1 Novembre 2002
Global n°0

Vento nel silenzio

Frammenti dell’ultima conversazione con il subcomandante Marcos, durante la marcia del marzo 2001 verso Città del Messico.
F. Leon – A.L. Lara

Più che qualcosa di definito, questa marcia sembra un percorso aperto, che ha le caratteristiche di un processo. Bisogna interpretarla come un mezzo, come un fine, o una meta?

Si, è così. Per questo noi vediamo il Zocalo (la piazza principale di Città del Messico) in un altro modo. Mentre per gli altri era la meta, per noi era solo una delle tappe. Ma la realtà è che non sappiamo nemmeno dove ci porterà. 0 meglio lo sappiamo, ma è una meta talmente lontana che, come dice il comandante Tacho “non ci sono parole in spagnolo che la possano definire”, solo in dialetto la lingua esprime quello che voglio dire. Il cammino che abbiamo intrapreso è un cammino “altro”, come diciamo noi; non è solo un cammino da percorrere, ma un cammino che ti cambia. Non c’è un suolo passivo e un soggetto attivo, il viaggiatore, che si sposta attraverso di esso, ma in qualche modo il cammino diventa esso stesso viaggiatore, e tu cammino. Lo stesso procedere della marcia produce effetti di profonda trasformazione in coloro che ne fanno parte, fino al punto che una comunità potrebbe dire “ho camminato gli zapatisti”. Prima o poi arriveranno a dirlo e, allo stesso tempo, gli zapatisti potranno dire senza contraddirsi: “ho camminato per quella comunità”. Questo paradosso, o gioco di specchi, è così complicato che io non mi azzarderei a dire chi ha camminato e chi “è stato camminato”. In realtà la marcia non è qualcosa che si comprenda con la testa né con il cuore, ma con lo stomaco, come diciamo noi. E’ qualcosa che non può essere compreso, assimilato o sentito unicamente dall’intelletto o dal sentimento poiché rappresenta il ponte che c’è tra entrambi. La marcia può essere compresa solo da un essere umano per ciò che ha di umano e non per ciò che riguarda il suo essere.

 

Durante la marcia, abbiamo osservato l’ammirazione e l’affetto che ha la gente per il personaggio Marcos. A volte sembra persino che si manifesti in modo scomposto e esagerato. Non ti inquieta che stia nascendo una specie di culto della tua personalità?

 

Qual è il culto, che gli obiettivi telescopici puntino qualcuno o che gli chiedano autografi? Ad ogni modo, ci sono in gioco un vuoto e un’aspettativa, fondata o meno. In qualche modo le persone devono convincersi che nessuno farà per loro ciò che non fanno da sole.
Il loro modo di applaudire Marcos, penso significhi “applaudo il tuo valore collettivo, la tua ribellione come collettività”. Perché era lui ad essere lì, ma se al suo posto avesse parlato Tacho avrebbero applaudito lui. Sapevamo che al di fuori ci si sarebbe appoggiati di più a un individuo che a un collettivo, perché fuori dalle comunità, nel mondo, ancora non si sa parlare coralmente. Tuttavia nelle comunità l’utilizzo di Marcos è degno, è diverso. Io sono stato giudicato in varie comunità per errori o per non aver rispettato i loro usi e costumi. Però capisco che all’esterno la nozione di collettività non è oggetto né di ammirazione né di disprezzo e attacco. Gli eroi della storia passata non sono propriamente esistiti: sono stati costruiti dall’immaginazione collettiva e in realtà è stata la stessa collettività a produrli. Non c’è niente di meglio che portare questo concetto all’estremo, niente di meglio che proporre un personaggio nato volontariamente per dire non sono”. Se alla gente non interessa sapere chi è dietro il passamontagna, vuoi dire che ha capito la parte fondamentale, è cosciente che ha costruito un personaggio che non gli ruberà il posto nella storia. Credo che più avanti tutti quanti capiranno che il personaggio è stato costruito collettivamente, che non esiste. Nessun libro di storia oserà dire che il Subcomandante Marcos ha fatto questo o quello, perché nessuno saprà chi è. dov’è nato e vissuto, qual è la sua famiglia o cosa ha studiato. Per questo il Subcomandante Marcos è impossibile da comprendere in questo senso.
Alla fine arriveranno a dire, e credo a ragione, che un personaggio, il Subcomandante Marcos, è stato il pretesto, a mio parere cattivo salvo buone eccezioni, per far accadere quello che è successo.

 

Una delle rotture più importanti di cui siete protagonisti è sull’uso del linguaggio La vostra fuga dallo stile astratto e rigido dei testi politici classici è stata giudicata positivamente da molti. E frequente, da parte vostra, l’uso di un linguaggio letterario che in alcune occasioni riesce a unire realtà e finzione.

