11 Settembre 2010
Via Dogana n.94

The Mother of Us All: ADRIENNE RICH

Stefania Ferrando

Questa pagina non è una rubrica, è piuttosto uno spazio dove reinterroghiamo i testi di alcune donne che hanno pensato prima di noi, con noi, e i cui libri non sono più in commercio. È un’indicazione di lettura che ci aiuta a tenere lo sguardo sul presente, sapendo il grande orizzonte in cui possiamo collocare la nostra domanda di senso. Una breve scheda con un libero commento, per continuare a pensare il cambiamento, senza dimenticare. Fateci sapere se vi piace, vi serve, vi interessa.
Liliana Rampello

«Di qui dobbiamo cominciare». Così, nel 1976, Adrienne Rich, poeta e scrittrice americana, conclude Nato di donna – Of Woman born (trad. it. di Maria Teresa Marenco, Garzanti, Milano 1977-2000). Nelle sue vicende di madre, quasi cinquantenne, di tre figli, oggetti di una rabbia irreprimibile e di una profonda tenerezza, e di «donna che, nata tra le gambe di sua madre, ha ripetutamente e in modi diversi cercato di tornare a lei» (p. 314), è questo il bisogno che le si impone: cominciare dal grumo di sentimenti ambivalenti e di esperienze laceranti che fanno il legame tra madre e figli, e tra figlia e madre, passaggio obbligato per ogni pensiero di trasformazione politica.
È un bisogno che prende corpo perché la maternità è stata presa in una rete di regole, parole, abitudini e attese, con cui, nei secoli, gli uomini hanno determinato il ruolo che compete alle donne. Questa rete – quel che Rich chiama patriarcato – ha lavorato nell’intrico dell’esperienza materna, esasperandone le tensioni nella misura in cui le ha negate e facendone portare tutto il peso alle donne – madri, e figlie. Per questo la maternità, come indica il sottotitolo inglese del libro (Motherhood as experience and institution), non è solo un’esperienza, ma anche un’istituzione. Ma, proprio come tale, può essere rimessa in questione con il coraggio richiesto a chi è costretto a pensare l’impensabile, al prezzo delle lacerazioni che questo gesto comporta (p. 311).
Le donne costrette a pensare l’impensabile: questo mi ha colpita. Negli stralci di diario riportati, nelle poesie e nei brani di prosa, ma anche nelle minute analisi storiche, ci investe la materia di questa necessità: l’angoscia di sentimenti inconfessabili ma sempre più strazianti, tanto più il tempo della madre è frammentato dai tempi dei figli, tanto più le sue notti sono interrotte e lei è rinchiusa in casa con loro (pp. 70 ss.); o la follia delle donne che impazziscono perché non hanno nulla da fare, essendo loro negata, dal timore degli uomini verso le forme di creatività femminile, ogni tipo di partecipazione alla cultura (p. 328). Rich riesce così bene a descriverlo, che, a volte, calate nei limiti di quell’esperienza, manca l’aria. Prorompe il bisogno vitale di una forzatura, che per questo si fa radicale, l’impensato pensato. Eppure a un certo punto si scivola via, io scivolo via: le testimonianze riportate parlano di qualcosa che continua a fare presa, toccano dei punti vivi, ma, paradossalmente, a partire da esperienze che non sono più quelle che ci capitano per lo più. Non è più così che la necessità vi si annoda.
Nel capitolo V, Rich lascia intravedere una domanda: che significa per una generazione di donne non essersi trovata nella circostanza di essere identificate al ruolo materno? Non si tratta semplicemente di dire che il pensiero e la prassi cambiano. È quel che ci può capitare, o no, quel che ci può toccare, o no, e in cui poi pensiamo ed agiamo, a cambiare. Ed è su questo piano, di quel che ci capita, che, mi pare, gli effetti politici del femminismo si sono iscritti nella realtà, ma è anche lì che una pratica della differenza sessuale deve costantemente mettersi alla prova, e rilanciarsi. Anche Rich rileva il problema, nella prefazione critica alla seconda edizione di Nato di donna, del 1986. Ma che cosa significa guardare a quel che accade a partire dalle diverse circostanze che, per le donne, si sono aperte? Rich dà un’indicazione, in un articolo del 1984, La politica del posizionamento: per schivare il rischio di mancare la realtà in tutta la sua complessità occorre situarsi nel proprio corpo. Dire «il mio corpo» costringe a confrontarsi con la difficoltà e la responsabilità di quel che si è senza averlo scelto, con gli ostacoli, i sensi di colpa, le possibilità di essere quel che si è, e di non essere altrimenti. È una sfida che, in Nato di donna, passa attraverso il rapporto tra madre e figlia, attraverso la possibilità, fino a quel momento senza storia, di pensare e praticare un’eredità lasciata alla donna da una donna che è stata in posizione di darle forza e di allargare i confini della sua vita (p. 350) a partire da quel che si è trovata ad essere. Un’eredità da giocarsi attorno al corpo, come risorsa contro una politica, sia quel che sia, dell’astrazione.

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