15 Febbraio 2003
il manifesto

We, the people

Ida Dominijanni

«Noi, il popolo, we the people, non vogliamo questa guerra: milioni di americani sono con voi e sfidano il presidente Bush», dice dal palco di San Giovanni a Roma, prima accolta con freddezza poi applaudita con calore, Mss. Campbell, la prima donna sacerdote del consiglio delle chiese degli Stati uniti. We the people, la firma che apre la Costituzione americana, la formula che meglio di ogni altra restituisce una concezione plurale del popolo, che è uno, the people, solo in quanto sa di essere fatto di molti e diversi, we. We the people, diranno poche ore più tardi i manifestanti di New York. Ma anche a Roma, non è solo per bocca della signora Campbell che la formula risuona nell’aria. Nell’aria della capitale italiana oscar della giornata pacifista mondiale, un’aria trasparente e complice come l’inverno romano soltanto riesce a regalare, in trasparenza si vede che c’è qualcosa di nuovo sotto il cielo della politica. S’erano viste, nel corso del tempo, declinare le stelle della rappresentanza di partito, dell’appartenenza di bandiera, dell’identità nazionale e nazionalista; s’era visto, nel corso degli ultimi due anni, salire il sentimento di un movimento multiplo e global, sconfinato nella percezione dello spazio e nella dimensione planetaria degli obiettivi. Ma un corteo così variegato, giovane e maturo, maschio e femmina, così arcobaleno da oscurare tutte le bandiere di parte partito e appartenenza, così globale da non cadere mai nella trappola delle contrapposizioni identitarie che fanno tutt’uno d’un governo nemico e del suo popolo, questo non s’era ancora mai visto. Singolare-plurale:we the people per la pace, in tutto il mondo, senza nient’altro in mezzo, né confini nazionali, né stati, né governi, né partiti. We the people, la firma della Costituzione americana contro il Sovrano americano, la società civile disorganizzata contro l’organizzazione armata, la moltitudine globale contro la Nazione a stelle e strisce che vuol farsi padrona della globalizzazione proclamando guerre di civiltà preventive.
Solchi nuovi, un tempo si sarebbe detto contraddizioni nuove, annunciano il panorama politico del nuovo secolo e riscrivono l’eredità del vecchio. C’è qualcosa di inedito, una specie di eterogenesi dei fini, in questa società civile così americanizzata, dai vestiti agli slogan alla colonna sonora rock, che si rivolta contro la cupola del potere americano. Come se passando dalle forme moderne europee a quelle postmoderne d’oltreoceano, dalla rappresentanza attiva alla videopolitica passiva, dalla democrazia organizzata alla democrazia plebiscitaria, la politica occidentale avesse disegnato un circolo completo e si ritrovasse a un giro di boa: non al tramonto però, ma a un nuovo inizio, in cui l’origine europea e il secolo americano si rimescolano in nuove combinazioni.
Non è solo un nuovo spazio a essere disegnato dal corteo planetario che si snoda di capitale in capitale e di fuso orario in fuso orario, ma anche un nuovo tempo. Nata dalle ceneri del mondo bipolare, cresciuta insieme con le promesse di un mondo globale senza confini, con gli stati declinanti e le identità meticciate, l’altra politica che è già in azione dice, ovunque nel mondo, che la guerra che ripristina i confini, il Leviatano e i certificati di identità è, prima di tutto, anacronistica: fuori tempo massimo. Give peace a chance, canta il corteo, e possiamo dargliene anche più d’una.

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