16 Settembre 2014

Nadia Campana


Nadia Campana

di Maria Pia Quintavalla

 

«Punta tenera di un dardo /ora io esisto ancora / sfinita dal correre è vero / portami sulle tue ossa/ finché la notte non mi contrari più / madre ogni minima cosa.» Tornare a rileggere Nadia Campana, oggi, a quasi trent’anni dalla sua morte, significa tanto per noi e per Milano, nella città dove venne a vivere, poi a morire. «Degli uccelli strappano i deserti / per vedere scritte in cielo / le loro grida / noi aspettiamo come mali idioti / che avanzano piano /cariche nel cervello / fa giorno, come il cielo è tutto rosso.» La rassegna nazionale Donne in poesia, nata come movimento di ricerca nel 1985 (da me ideata nella continuità storica di una tradizione antologica), apre oggi alla rubrica Le Silenziose, offrendo riletture di poetesse che non ebbero occasioni di ascolto dopo la loro scomparsa: cercando di rimetterle al mondo, nei rivolgimenti e mutazioni che hanno attraversato da sole. Non c’è storia autentica senza le/gli scomparsi, senza farsi riscatto di voci e percorsi interrotti per radicarli di nuovo nella rilettura della loro poesia, per ampliarne la ricerca. Questo patrimonio di autentico pensiero-passione, poetico, deve tornare ad essere di tutti, come all’origine fu il loro gesto di scrittura. L’urgenza d’essere “contemporanee”, e non attuali, le accomuna. Prendo da Marina Cvetaeva la definizione: quel «farsi orecchio del proprio tempo», che fa della scrittura un lavoro a tempo pieno, e che si farà drammatico compito in Nadia Campana, solitaria nel suo cercare precoce una posizione indipendente di pensiero.

 

Oggi, nella ristampa dei suoi saggi Verso la mente /Visione postuma, curati da Emi Rabuffetti, Giovanni Turci e Milo De Angelis per Raffaelli editore, si potrà meglio leggere la sua poesia. Quel suo «rullio-culla» da cui aspettava un dettato prosodico di verità, «le prime cose» o terra di nessuno che c’è, prima che una parola occupi il suo spazio. Infine ascoltarla mentre parla delle magie di rivoluzioni in seno alla lingua, due volte straniera – come già la poesia – nell’esperienza del tradurre: destinata a marcare uno spossessamento dell’io, quell’esperire IL TUTTO nella lingua, e avendo la mente come il solo osservatorio, dell’immortalità o illocalità, insita nella Poesia. Sempre più spesso anche, la seduzione dello svanire, l’esperienza della morte come non premeditata, né espiatoria, ma come offerta calma e ritorno all’origine. Il mare in cui affondare, come evocato nei saggi Visione postuma e Finendo. La sua tensione verso figure di eroine, sorelle o maestre, figure di apolidi, come Cvetaeva e Dickinson, a cui Nadia corrisponde, seguendo un nuovo albero genealogico, che la conferma nella posizione di «singola» ed «estranea», ma si farà crescente appartarsi in lei, giovane, quando l’intransigenza si spingerà fino alla «caduta della linea», o «scavalcamento del nulla, cui cedette», come ne scrive Andrea Zanzotto, nel 1995 in Nuovi Argomenti. Lui parla delle poetiche nate negli anni settanta /ottanta, come nate da un culto della poesia, che richiedeva confraternite e i più cupi ardori. La sola rivoluzione tuttavia, riuscita, e degna di valicare il millennio: quella delle libertà femminili, destinata a produrre mutamenti imprevedibili e di salvazione, e della vita quotidiana, molto prima di quella informatica. Ma che resta mortificata dagli eventi: la generazione «in cui tutte poterono essere protagoniste» di cui Nadia diventa per tutte testimone, a rappresentare la meglio crudeltà (Pasolini), ma che vuole edificare nella poesia «con massicce parole e fatica» la sua sola arma di libertà: la scrittura.

 

Nadia Campana nasce a Cesena nel 1954, morirà a Milano nel 1985. Dopo la formazione classica, lo studio appassionato della letteratura classica e moderna, e delle coeve avanguardie, culminato nella laurea con Luciano Anceschi (La poetica di Antonio Porta), c’è l’incontro con la letteratura anglosassone, gli studi semiotici, infine la scelta di vivere a Milano: l’epifania di Niebo, e l’incontro con Milo De Angelis. Il confronto con quegli assoluti che la obbligano a trascendere l’oggetto amato, sia persona che poesia, le pone sfide legate alla visione metafisica occidentale, visione di certa metafora amorosa del femminile, che lei percepisce come disincarnata. Cresce perciò la sua tensione a raggiungere il rango di poeta, attraverso esperienze cruciali: è Dickinson a spingerla, ma anche Marina Cvetaeva: Marina è nuova, è poeta e rompe col passato! titola un capitolo dei suoi saggi. Ma la spingono a un Altrove sempre più incognito, per consunzione del presente, la espongono al sacrificio, la possono isolare, come faranno, dalla comunità, e quando la “disappartenenza” esperita, diventa una via possibile attraverso il canone, di maggiore respiro, una donna si espone e ne paga.

 

BIBLIOGRAFIA

Nadia Campana, Verso la mente, Crocetti, Milano 1990.

Nadia Campana, Verso la mente / Visione postuma, Raffaelli, Rimini 2014.

Uno sguardo lontano, Atti del convegno di Alessandria, 1983, ora in Visione postuma, cit.

Andrea Zanzotto, Cantari dolorosi, in Nuovi Argomenti n. 2, gennaio – marzo 1995

Niebo, rivista quadrimestrale di poesia letteratura 1977-1980 diretta da Milo De Angelis.

 

(Via Dogana n. 110, settembre 2014)

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