29 Dicembre 2003

A partire da “Uomini, non è proibito restituire”

Giuliana Cecconi

Care/i tutte/i,
prima di tutto vi ringrazio per avermi risposto e con argomentazioni tanto stimolanti.
Sono grata alla Libreria delle donne che mette a disposizione questo spazio di discussione che permette scambi tanto interessanti. Per comodità divido la mia risposta in tre parti:

Per Sara, Elisabetta e Laura C.
Io capisco che sia interessante e vi stia molto a cuore lo scambio che avete instaurato con gli uomini del vostro gruppo, anche se penso ci sia molta differenza tra confrontarsi con uomini che, almeno in parte, sono interessati alle esperienze,
ai saperi e alla politica delle donne, e gli uomini che incontriamo e con cui dobbiamo relazionarci tutti i giorni all’esterno di un contesto comunque privilegiato e facilitante.
Ma il punto che mi interessava capire meglio è il vostro posizionamento rispetto al percorso che questi vostri “compagni di viaggio” stanno affrontando.
Perché io continuo a leggere, nella vostra lettera precedente e in questa vostra risposta, non uno scambio, ma un’accoglienza a senso unico.
Che trovo pericolosa se individuata come strategia vincente per poter trovare nuove strade da indagare assieme con gli uomini che incontriamo nei contesti personali e lavorativi.
Mi sembra che ricadiate, ancora una volta, nel ruolo di cura e responsabilità destinato alle donne (studiato peraltro anche da femministe come Gilligan).

Per Elisabetta
A me non interessa mettere in scena il conflitto tra i sessi. A me interessa mettere in scena me stessa, cioè essere io con le mie scelte, i miei valori, il mio dire, la mia azione.
La trasformazione del tuo “quotidiano”, così come lo descrivi, non ti nascondo
che mi inquieta: tu hai ascoltato, dato credito, fiducia, hai dovuto essere più strategica, mediatrice e propositiva. E il tuo capo che percorso ha fatto? Sei riuscita a modificare anche il suo modo di porsi e di considerarti? C’è stato “reciproco riconoscimento”?
Quello che tu dici di avere messo in atto mi sembra quello che tu stessa, al punto 3 della tua lettera, chiami adattamento femminile alle dinamiche del maschile.
Ma a me, a questo punto della mia vita, della mia esperienza, del mio posizionarmi
nel mondo, la costruzione del “soggetto politico complesso” mi interessa solo se prima di tutto e soprattutto non sono solo io donna l’agente del cambiamento.

Per Umberto e Luciano
Cari Umberto e Luciano, effettivamente nella mia lettera davo un pò per certo che dagli uomini ci si può attendere solo ciò che si è sempre trovato. E dalla vostra risposta questo pensiero mi esce confermato. Infatti, poiché dichiaro che il processo di uscita dal patriarcato degli uomini spetta a loro, che ne sono ancora molto lontani, e che comunque
io, come donna, non me ne voglio occupare né preoccupare perché devo e voglio
ancora occuparmi e preoccuparmi di mantenere saldo, chiaro, visibile e autorevole
il mio posizionamento nel mondo, e, casomai, spendere energie perché questo
diventi patrimonio acquisito dal maggior numero di donne possibili, ecco che subito decidete che di separatismo si tratta, con tanto di lezione su quello che il separatismo ha significato per le donne nel passato e sentenza finale che il separatismo, oggi, non ha più senso. Potete, per favore, lasciare parlare le donne sul separatismo passato e presente?
Sappiamo noi perché l’abbiamo praticato e/o continuiamo a farlo.
Sforzatevi di non volerci rispiegare la nostra storia, penso sia il primo passo del percorso che volete intraprendere.

Per tutte/i
Ciò che mi ha più colpito nelle risposte è l’uso dei termini maschile/femminile usati quali sinonimi di uomo/donna (vecchia lezione femminista quella di indagare il linguaggio quale dispositivo di produzione e riproduzione del genere?).
Una soggettività, quindi, eteropatriarcale, nuovamente costretta nel dualismo maschile/femminile, che non tiene conto né dei rapporti di potere, che fondano il senso di identità, né delle soggettività irriconducibili nel binario maschile/femminile di cui parlano Butler, Haraway, de Lauretis e Braidotti.
Se il separatismo, con le sue certezze dicotomiche, è una politica superata, perché usare un linguaggio che riconferma una “identità di genere” monolitica che non può che i cacciare le donne all’interno del patriarcato?

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