11 Giugno 2007
Via Dogana n. 81

Io

Stefano Sarfati Nahmad


Il silenzio delle donne milanesi di potere che non si parlano e quello delle amanti della parità dei sessi davanti a cotante donne, viene imputato, dalle autrici dell’articolo Milano senza maiuscole pubblicato su Via Dogana n. 80 (marzo ’07), al fatto che non di parità si tratta ma di uno “sbilanciamento che vede gli uomini in posizione di svantaggio sul terreno della competizione”.
Caduta tutta l’impalcatura del patriarcato, noi uomini ci troviamo senza una rete di protezione, come operai inglesi durante il governo Thatcher: se una ditta non ha più bisogno di noi ci licenzia a cuor ancora più leggero visto che tanto oggi lavora anche lei; se cadiamo in questa situazione e non reggendola chiediamo la separazione, i figli e la casa restano a lei, così vuole la legge; se in seguito a tutto ciò cerchiamo conforto per la nostra virilità ferita in una figura paterna, non lo troviamo perché ai tempi dei nostri padri il patriarcato c’era ancora e oggi sono più impreparati di noi. Lo svantaggio maschile è uno scacco da cui non è facile uscire e a questo si deve aggiungere una sessualità difficile da gestire e un’inferiorità relazionale che non permette gli uomini di fare rete raccontandosi. Forse il silenzio di quelle donne è dovuto alla consapevolezza di trovarsi in cima ad una piramide che si frantuma.
Davanti a questo quadro sembra strano dover constatare che molti uomini non cambiano atteggiamento, continuano a vivere in un mondo tutto maschile, a non fare i conti col desiderio femminile e così facendo si sdoppiano in una personalità apparente e una nascosta che cova di tutto: rancore, odio, avvilimento, depressione. Altri uomini con più capacità di adattamento intuiscono che è possibile evitare l’estinzione come i dinosauri, cominciano a capire che esiste altro, ma ancora non sanno bene cosa fare. Su questo, la politica (basata sul desiderio di relazione) mi ha permesso di sentirmi (come mi dice generosamente Laura M.) quattro passi avanti ed è da lì che scrivo, per dire che penso che il lavoro più importante vada fatto sul linguaggio, in particolare quello tra uomini dove normalmente si crea e circola un simbolico maschile, cioè auto-riferito: tutti in cerchio intorno a un alto totem, le donne non esistono, al massimo esiste un fantasma chiamato donna. Per me è vitale poter dire a un uomo che mia moglie si muove meglio di me nel mondo del lavoro, poter fare riferimento al suo desiderio, riconoscere e mettere in parole la potenza del suo legame con la madre e questo per due ordini di motivi: uno è che questi elementi sono la base su cui poggia la realtà del nostro rapporto e se non li nomino finisco per disegnare un paesaggio inevitabilmente falso, significo una realtà che non esiste il che mette me nella non esistenza; l’altro motivo è che vitale è per me il bisogno di mettere in parole l’esperienza, l’interezza della mia umanità (cito ancora l’articolo di cui sopra) comprende la disparità tra me e lei e ora che lo metto in parole compio un passo a favore della mia libertà perché creo la struttura simbolica che permette al cambiamento di avere luogo.
Questo è per me il terreno della politica, fare esercizio quotidiano di relazione di differenza, elaborarlo e metterlo in parole e capisco che se esse mancano, se è silenzio… è il caso di mettere qualcosa in discussione.

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