di Letizia Paolozzi
Le regole non sono mai completamente controllabili. D’altronde, la democrazia non è (non dovrebbe essere) soltanto governo delle regole, bensì libera associazione di cittadini. Per questo, quando sento parlare di “democrazia paritaria”, mi domando cosa significhi.
Significa forse la soddisfazione che ha accompagnato la decisione del Comitato dei 45 “saggi” per via che il 50% dei delegati all’assemblea costituente del Partito democratico saranno donne? Marina Sereni (Ulivo): “È una vittoria di tutte e di tutti”. Albertina Soliani (Ulivo): “Verso le donne il Pd è il partito più avanzato”. E giù con “È un grande traguardo”, “Siamo all’avanguardia in Europa”, “Una rivoluzione rosa”.
Non solo il Pd ma anche l’associazionismo femminile (l’Udi con una raccolta di firme per una proposta di legge di iniziativa popolare, iniziata il 2 giugno scorso; il Laboratorio 50&50; Aspettare Stanca; Usciamo dal silenzio) si richiama alla “democrazia paritaria”. In molte vogliono che sia rispettata in una nuova legge elettorale (senza specificare per quali meccanismi opterebbero: maggioritario all’inglese, proporzionale corretto del modello tedesco, sistema francese e poi premierato forte, soglia di sbarramento, bipolarismo, alternanza ecc.) la piena applicazione degli artt. 3 e 51 della Costituzione. Con l’obiettivo di una rappresentanza parlamentare del 50% di uomini e di donne. Insomma, l’articolazione a due della cittadinanza.
Curiosamente, più è grande e profonda la crisi della rappresentanza (e il tramonto – per fortuna, secondo me – del decisionismo e della verticalizzazione del potere), più una parte del mondo femminile si rivolge alla legge affinché risolva problemi che invece nascono all’interno di un ordine simbolico e come tali andrebbero maneggiati.
Di tutto ciò non si parla. Al contrario, nella “democrazia paritaria” ci si appoggia su un criterio molto semplice: numeri alla mano, tanti sono gli uomini, tante devono essere le donne. Nel frattempo, ingiustizie, difficoltà, contraddizioni verranno risolte – I suppose – senza punti di sutura. Quasi che alla presenza femminile fosse garantito, in partenza, di muoversi in un ambito senza attriti dove non solo “le intelligenze si eguagliano” (Alexis de Tocqueville) ma non ci sarebbe differenza tra l’essere nato uomo e donna.
Io non credo che questa differenza sia possibile (e nemmeno desiderabile) cancellarla mentre ritengo giusto operare contro disuguaglianze spesso insopportabili.
Il numero basso di donne nelle assemblee elettive, in altri luoghi delle istituzioni, pretenderebbe un diverso ragionamento: capire le motivazioni che stanno a monte della debole presenza femminile e di conseguenza i modi per rimuovere gli ostacoli, una volta compreso di quali ostacoli si tratta (se sono le donne a non aver voglia di entrare nell’attuale politica; se sono i gruppi dirigenti dei partiti affetti da cronica misoginia; se i partiti hanno perso qualsiasi attrattiva; se la relazione maschile-femminile è cambiata; se il patriarcato è ancora in agguato).
Al contrario, viene data una risposta monocorde: cinquanta e cinquanta. Il guaio è che non esiste una sola risposta per tutte le domande. O meglio, non esiste una sola risposta per le domande che pongono gli uomini e che pongono le donne. Proprio di fronte a questa dualità la democrazia (come sovranità del popolo) balbetta.
In effetti, quando una dirigente brava e bella come Anna Finocchiaro (dell’Ulivo), rispondendo a una domanda sul Corriere della Sera della giornalista che l’intervistava, afferma che la discesa in campo con una sua lista di Rosy Bindi “non va ridotta a una candidatura femminile”, mi si apre davanti ai piedi una voragine: che giudizio ha Finocchiaro dell’essere donna?