 

Lo dico con parole probabilmente pedanti, ma non per questo meno vere- vivendo nella selva Lacandona ogni finzione è nulla in confronto alla realtà, e il racconto più inverosimile può diventare insignificante.
In questo senso, la nascita di Durito, uno scarafaggio, non ha da aggiungere molto a quello che accade nella selva. Lo chiamiamo perché ci aiuti a non prendere troppo il “volo”, come diciamo noi, per aiutarci a creare un’ancora che ci tenga con i piedi per terra. Durito appare nel 1985, un periodo in cui l’Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale era costituito da sei persone. Io ero il capitano in seconda di fanteria, e dovevo convincere gli altri cinque che saremmo arrivati a vivere giornate come quella di oggi. Ma era difficile perché non c’era altro che formiche, vegetazione, montagne e pioggia. Inoltre avevamo poco da mangiare e dovevamo bere la nostra orina perché non avevamo trovato acqua, e ci eravamo persi nonostante avessimo con noi una bussola. Quella notte dormimmo di fronte al fuoco, e io cercavo di convincere quello che adesso è il Maggiore Mosè, ma che all’epoca era una semplice recluta, che un giorno ci sarebbero state migliaia di persone ad ascoltarci, che ci avrebbero seguito, e che le nostre parole avrebbero fatto il giro dei mondi. Tutti mi guardarono e uno dei compagni, – che adesso è il mio comandante in seconda disse: “No, questo è impazzito. Come può direi che un giorno le nostre parole faranno il giro del mondo e che verrà gente da tutti i paesi se qui siamo solo in cinque e nemmeno abbiamo da mangiare?”.
In quel momento arrivò Durito e iniziò a spiegare, nel miglior modo possibile, quello che accadeva nel mondo, raccontando una storia che, anche se usciva dalle mie labbra, in realtà veniva dall’essere più miserabile di tutta la selva Lacandona: da uno scarafaggio che viveva, letteralmente, nella merda degli animali. La chiave era che dovevamo dare a Durito una serie di caratteristiche non per convertirlo in umano, ma per renderlo superiore a qualsiasi essere umano. Fortunatamente Cervantes era già nato, aveva scritto e ha ceduto gentilmente il testimone del suo Don Chisciotte a Durito. Così, nell’unica apparizione nei dieci anni prima della guerra, iniziò a cercare di spiegare quello che stava facendo il neoliberismo. Dopo il 1994, Durito torna di nuovo con una missione diversa: ricordare a Marcos che è un servitore, che non è il capo, che è meno di uno scarafaggio che vive nella merda degli animali. In questo senso, Durito diventa un cavaliere errante di cui Marcos è lo scudiero.
Credo che ironizzare su sé stessi sia sano e raccomandabile. Durito costruisce la sua storia per bocca di Marcos, è il modo per dire alla gente che siamo diversi, che siamo irriverenti fino al punto da non prenderci neppure sul serio. In questo senso, diciamo al potere “se non prendiamo sul serio noi stessi, come pretendete che prendiamo sul serio voi?” Per questo possiamo sfidarli, perché ci fanno ridere, non ci fanno paura proprio perché ridiamo di noi stessi. Questo è il lavoro di Durito, a differenza del Vecchio Antonio, che rappresenta piuttosto l’uso della metafora, della favola, il tentativo di dare lezioni guardando al futuro. Per questo la maggior parte dei racconti del Vecchio Antonio ancora non si riescono a comprendere, così come ancora non può essere compresa la maggior parte dei comunicati dell’EZLN.

 

Molti vi giudicano gli ispiratori di quel movimento globale, che iniziato da Seattle, si è esteso a Praga, Genova, Porto Alegre, etc. Ad ogni modo, sembra che voi zapatisti non abbiate cercato i vostri referenti nella sinistra classica, e che l’abbiate scavalcata…

 

C’è un equivoco, perché se cerchiamo i nostri referenti nella cultura rivoluzionaria, perdiamo. Alla fine c’è stata una disputa tra quello che pensavamo noi e quello che pensavano le comunità rispetto a cosa dovesse essere il movimento. All’inizio noi venivamo da una cultura rivoluzionaria e volevamo utilizzare i nostri paradigmi. Il nostro motto era “tutto per noi e niente per gli altri” perché è questo il motto di un politico, quello di un rivoluzionario, che dice “tutto il potere a noi e per gli altri nient’altro che la possibilità di seguirmi o essere eliminati”. E’ lo stesso sia a sinistra che a destra. Quindi scherziamo con i compagni, adesso comandanti, che non conoscendo bene lo spagnolo sbagliarono, traducendo “tutto per tutti e niente per noi”. Io dissi di no, che la frase era “tutto per noi e niente per gli altri” però insistettero continuando a tradurre “tutto per tutti e niente per noi”. Ed è così che è rimasto. Raccontiamo questa storia, io mi arrabbio e dico: “me ne vado, dov’è l’uscita?” e Durito mi risponde che non ci sono uscite. Allora gli domando “Va bene, e io che faccio?”. E lui mi risponde “Rimani e impara”. Ed è quello che è successo: che siamo rimasti e abbiamo imparato. Anche se ci sono state molte resistenze da parte nostra, un vero conflitto ideologico. Tutto ciò finché ci siamo accorti di non parlare lo stesso linguaggio, di non avere gli stessi riferimenti. In quel momento ci siamo sforzati di tradurre per poter dire quello che volevamo dire, perché ci eravamo ritrovati con una visione dei mondo molto più povera di quella degli altri. Alla fine le comunità si imposero e ne uscì un’ibridazione di entrambi i discorsi.
Per questo il nostro linguaggio non è né rivoluzionario urbano e nemmeno propriamente indigeno. E’ una combinazione completamente nuova, un cocktail che non è uguale a nessuna delle sue componenti, la cui essenza va al di là della somma delle parti. Questo è ciò che è accaduto prima del gennaio dei 1994, e lo si deve al grande lavoro interno, quel tesoro di parole accumulato in questi dieci anni di silenzio, che all’esterno non sono mai arrivate e che non sono in nessun comunicato.

Traduzione di Valentina Checchi e Davide Sacco

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