11 Settembre 2010
Via Dogana n.94

Lettere a Via Dogana

Care Luisa e Clara,
vi scrivo perché oggi, ascoltando un intervento di Mario Tronti a Padova, a un convegno di alcune settimane fa (14-15 maggio), Donne politica utopia, ho capito, è un po’ buffo forse da dire così, ma ho capito, che cos’è la forzatura del femminismo. L’ho visto, a dir così, per differenza. Non so se vi sia capitato di sentirlo, è disponibile in rete (http://cirspg.cab.unipd.it/progetti/convegni/donne-politica-utopia). Se no, il nocciolo dell’intervento è la tematizzazione del fallimento del femminismo, fallimento che ha, secondo Tronti, la stessa struttura di quello della sinistra operaista e comunista: aver elaborato una pratica e una politica funzionante solo per le élite intellettuali, lasciando a se stesso il popolo, il popolo tout court o il popolo delle donne, che, così abbandonato, è stato attratto nel vortice dell’ideologia e dei partiti di destra, che ora si nutrono anche di un certo protagonismo femminile. Il prodursi di una élite femminile colta, separata e ignorata da “il popolo delle donne”, è paragonato al costituirsi di una sinistra senza popolo, capace di intercettare solo una élite medio borghese. Per questo le donne devono abbandonare l’illusorio ottimismo che pare contraddistinguerle, abbandonare l’illusione che il mondo sia delle donne, per rendersi conto che invece è dei padroni, degli straricchi che fanno e disfano e dispongono dei miserabili. Non aver saputo, e non saper dare forza a questo sguardo realista e disincantato è, per Tronti, l’altra faccia del fallimento del femminismo. Da qui la sfida: le donne dovrebbero attivarsi per saldarsi con pratiche e discorsi che vedono il conflitto politico nella sua radicalità, nella forma classica amico-nemico, portando come loro specifico contributo una civilizzazione del conflitto, riconosciuto come tale, ma complicato e praticato portando al suo interno la relazione.
Questo il sunto dell’intervento di Tronti, forse un po’ ingeneroso, rispetto ai commenti in margine.
Ora, c’è un lato di me, quello cresciuto nella riflessione politica che ho imparato a sviluppare all’università, e nella pratica politica che ho incontrato qualche anno fa, che è stato attratto dal discorso. Un discorso radicale, che guarda alla struttura, che non si fa mettere nel sacco da speranze e immaginari soggettivi. È un punto di vista forte, perché è così facile legittimarlo e difenderlo, ci sono già tutti gli strumenti pronti, e gli spazi che lo contengono. Però non dice tutta la verità, in fondo ne dice poca, ma a quello si arriva, io arrivo, dopo.
La cosa è che, prima di tutto, non dice una verità al contempo fondamentale, ma gracile nello spazio del discorso, una verità cui io non avrei saputo fare posto, che non avrei saputo tenere ferma prima di venire alla Libreria delle donne. Ed è questa la mia piccola verità che quel discorso maltratta: io so che non avrei potuto vivere in un periodo migliore di questo. Tutte le cose che faccio e su cui scommetto per davvero non mi sarebbero state possibili anche solo trent’anni fa, come non lo sono state per mia madre, o lo sarebbero state a prezzi cari, carissimi, di cui voi sapete. Io parto già di lì, da quel molto e diverso che già c’è: dal poter viaggiare da sola in lungo e in largo, dal non essere schiacciata dalla vita e dai suoi tempi, dal poter far valere la mia differenza sessuale, con fatica certo, ma potendo, nel lavoro di pensiero che faccio all’università, per dire qualcosa che non è stato detto, o che è stato detto poco e subito messo da parte, nel non sentirmi sbagliata o scardinata rispetto a una realtà ben calibrata per tutti, ma potendola riconoscere non neutrale, con possibilità che così si aprono anche al di là della mia semplice e privata esistenza. Quando ci penso, so di aver avuto una grande fortuna. Ma dove va a finire questo sguardo diverso, questa verità? È facile farlo mangiare da considerazioni più generali, che così bene si adeguano a una lunga tradizione di pensiero politico, che fanno valere il “peso delle cose” e dei processi profondi che le attraversano di contro a questa piccola cosa. E allora qui capisco che cos’è la forzatura del femminismo, che cos’è il saper tener ferma la fedeltà a sé, non mollare la presa, anche se è un po’ imbarazzante, anche se sembra meno adatto, meno a posto, per poi partire da lì per ritessere la propria posizione e parlare del mondo. E infatti da quel punto lì si riattraversa anche l’intervento di Tronti e lo si vede sfilacciarsi. Ci si chiede a che pro trovare delle sovrapposizioni e delle identificazioni nel negativo, nel fallimento, non solo se sia vero, ma l’utilità di una mossa che non associa nel positivo, ma nella critica radicale, nella autoflagellazione. È una mossa che fa il deserto di pratiche reali diverse, di cose già esistenti e che sarebbero punti di appoggio per il nuovo perché sono già nuove, per affermare invece un’indicazione astratta, disincarnata, che fa il vuoto di speranze e felicità, e quindi di energie per agire davvero e vedere quello che già sta capitando, come consigliava Lia Cigarini in Cambiare l’immaginario del cambiamento (Via Dogana n. 92). È come quando non si riesce a stare a galla e nell’affanno ci si aggrappa a tutto tirandolo a fondo. Ma mi verrebbe da dire, anche alle mie coetanee, con un bel sorriso, che questo annaspare non è di tutti, non facciamoci buttare giù!
Volevo dirvelo per ringraziarvi
Stefania Ferrando

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