Indicare meccanicamente la presenza femminile misurandola con quella maschile (non era finito il tempo in cui le donne si definivano rispetto agli uomini?) irrigidisce la divisione dei due sessi in blocchi compatti. Una fotografia dove maschi e femmine procedono separati per anagrafe senza che nulla si modifichi nelle relazioni che intrattengono, nell’organizzazione interna ai partiti, nella gestione del potere. Va bene aspirare a un lieto fine ma ho paura che così si finisca con un buco nell’acqua.
Eppure, in tante insistono con il pareggiamento. Provo a darne qualche spiegazione. C’è insofferenza, anzi, un sentimento di umiliazione, per la percentuale molto bassa di donne. La situazione non è cambiata, nonostante i rimedi via via indicati. La strada percorsa dal sesso femminile nella società, rende più stridente la contraddizione.
In più c’è la paura (che capisco bene) ad aprire un conflitto tra donne. Aver voglia di vincere, di affermarsi, è considerata una bestemmia. Temiamo di fare un torto a qualcuna delle portatrici di “saperi, talenti, competenze”? Per evitare la competizione, si introduce un meccanismo che ha il pregio di non somigliare alla vecchia cooptazione e neppure a una nuova forma di protezione. Il fifty-fifty mette tranquille le coscienze. Quelle femminili, certo. E quelle maschili che compiono le beau geste. Senza che nulla cambi. No, veramente non è esatto. Si sperimentano gruppi dirigenti, comitati politici, direttivi, esecutivi raddoppiati. Per esempio: c’erano tre maschi nell’esecutivo? Ora l’esecutivo sarà formato di sei persone: tre uomini e tre donne.
In passato, le grandi comunità (come il Partito Comunista o la Democrazia Cristiana) avevano il loro stile di vita politica. Adesso, quello stile si è perso. Tuttavia, ha ancora un senso la frase di Eraclito: “Le cose non possono stare ferme”. La libertà femminile che procede veloce ha cambiato le cose. Di questa libertà non si tiene contoquando viene avanzata l’ipotesi del 50 e 50. Secondo una simile ipotesi uomini e donne sarebbero divisi da un taglio netto. Invece di sperimentare l’equilibrio sempre fragile, sempre incompiuto tra i due sessi, vengono disegnati due blocchi senza smagliature. Il che finisce per annullare qualsiasi ricerca di pratiche politiche nuove. Ma le idee semplici non sono necessariamente le più efficaci.
Allora, lasciamo tutto com’è? Niente affatto. Avrei da suggerire un compromesso (transitorio) in grado di riflettere il gioco, la sfida, la gara reciproca, senza irrigidire la divisione (o la guerra?) tra uomini e donne: nella quale cioè nessuno dei due sessi superi il 40/60. Mi si risponde che è questione di lana caprina, una semplice sfumatura. Che alla fine non ci sarà il 50% di donne bensì il 40%, forse il 30%. Però, con il calcolo quantitativo, “allineando tutte ai nastri di partenza” (Rosetta Stella sul sito DeA), dubito si possa sanare lo squilibrio tra i sessi. Quando si dice pari e patta, la partita è finita. Tra uomini e donne la partita sulla politicaè appena cominciata.
Resta un punto che per onestà devo riconoscere: la proposta delle livellatrici della differenza sessuale, di quante cioè vogliono una classificazione numerica, trova consenso nell’opinione pubblica. Non posso dolermi di questo risultato giacché dipende dalla politica delle donne in questi trenta anni se l’opinione pubblica è oggi convinta dell’esistenza dei due sessi e commenta, senza tanto starci a pensare sopra: ci sono gli uomini, giusto che ci siano anche le donne. Ma la domanda immediatamente successiva è: quali donne, con quali relazioni tra loro e con gli uomini, e per fare cosa?
(Via Dogana n. 82, settembre 2007)