di Giordana Masotto
Arianna Censi, favorevole alla proposta 50/50, sostiene che non si tratta né di quote rosa taglia large (ma allora era meglio farle elastiche!), né di voler rappresentare le donne per decreto, né di aprire una scorciatoia per quelle che vogliono accedere alla casta dei politici. E Arianna è una donna d’onore.
Dice che sono molte le donne che, senza dimenticarsi di essere donne, vogliono misurarsi con ruoli di responsabilità in politica, soprattutto a livello locale. Ma, continua, quando si arriva al potere vero, là dove c’è denaro da spendere, le loro competenze non contano più. Così sono costrette a perdere tempo ed energie per superare le resistenze finché molte, troppe, abbandonano. Un grande sciupio. Insomma l’emancipazione è incompiuta e le discriminazioni continuano a lavorare nei fatti. L’ipotesi 50/50 dovrebbe servire a correggere questa stortura.
Rianimare il cadavere della democrazia
Che le donne abbiano scarso accesso alla rappresentanza politica dovrebbe preoccupare in primo luogo gli uomini, quanto meno i “sinceri democratici” come si diceva una volta, se hanno a cuore la tenuta e il buon funzionamento del sistema, dal momento che questo modello di cittadinanza non include le donne. Ma dovrebbero interrogarsi sul proprio mandato, sulla rappresentanza: di questi tempi, non pare che molti lo facciano. Qualche segnale viene da un’altra direzione: sono i più sensibili al marketing politico attuale a usare in maniera efficace la leva del femminile. Staremo a vedere se questo aprirà la strada a un principio di dualità nel sistema democratico. I segnali non sono incoraggianti.
Ma le donne? Se non sono personalmente interessate alla politica, perché dovrebbero farsi prendere da un’ipotesi che, nonostante tutti i distinguo, mantiene l’inevitabile sapore di “quote rosa”, quelle che sanno di riserva indiana per perdenti storici, quelle famose di cui tutte dicono che gli fanno un po’ schifo ma se non c’è niente di meglio (per le altre naturalmente, non per sé)…? Tanto poi rimangono tutte chiacchiere e anche le quote rosa sono invecchiate prima di diventare adulte.
Le trentenni di oggi hanno in sé una forza strepitosa: vogliono avere tutto e quindi sono disposte a fare il doppio, il triplo, il quadruplo, pur di non rinunciare a niente. Ed è proprio questa loro forza che gli fa guardare con occhi teneramente rétro (quando va bene) qualsiasi idea, iniziativa che suoni come una battaglia femminista. Tutte storie vintage di quando mamme e zie erano giovani. Quelle storie possono incuriosirle e commuoverle, ma non le riguardano. Le trentenni di oggi hanno questo di misterioso e affascinante, almeno ai miei occhi di vecchia femminista: che, pur sentendosi donne, quando si devono muovere nel mondo, credono davvero che esista il grande neutro universale.
Un po’ bisogna capirle: il grande neutro universale forse esiste e, come dice Zygmunt Bauman, oggi si chiama consumatore: tutte e tutti, soli ma in massa, convinti che si tratta solo di scegliere il modello più conveniente di esistenza. Quello su misura per te, come fosse il piano tariffario del telefonino (ma non si risparmia, non si risparmia mai). E le enormi libertà che abbiamo oggi si riducono alla facoltà di scegliere tra le opzioni date: sempre un po’ deludenti e insensate, come i tasti da pigiare con i centralini automatici. La libertà del desiderio si traduce in omologazione.
Dall’invidia alla gratitudine
Così, per svariati motivi (1. il femminismo è una battaglia che riguarda le donne degli anni ’70; 2. il conflitto è un segno di debolezza; 3. io posso fare tutto, niente mi è precluso; 4. ognuno di noi è solo di fronte alla “grande vetrina”, l’importante è saper fare lo shopping giusto) molte donne sono ben poco coinvolgibili. Sole di fronte alla grande sfida, sono spesso ipercritiche verso le altre, non si identificano. Né le votano. Quando poi una donna è troppo sicura di sé, troppo convinta, troppo aggressiva, l’invidia è pronta a scattare: e l’invidia è sempre, in primo luogo una dichiarazione di interesse, di attrazione. Perché invidiamo solo chi ottiene qualcosa che vorremmo per noi stesse. Come se il suo farsi avanti mi sottraesse qualcosa, sminuisse quel potenziale che sento in me ma al quale non riesco a dare voce.
Fa paura l’invidia delle donne: molto più pericolosa e annichilente del disprezzo degli uomini. E allora, per parare i colpi, pare meglio cancellarsi nel neutro universale e scomparire come donne, non farsi riconoscere, sperare di passare inosservate.
Oppure, se ci si tiene troppo, trovare una battaglia, un obiettivo dietro cui allinearsi, sperando che le altre non vogliano sparare sulla Croce rossa (tanto lo sappiamo che cosa succederà: nessuno imbraccia il fucile, semplicemente si tira avanti lasciandola lì ad arrancare da sola, se ce la fa ok, e sennò pazienza).
Ma Arianna è una donna d’onore e io le credo quando parla del suo lavoro in politica. Sento la sua passione e le dò credito. E come lei la sento in altre. Capisco bene la loro voglia di mettere alla prova la propria competenza, di prendere decisioni, di fare scelte importanti e guardarne le conseguenze. La voglia di riassettare il mondo, o almeno lo spazio intorno a sé. Mi attrae la loro passione e mi incuriosisce il come vogliono riassettare il mondo.
Di queste due cose vorrei che Arianna e le altre parlassero con le donne: la propria passione e i contenuti del proprio agire. Senza illudersi di avere delle deleghe. E vorrei che non smettessero mai di tenere aperto il confronto, che fosse il loro punto d’onore. Anche con quelle trentenni piene di forza e di solitudine. Perché oggi è il mettere in comune la vera scommessa politica. Perché quando non hai più paura che l’altra ti sottragga qualcosa, puoi scoprire la confortante bellezza della gratitudine.
(Via Dogana n. 82, settembre 2007)