessità di perseguire alcuni obiettivi fondamentali: la stabilità affettiva dei suoi membri, il nutrimento e l’allevamento dei figli, la protezione dei più deboli. Nello schema di Parsons e Bales, un classico della letteratura sociologica su questa tema, la divisione dei ruoli prevista per realizzare questi obiettivi propone all’uomo il compito dei rapporti con l’esterno (del guadagno, del lavoro, della protezione fisica) e alla donna quello relativo alla gestione dei rapporti interni (il nutrimento, fisico ed affettivo, la casa e la sua atmosfera). Il quadro che ne risulta è quello dell’infanzia mia e di tanti altri della mia età, il padre che lavora e la madre a casa, una circolazione d’affetti basata sulla reciprocità della protezione materiale e psicologica fra i coniugi, una tendenza a riproporre questo tipo di divisione di ruolo fra i figli, maschi e femmine, da educare in modo notevolmente diverso. Con due conseguenze fondamentali: quella di una aspettativa chiara su quello che ognuno deve fare in una famiglia e quella, meno evidente ma molto più importante, di una convinzione condivisa intorno al fatto che il sistema (la famiglia) è più importante dell’individuo che si realizza sostanzialmente all’interno del ruolo che la famiglia gli dà.
Qualunque sia il giudizio che si dà di questo “quadretto” (che per alcuni è ancora sano e positivo e che altri alternativamente ridicolizzano o demonizzano), quello che tranquillamente possiamo dire è che esso non corrisponde più alla realtà né alle aspettative del mondo in cui viviamo oggi nella società occidentale “avanzata”. Più gli anni passano, più quello che diventa chiaro è il modo in cui la famiglia è sentita e vissuta come un’istituzione le cui finalità non possono e non debbono travalicare quelle di un individuo che deve soprattutto realizzare sé stesso utilizzando eventualmente anche la famiglia in questa direzione. Proponendo l’idea, sempre più diffusa, di una famiglia non eterna, provvisoria, in possibile, continua evoluzione e quella, che ad essa direttamente si collega (e da cui essa probabilmente dipende se si utilizza il punto di vista della coscienza di sé, soprattutto “al femminile”) di una sostanziale inaccettabilità della divisione dei ruoli, della separazione netta e chiara fra il ruolo dell’uomo e quello della donna.
Passaggi così complessi, questo è a mio avviso il vero punto di crisi del nostro tempo, non avvengono in modo unitario, con velocità uguale per tutti. Nel muoversi caotico delle persone e delle idee, persone e famiglie si dispongono oggi lungo un continuum che separa due estremi, teorici, caratterizzati dalla chiarezza estrema dei presupposti, più antichi o più moderni, intorno a cui una coppia costruisce la sua idea di famiglia. Con una complicazione ulteriore legata al fatto per cui uomo e donna, incontrandosi, non hanno affatto chiaro, spesso, né il pensiero dell’altro né la complessità del proprio: nascondendo prima di tutto a sé stessi un bisogno di modi antichi e tradizionali di stare insieme dietro una adesione, apparentemente facile e naturale, alle abitudini “nuove” e “ragionevoli” della loro generazione; o nascondendo, al contrario, aspirazioni forti e non consapevoli di cambiamento dei ruoli tradizionali dietro atteggiamenti più legati al passato. Con risultati che sono, a volte, creativi e in vario modo affascinanti se la coppia ha la fortuna e la forza di metabolizzare il nuovo che emerge nel corso degli anni ma portando, spesso, a delle crisi: aperte o chiuse, drammatiche o opache, ma sempre assai dolorose per chi le vive in prima persona e per chi ne subisce le conseguenze.
Tutto questo per dire, cara Tiziana, che io condivido pienamente la tua analisi sulle difficoltà e sulle contraddizioni vissute dalla donna ma per suggerire, nello stesso tempo, che l’uomo non sta per niente meglio, che vive confusioni e contraddizioni almeno altrettanto pesanti. E per ragionare, insieme, sull’idea per cui un miglioramento della situazione può basarsi solo sullo sforzo di aiutare chi forma una famiglia (o chi si trova in crisi dopo averla formata) a capire qualcosa di più su quello che realmente vuole da sé stesso e dall’altro. Come si fa in terapia, ragionando sui patti impliciti della coppia e sulla complessità delle motivazioni alla base di quella che all’inizio sembra la più naturale e la più semplice delle nostre scelte. Poco altro è possibile fare, oggi, per stare meglio e per far stare meglio gli altri. Soprattutto se l’etica cui ci ispiriamo è quella dell’individuo che non vuole più chiedere consigli su quello che deve fare ad una religione in cui non si crede più o ad una convenzione sociale che non sa più essere univoca. Essere liberi, infatti, non vuol dire agire d’impulso, vuol dire conoscersi, ragionare e controllarsi. Nel rispetto di ciò che vogliamo davvero per noi e per l’altro, non di quello che ci sembra di volere spinti dalla paura o dall’entusiasmo, dalla tenerezza o dalla rabbia.

Print Friendly, PDF & Email